Internazionale,  La ricomposizione sociale impossibile di Joe Biden

La ricomposizione sociale impossibile di Joe Biden

Premessa: guerre, nuovo ordine mondiale, democrazia interna

Le pagine che seguono trattano della società statunitense di oggi[n]Questo testo riprende in parte e aggiorna le tematiche dei miei: Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano (DeriveApprodi, Roma 2020) e Stati Uniti oggi: breve ragguaglio sulla conflittualità di classe («Officina Primo Maggio», n. 2, dicembre 2020, pp. 66-69)[/n]. Gli eventi mondiali sono ai margini estremi dell’orizzonte di questa esplorazione. L’Ucraina invasa dai russi è lontana e gli Stati Uniti non sono direttamente coinvolti nella guerra; ma non ne sono “fuori”: una guerra scatenata da una grande potenza – sul piano militare la Russia lo è ancora – chiama sempre in causa l’altra grande potenza. Nessuna delle due è più quella che è stata e l’antagonismo che resta tra loro non ha più le basi storiche e politiche di un tempo. Ma è sempre la politica di potenza a dettare le loro tattiche e strategie e i rapporti reciproci. Se questo fosse l’oggetto del discorso, bisognerebbe ragionare anche sulla “variante cinese”: una nuova grande potenza, governata da un partito che si chiama comunista, i cui comportamenti non hanno nulla degli antichi schemi del sovietismo; la cui espansione è al centro delle preoccupazioni degli Stati Uniti, che però non hanno ancora trovato una linea strategica del tutto convincente attorno a cui organizzare la propria politica.    

Alcune considerazioni schematiche. È la terza volta in questa prima generazione del nuovo millennio che una grande potenza ha scatenato una guerra di invasione. Nelle prime due, gli Stati Uniti di George W. Bush avevano prima attaccato l’Afghanistan, il 1° ottobre 2001, e poi invaso l’Iraq, il 20 marzo 2003: guerre diversamente ingiustificabili, lunghe, distruttive, costose ed entrambe concluse con esiti assai lontani dalle attese. La terza guerra è in corso: la Russia di Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina il 24 febbraio 2022. Non sappiamo quanto durerà e quale sarà il suo esito militare e politico: se l’invasore riuscirà a trattenere per sé parte del territorio invaso, né se la guerra porterà a un cambio di governo in Ucraina come era successo a Kabul e Bagdad. Non sappiamo neppure se in Russia le conseguenze della guerra peseranno “soltanto” sul tessuto economico-sociale, come era successo negli Stati Uniti, o se la somma dei costi puri e semplici delle operazioni militari e delle sanzioni economiche e politiche anti-russe porteranno anche ai sommovimenti istituzionali interni che molti, al di fuori della Russia, ipotizzano o auspicano. 

Nelle dichiarazioni ufficiali, le due guerre condotte in prima persona dagli Stati Uniti e l’impegno odierno a sostegno dell’Ucraina invasa hanno avuto e hanno a loro motivazione l’esportazione e la difesa della democrazia. Ma oltre a non democratizzare i paesi in cui sono state combattute, quelle guerre hanno avuto conseguenze negative sulla stessa democrazia negli Stati Uniti. La situazione economico-politica e sociale degli Stati Uniti di oggi ha le sue matrici originarie nelle contraddizioni aperte dal neoliberismo prima della fine del secolo scorso, ma le sue radici superficiali – almeno dalla Grande recessione iniziata nel 2008 – nel costo enorme di quei due conflitti, quasi decennale quello in Iraq e ventennale quello in Afghanistan[n]La guerra in Iraq (2003-2011) ha avuto un costo che alcuni hanno stimato in circa 2.000 miliardi di dollari (N.C. Crawford, The Iraq war has cost the U.S. nearly $2 Trillion, in «Military Times», 6 febbraio 2020), ma già prima della sua fine, altre stime ne indicavano costi diretti e indiretti molto maggiori: J.E. Stiglitz e L.J. Bilmes, The Three Trillion Dollar War: The True Cost of the Iraq Conflict, Allen Lane, Londra 2008. Quasi due anni prima del ritiro delle truppe statunitensi da Kabul, avvenuto nell’agosto 2021, quelli della guerra in Afghanistan erano stimati intorno a 2000 miliardi di dollari: S. Almuktar e R. Nordland, What Did the U.S. Get for $2 Trillion in Afghanistan, in «New York Times», 9 dicembre 2019.[/n]. Anche l’impegno nella guerra in Ucraina, indiretto ma costoso, ha già reso evidenti le sue ricadute negative sui conti delle famiglie statunitensi (forse contribuendo al basso grado di approvazione – 33 per cento a metà luglio – espresso dagli statunitensi nei confronti di Biden). 

Sebbene la politica internazionale degli Stati Uniti, non sia oggetto di analisi in questa sede (e tanto meno, naturalmente, lo sarà la discussione di torti e ragioni di Russia e Ucraina), non è possibile ignorare del tutto la posizione e il ruolo degli Stati Uniti odierni nell’instabile quadro internazionale in cui la guerra in Ucraina si è inserita. Cercherò soltanto di dare conto brevemente degli atteggiamenti dell’amministrazione Biden prima e dopo la guerra in Europa.

Un mese dopo l’inizio dell’invasione russa, parlando agli amministratori delegati delle maggiori corporation statunitensi riuniti nell’annuale Business roundtable, Biden sottolineava il fatto che la guerra in Ucraina «stava cambiando le cose». Mettere «Putin con le spalle al muro» era improvvisamente diventato un obiettivo. Poteva essere non solo dichiarato, ma ritenuto praticabile, grazie all’unità del mondo economico negli Stati Uniti e alla sostanziale unità dei paesi della Nato a guida americana nel sostenere l’Ucraina. Ma anche, più in grande: «Avremo – ci sarà un nuovo ordine mondiale, e noi dobbiamo guidarlo. E nel farlo dobbiamo unire il resto del mondo libero»[n]The White House, Remarks by President Biden before Business Roundtable’s CEO Quarterly Meeting, Washington, D.C., 21 marzo 2022.[/n]. Come altre volte, una guerra lontano da casa offriva l’occasione per trasformare un avversario in un nemico da abbattere e insieme per riaffermare la propria egemonia globale. Non è casuale, credo, l’utilizzo delle stesse parole con cui George H.W. Bush – Bush senior – evocava le possibilità di un «nuovo ordine mondiale» a guida statunitense dopo la fine della Prima guerra del Golfo e sulla soglia del dissolvimento dell’Urss[n]Rimane implicito, nelle parole di Biden, l’ambizioso obiettivo che nel discorso sullo stato dell’Unione del 29 gennaio 1991 Bush aveva estratto dalla formazione di una coalizione di oltre trenta stati nell’azione contro l’Iraq che aveva invaso il Kuwait l’anno precedente: «Quello che è in ballo è più di una piccola nazione. È una grande idea – un nuovo ordine mondiale in cui nazioni diverse si uniscono in causa comune per realizzare le universali aspirazioni dell’umanità: pace, sicurezza, libertà e stato di diritto.»[/n]. 

Anche se si ripropongono le stesse ambizioni di primazia degli Stati Uniti, le differenze con allora sono molte. Tra queste, il fatto che il 1991 segnò la fine dell’Urss come reale grande potenza e la fine del mondo bipolare novecentesco, mentre ora la sconfitta militare e/o politica della Russia putiniana, quando sarà, porterà a un nuovo bipolarismo: con una Cina potente al posto di una Urss in declino e con gli Stati Uniti internamente divisi che Donald Trump ha consegnato a Biden, e che Biden non ha riunito. La non solidità del terreno su cui egli si è mosso era in parte derivante dalle contraddizioni interne – di cui si parlerà qui – e in parte dal lascito di inaffidabilità delle politiche trumpiane sul piano internazionale, sia verso la Russia, sia soprattutto nei confronti della Cina e della sua concorrenza economica e commerciale globale[n]Si veda il Testo integrale del discorso di Xi Jinping al Forum di Davos, in «Marx 21», 27 gennaio 2017; al sito: Il testo integrale del discorso di Xi Jinping al Forum di Davos – Marx21.[/n]. Il che spiega perché la politica estera ridisegnata nei primi mesi della presidenza Biden avesse il duplice fine di ridare credibilità agli Stati Uniti e di riguadagnarne la perduta centralità nella politica mondiale. Ne ricorderò alcuni passi qualificanti, prima di toccare il drammatico mutamento di rotta messo in atto dalla guerra in Ucraina. 

Subito dopo l’entrata alla Casa Bianca Biden ha riportato gli Stati Uniti negli accordi di Parigi sul clima, nell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) e del Commercio (Omc) e, pur entrando in qualche frizione con gli alleati, ha cercato di normalizzare le relazioni con l’Ue e riportare i rapporti sui binari dell’atlantismo storico. Questo, nei dodici mesi che hanno preceduto l’invasione russa dell’Ucraina e prima che l’assetto economico e politico nel Vecchio continente ne subisse i contraccolpi. Biden ha mostrato di voler riprendere le trattative con l’Iran sul nucleare (ma facendo poi retromarcia). Ha chiuso la guerra in Afghanistan, rispettando gli accordi firmati da Trump un anno prima, rimettendo però la popolazione sotto il dominio talebano e lasciando strascichi presso gli alleati per l’unilateralità della decisione e negli stessi Stati Uniti, sia per il modo maldestro in cui il ritiro delle truppe è stato attuato, sia per il dovere ammettere la sconfitta. Ha fermato la costruzione del muro col Messico voluta da Trump, ma ha mantenuto chiusi i cancelli per gli immigrati latinoamericani e haitiani e, rispetto alle aperture da lui stesso negoziate per conto di Obama, ha fatto retromarcia nei confronti di Cuba. Infine, nel corso di tutto il 2021 ha fatto passi decisi per tornare a un più tradizionale atteggiamento di politica di potenza nei rapporti sia con alleati, sia con avversari. Incluso l’altrettanto tradizionale cinismo di tale politica: dalla rude arroganza nei confronti della Francia, cui ha sottratto d’imperio la fornitura di sommergibili all’Australia, alla disinvoltura con cui sono stati ripresi i rapporti con il Venezuela dopo che la guerra della Russia aveva messo in discussione il quadro dei rifornimenti di gas e petrolio in Europa. La nuova politica si è manifestata nelle nuove pressioni esercitate sull’Europa e la Nato e nell’adozione di una linea di contrasto duro nei rapporti con la Russia e la Cina. Un contrasto che è stato esplicito (e lineare, dopo le incoerenze di Trump) fino alla primavera del 2022, quando Biden si è lasciato andare a dichiarazioni assai poco diplomatiche, non solo nei confronti di Putin, ma anche, durante il viaggio in Giappone nel mese maggio, nei confronti della Cina.  

L’antagonismo nei confronti della seconda si traduce in una strategia il cui baricentro politico è più che mai posto nello scacchiere indo-pacifico e che ha come obiettivo principale il rafforzamento delle alleanze necessarie per accerchiare – con una politica di «contenimento» vecchio stile – il maggiore concorrente economico-politico mondiale degli Stati Uniti. In risposta alla massiccia penetrazione economica cinese in America latina – e alla svolte politiche degli Stati lungo tutta la costa pacifica (ultima la vittoria della sinistra anche in Colombia) – Biden ha risposto appianando le tensioni di Trump con l’alleata Corea del Sud, rafforzando i rapporti con il Giappone e soprattutto dando grande risalto alla protezione statunitense di Taiwan in chiave apertamente anti-Repubblica Popolare. La risolutezza di questa strategia è stata provata non solo dalla firma del patto a tre con l’Australia e il servizievole Regno Unito, che ha incluso la sopraffazione dell’alleato francese (che ha dovuto ingoiare la rottura degli accordi firmati in precedenza tra Canberra e Parigi), ma anche dal successivo Indo Pacific Economic Framework for Prosperity, con cui nel maggio 2022 gli Stati Uniti hanno riunito altri dodici paesi attorno alla prospettiva di intaccare il predominio cinese nell’area (con quella che in Cina hanno subito definito una «Nato economica»). 

Invece la iniziale freddezza nei confronti di Putin era, da una parte, un residuo storico della perenne russofobia novecentesca e, dall’altra, la reazione all’appoggio russo fornito a Trump nella corsa elettorale contro Hillary Clinton. La freddezza è diventata poi allarme alla rilevazione dei movimenti di truppe russe verso il confine orientale dell’Ucraina ed è diventata scontro aperto, dichiarato (e denso di rischiose implicazioni) dopo l’invasione. Alle parole politicamente dure e insolitamente sprezzanti sul piano personale nei confronti di Putin ha fatto seguito un impegno straordinario sul piano politico-finanziario e dei rifornimenti bellici a favore del paese invaso. Le gradazioni del coinvolgimento dei paesi europei a sostegno dell’Ucraina e le riluttanze della Cina a sostenere esplicitamente l’”amico” russo, hanno dato spazio crescente al ruolo guida politico-militare degli Stati Uniti, esercitato in parte direttamente e in parte tramite la Nato. L’incontro con oltre 40 paesi convocato dagli Stati Uniti nella propria base militare di Ramstein, in Germania, a fine aprile 2022, ne è stato la prova più chiara, non soltanto in termini simbolici. In estrema sintesi, gli obiettivi perseguiti da Biden, dopo i primi mesi di guerra, sembrano essere: sostenere politicamente il presidente Zelensky e coinvolgere i paesi europei e la Nato in una potenziale nuova «coalizione dei volenterosi» a guida statunitense; dare sempre più apertamente alle forze armate ucraine una capacità difensiva e offensiva sempre maggiori, fino alla soglia dell’intervento diretto statunitense[n]Le rivelazioni secondo cui gli Stati Uniti hanno fornito all’Ucraina le coordinate precise per colpire la nave Moskva e le posizioni sul campo dei generali russi uccisi con attacchi mirati, indicano che «noi non stiamo più combattendo una guerra indiretta contro la Russia, ma che siamo sull’orlo di una guerra diretta – senza che nessuno abbia preparato il popolo americano o il Congresso a un tale esito»; T.L. Friedman, The War Is Getting More Dangerous for America, and Biden Knows It, in «New York Times», 8 maggio 2022 (corsivo nell’originale).[/n]; rendere evidente e condiviso l’obiettivo di impegnare in una guerra lunga la Russia, contemporaneamente indebolendola con sanzioni economiche sempre più stringenti, ed erodere il sostegno interno di cui Putin ha continuato a godere nei primi mesi del conflitto. Infine, l’obiettivo del «cambiamento di regime» in Russia – il regime change in paesi terzi, che gli Stati Uniti hanno perseguito e attuato in modi diversi e ripetutamente nella loro storia – non è stato dichiarato apertamente, ma sembra rimanere, sotto traccia, all’ordine del giorno. Perlomeno, così sembra essere alla metà di luglio del 2022. 

La statunitense Freedom House, un’organizzazione che misura il «grado di democrazia» negli Stati del mondo, ha pubblicato nel 2021 un rapporto speciale sugli Stati Uniti, che si trovano «in una acuta crisi di democrazia.» Dal Rapporto risulta che nei dieci anni tra il 2010 e 2020 il paese è retrocesso di undici punti – da 90 a 83, in una scala da 1 a 100 in cui 62 è il livello minimo – in fatto di diritti politici e libertà civili. Il culmine della crisi americana attuale è stato raggiunto al termine della presidenza Trump, ma «la crisi non è germogliata improvvisamente in un ambiente politicamente sano» e i problemi che sono sfociati nel 6 gennaio 2021 «si sono accumulati per anni.» Alla fine dello stesso anno, anche lo svedese International Institute for Democracy and Electoral Assistance, giudicava quella statunitense una «democrazia in arretramento». Che la democrazia negli Stati Uniti abbia «urgente bisogno di riparazioni», come ha scritto la Freedom House, è l’assunto da cui ha preso le mosse il New York Times nel marzo 2022, sottoponendo i contenuti dei documenti citati a sei esperti chiamati a discuterne in una tavola rotonda[n]C. Homans, Where Does American Democracy Go from Here?, in «New York Times», 17 marzo 2022; S. Repucci (Freedom House), From Crisis to Reform: A Call to Strenghten America’s Battered Democracy, marzo 2021; International Institute for Democracy and Electoral Assistance, Global State of Democracy Report 2021, Stoccolma 2021.[/n]. 

Dalla opportuna discussione del problema, di cui sono riconosciute centralità e urgenza, emerge un tratto ricorrente nella cultura politica statunitense: guardare la democrazia quasi soltanto in termini politico-elettorali e istituzionali. Nel caso specifico, sono messe in evidenza sia le deformazioni ideologiche secondo cui – si dice – più della metà degli elettori repubblicani continua a essere convinta che Trump sia stato derubato della vittoria elettorale nel 2020, sia le manovre – sempre repubblicane – per attuare una pesante voter suppression, introducendo nei singoli stati leggi gravemente lesive del diritto di voto dei cittadini (in particolare poveri e appartenenti alle minoranze, tendenzialmente propensi a votare democratico) in vista delle prossime elezioni del novembre 2022. Ma non sempre è data l’importanza che merita al rapporto stretto tra scelte politiche e istituzionali e retroterra economico-sociali.  

Nella sintesi dell’ex vice presidente della Banca Mondiale Joseph Stiglitz, «la disuguaglianza economica determina una disuguaglianza politica». Stiglitz è una delle più recenti figure autorevoli che, a partire dal giudice Louis Brandeis nei primi anni Trenta del Novecento, hanno affermato sia con altrettanta brevità, sia con altre parole ed esempi, lo stesso concetto. Brandeis aveva detto: «Dobbiamo scegliere. Possiamo avere la democrazia, o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe»[n]J. Stiglitz, L’impero dei monopoli, in «la Repubblica», 22 novembre 2017. Brandeis cit. in P.S. Campbell, Democracy vs. Concentrated Wealth: In Search of a Louis D. Brandeis Quote, in «The Green Bag», vol. XVI, n. 3 (Primavera 2013), pp. 251-256.[/n]. E infatti le disuguaglianze sociali – arrivate alla loro minore estensione alla fine del lungo secondo dopoguerra, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta – nei successivi decenni del vangelo neoliberista, si sono approfondite costantemente, a scapito della democrazia. La crisi sociale è stata l’altra faccia della mutazione economico-politica del capitalismo nell’ultimo quarantennio. Per la democrazia si è dato un paradossale passo indietro: mentre un’evoluzione futuristica – la «rivoluzione digitale» – cambiava i luoghi e i modi di produrre, di comunicare e di fare circolare il denaro e le merci, la gestione di tutte quelle attività veniva acquisita da un numero sempre più ristretto di individui sempre più ricchi,  sempre più estranei alla vita reale e indifferenti ai bisogni della maggioranza della popolazione. 

Già nel 1990, dopo gli anni di Reagan, lo storico Kevin Phillips aveva denunciato il «trionfo dell’America più ricca» e la «glorificazione del capitalismo, dei mercati e della finanza». Nel 2002, lo stesso Phillips aveva poi affermato che ormai «gli Stati Uniti erano una plutocrazia […]. Le grandi fortune d’America dei primi anni Duemila si erano triplicate o quadruplicate rispetto al 1990, a riprova dell’esplosiva convergenza tra innovazione, speculazione e mania finanziaria e tecnologica». Soprattutto, «la ricchezza» aveva acquisito la capacità di «trascendere i propri confini per arrivare a controllare anche la politica e il governo»[n]K. Phillips, The Politics of Rich and Poor, HarperCollins, New York 1990, p. XVI; Id., Ricchezza e democrazia. Una storia politica del capitalismo Americano (2002), Garzanti, Milano 2005, p. 29 (trad. modificata).[/n]. Oggi quel processo, che il giornalista David Leonhardt ha sinteticamente definito la «monopolizzazione dell’America», è lo stato di fatto: il dominio che poche enormi corporation economico-finanziarie esercitano su tutti i maggiori settori di attività, insieme condizionando la politica istituzionale e il resto della società[n]D. Leonhardt, The Monopolization of America, in «New York Times», 26 novembre 2018.[/n]. Il vertice elitario delle forze economiche e politiche è riuscito nell’ultimo mezzo secolo a rilegittimare per sé privilegi che classismo, razzismo e sessismo garantivano ai loro omologhi tra fine Ottocento e anni Venti. I grandi capitalisti, che nel secondo dopoguerra avevano subito senza mai veramente accettare i compromessi del «capitalismo sociale» e il welfare state, hanno riconquistato – con la violenza economica e sociale e la collusione della politica – un dominio di classe che poi hanno esercitato senza mediazioni, né compromessi. Hanno ridotto a poco più di nulla le organizzazioni dei lavoratori, che si stanno risollevando solo ora. La supremazia grande-capitalistica non è un’anomalia nella democrazia, ma la prova materiale dello svuotamento di contenuti dell’idea stessa di democrazia, del suo concreto regresso a forme di dominio che ripropongono le ingiustizie e disuguaglianze sociali dell’ottocentesca Gilded Age e il capitalismo selvaggio dei robber barons: senza regole e senza organizzazioni dei lavoratori. Nella New Gilded Age degli anni Duemila, dopo quarant’anni di neoliberismo, si è realizzata quella che il sociologo tedesco Wolfgang Streeck ha definito la «de-democratizzazione del capitalismo»[n]W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano 2013, p. 25. M. Debouzy, Il capitalismo selvaggio negli Stati Uniti (1860-1900) (1991), Arianna Ed., Casalecchio 2002; E. Sommeiller e M. Price, The New Gilded Age, Economic Policy Institute, 19 luglio 2018; al sito: The new gilded age: Income inequality in the U.S. by state, metropolitan area, and county | Economic Policy Institute (epi.org).[/n]. 

È probabile che i grandi capitalisti non siano del tutto inconsapevoli della insostenibilità delle contraddizioni sociali e produttive create dalla loro stessa rapacità, ma finora non hanno cercato alternative – né sul piano teorico, né sul piano pratico – al proprio esclusivismo acquisitivo e all’autoritarismo nei confronti del lavoro. Nella crisi strutturale in cui si trovano, come ha scritto Immanuel Wallerstein, sembrano puntare solo ai risultati immediati e ad «accaparrarsi tutto quello che possono finché possono»[n]I. Wallerstein, Il mistero dei salari stagnanti, in «Internazionale», 20/26 ottobre 2017, p. 123.[/n]. La crescita impressionante dell’accumulazione nel tempo della sofferenza per la pandemia sembra esserne una prova lampante. Ha scritto Forbes: «Tre quarti dei miliardari americani sono altrettanto ricchi o più ricchi – di miliardi, o di decine di miliardi o anche di oltre cento miliardi di dollari – di quanto fossero prima della pandemia». Nel complesso, il 30 aprile 2021 – due giorni dopo che Biden aveva ricordato che «20 milioni di americani hanno perso il lavoro nella pandemia» – la stessa Forbes scriveva che nel primo anno di pandemia «i miliardari americani sono diventati più ricchi di circa 1.200 miliardi di dollari». Ma non era (e non è) finita lì. Per Fortune, con i dati aggiornati al periodo tra il 28 marzo 2020 e il 17 agosto 2021, l’incremento era stato di 1.800 miliardi: seicento miliardi in più in meno di cinque mesi. Non solo, negli stessi 17 mesi era aumentato da 614 a 708 anche il numero degli statunitensi con «un conto in banca a dieci cifre»[n]C. Peterson-Withorn, How Much Money America’s Billionaires Have Made During the Covic-19 Pandemic, in «Forbes», 30 aprile 2021; C. Collins, U.S. Billionaires Got 62 percent Richer During Pandemic. They’re Now Up $1.8 Trillion, in «Fortune», 24 agosto 2021.[/n]. Disuguaglianze enormi sul piano economico, che implicano destini individuali e sociali profondamente divergenti. Mutamenti profondi del tessuto sociale e culturale che non possono avvenire dalla sera alla mattina, dovuti soltanto a Trump, o alla pandemia. Che cosa ha reso questo esito possibile? 

  1. Crisi politica e sociale: tra reazione repubblicana (“Roe v. Wade”) e moderatismo democratico 

Quegli obiettivi sono stati raggiunti nel corso dell’ultimo mezzo secolo, usando sia la prepotenza, sia la persuasione, attraverso un’alleanza con pochi precedenti tra Stato e Capitale. Non è stata repressione “vecchio stile”. Parte del successo è venuta dall’essere riusciti a smantellare le grandi concentrazioni operaie e le organizzazioni sindacali e insieme a dividere i subordinati e a convincerli che ciò li rendeva più liberi: ognuno più padrone di sé e del proprio destino, con l’accesso aperto a gerarchie di valore e di merito, senza più l’inganno massificante di ipotetici interessi comuni, “di classe,” da cui – veniva detto e ripetuto – traevano vantaggio soltanto i meno capaci o qualificati e i “diversi.” La distruzione di posti di lavoro industriale e la precarizzazione dei rimanenti, i nuovi posti di lavoro temporaneo e precario, nei servizi poveri e, in generale, l’abbassamento dei livelli salariali sono stati presentati a chi li subiva come unica scelta praticabile a causa dei costi crescenti del welfare state, da addebitare alla connivenza tra uno Stato ipertrofico (Big State) e chi si faceva mantenere “senza far niente” alle spalle della comunità. Dopo i primi passi di Nixon, il cammino decisivo su questa strada fu quello compreso tra lo slogan sulle welfare queens usato dal repubblicano Reagan in campagna elettorale e la «fine del welfare come lo abbiamo conosciuto» sancita dal democratico Clinton con la sua riforma restrittiva, antipopolare del 1996. Nella lotta per la vita, chi non era in grado di competere era giusto che rimanesse al fondo o ai margini dell’aggregato sociale. Questo aveva inteso Margaret Thatcher quando aveva sostenuto che «non ci sono alternative» all’imposizione della cosiddetta austerità sulla maggioranza dei cittadini, e quando aveva detto che «non esiste una cosa come la società», ma soltanto persone, uomini e donne, e famiglie. Tutto questo è stato vangelo dai giorni di Ronald Reagan a oggi. 

Il risveglio dall’ubriacatura ideologica neoliberista sarebbe potuto avvenire con la Grande recessione iniziata nel 2008. Il risentimento popolare contro Wall Street – il grande capitale finanziario responsabile principale del crollo e della crisi – ebbe una ricaduta immediata nell’elezione di Barack Obama nel novembre di quell’anno, che però fornì l’occasione per lo scatenamento di un’offensiva denigratoria senza precedenti nei suoi confronti e per un generale rigurgito di razzismo. A fianco dell’offensiva sul terreno ideologico-politico da parte del Partito repubblicano (si pensi alla infinita opposizione alla riforma sanitaria), gli attacchi razzisti – spudoratamente tali – a supporto dei neoconservatori repubblicani vennero da demagoghi come Donald Trump, da tabloid come il New York Post, dalle chiese e radio di fede evangelica o pseudoreligiosa e da media televisivi come Fox News. Per tutti gli otto anni di Obama l’offensiva contro di lui e la sua azione di governo fu continua, spesso feroce, sempre pregiudiziale. Si prolungò negli attacchi sessisti, altrettanto pregiudiziali e forse ancora più violenti, contro la donna Hillary Clinton, antagonista di Trump nel 2016. E il demagogo, sempre alla testa di entrambe le offensive, ebbe successo nel fomentare e poi capitalizzare i risentimenti degli impoveriti e gli odi dei maschi bianchi. 

Nelle elezioni del 2016 ebbero la meglio i neoconservatori in versione trumpiana al comando nel Partito repubblicano; le forze economico-finanziarie più duramente neoliberiste e insofferenti ai tentativi di introdurre trasparenza e controlli negli affari; le componenti sociali razziste, maschiliste e xenofobe, organizzate o comunque sensibilizzate o incoraggiate negli anni precedenti. Alla fine dei suoi quattro anni, Donald Trump e i suoi lasciarono a Joe Biden una società divisa verticalmente sul piano ideologico-politico e culturale, orizzontalmente dall’aumento delle disuguaglianze e dalla polarizzazione sociale e ingabbiata in una sorta di confusione culturale – con al suo centro l’indifferenza trumpiana tra vero e falso, tra fatti e opinioni, tra ragionamenti e fantasie… – definita come una letterale «crisi epistemica»[n]D. Roberts, America is facing an epistemic crisis, in «Vox», 2 novembre 2017; al sito: America is facing an epistemic crisis – Vox; Y. Benkler, R. Faris e H. Roberts, Network Propaganda: Manipulation, Disinformation, and Radicalization in American Politics, Oxford Scholarship online, 2019; al sito: Epistemic Crisis – Oxford Scholarship (universitypressscholarship.com).[/n]. Infine, tra gli effetti devastanti della pandemia da Covid-19, ci sono stati anche quelli sull’occupazione e sui lavoratori, in maggioranza donne e uomini afroamericani e ispanici, costretti alla presenza nei “lavori necessari” nei servizi pubblici e nei trasporti, negli ospedali, nel commercio e nelle consegne a domicilio. Non è possibile essere categorici, ma è probabile che nel novembre 2020 senza le persistenti opposizioni delle donne a Trump, senza gli indegni comportamenti dello stesso Presidente nei confronti della gravità della pandemia (in buona parte, però, compensati dagli aiuti economici emergenziali forniti durante la sua amministrazione), senza la estensione e durata del movimento di massa afroamericano contro le violenze poliziesche e senza un parziale ritorno di protesta operaia…senza, in altre parole, una ripresa di protagonismo sociale dal basso, diffuso e spesso confluente nella sollevazione, Trump non sarebbe stato sconfitto. E comunque la sconfitta fu severa per lui, ma non per il suo partito, che guadagnò voti ai danni dei democratici sia in molti Stati, sia a livello nazionale. A conferma del fatto che la popolarità di Trump si era incrinata e che le antipatie nei suoi confronti si erano fatte strada anche tra i votanti repubblicani, e però, anche, che il «trumpismo» che informava di sé il Partito repubblicano non era un fenomeno passeggero. 

Nel 2021, il moderato Biden non era partito male. Nei suoi primi mesi il neopresidente si era spinto più in là di quanto chiunque pensava che potesse fare, e per un attimo sembrò che una svolta nella politica istituzionale fosse possibile. Nel progetto di riforma presentato nella primavera 2021 era prefigurata una rottura netta non solo con la presidenza Trump, ma con l’economia politica neoliberista dominante negli Stati Uniti – e nel mondo – negli ultimi decenni. Non certo il socialismo di cui l’accusavano i suoi antagonisti di destra, ma la strada verso una maggiore equità sociale nel capitalismo. I processi decisionali iniziali della sua presidenza hanno avuto tempi e contenuti “rooseveltiani” (avviare una svolta economico-politica radicale di lungo periodo) e, insieme, una fretta di stampo “machiavelliano” (cancellare subito l’impronta del predecessore) per garantire i voti al suo partito nel 2022. Intenti apprezzabili e assai ambiziosi. Dopo l’adesione o subalternità di tutte le forze della politica istituzionale agli imperativi del neoliberismo, i suoi progetti di riforma hanno mostrato che è possibile pensare secondo logiche diverse da quelle correnti. Quasi immediatamente dopo, però, si è visto che il cercare di metterle in pratica è destinato a scontrarsi con interessi, inerzie e pregiudizi contrari; in altre parole, a fronteggiare ostacoli che diventano insormontabili, se la riforma non ha dietro di sé il sostegno di un intero partito largamente maggioritario in Congresso o la pressione di un forte movimento di popolo. E il Biden presidente che non ha potuto contare né sull’uno, né sull’altra, nel suo secondo anno ha dovuto raffreddare i suoi ardori riformisti.

Nella frammentazione sociale e culturale che divide la società statunitense, i movimenti progressisti di massa degli ultimi anni – di afroamericani, donne e giovani – hanno tenuto insieme la parte “buona” dell’elettorato quanto è bastato per fermare Trump. Ma nei lunghi mesi della pandemia l’informale coalizione che pure la sollevazione afroamericana aveva coagulato dopo l’omicidio di George Floyd, contribuendo al sussulto a favore di Biden nel novembre 2020, ha perso coesione; non ha avuto la tenuta e la forza propositiva sufficienti per fornire al progetto di riforma del neopresidente l’ulteriore spinta di cui avrebbe avuto bisogno nel 2021. Nell’estate del 2022 appare chiaro che il filo-neoliberismo di classe e casta ha vinto sulla riforma. La gittata alta e lunga del tiro tentato da Biden nel suo primo anno non ha avuto e non avrà nel futuro prossimo la propulsione necessaria per avvicinarsi a quegli obiettivi sociali e culturali su cui la mira era puntata. Prendendo atto della propria debolezza e con la spada di Damocle delle elezioni di midterm del novembre 2022 – e con l’improvviso terremoto dell’invasione russa dell’Ucraina – Biden ha abbassato il tiro nel bilancio per il 2023. Ha cercato di mantenere alti gli impegni di spesa, ma il piglio, le parole e i contenuti dei programmi per l’anno a venire erano molto diversi da quelli dell’anno precedente. Nel corso dell’anno le cose sono cambiate ancora.

Nelle nuove proposte compaiono l’aumento di stanziamenti per le forze di polizia e l’incremento delle spese militari – per rafforzare sia le dotazioni Nato, e sostenere militarmente l’Ucraina, sia per la difesa interna – che contengono un implicito ma chiaro richiamo a uno stato di allerta nazionale (anche questa, forse, ritenuta un’utile carta pre-elettorale); iniziative per ridurre l’eccessivo commercio e uso di armi all’interno degli Stati Uniti (che si è scontrato con la decisione della Corte Suprema “trumpiana” favorevole al possedere e portare coin sé liberamente armi da fuoco); stanziamenti a favore dell’edilizia popolare e delle strutture produttive funzionali a rispondere ai bisogni di rifornimenti essenziali; (piccolo) innalzamento delle tasse per grandi ricchi e corporation e infine, andando incontro alle richieste di tutti i moderati, la riduzione del deficit per mille miliardi. È significativo, ha commentato il New York Times, il passo indietro rispetto «alle grandi iniziative sul sociale, il clima e l’economia che Biden aveva presentato l’anno scorso» ed è evidente l’intenzione di scendere a patti con l’opposizione dei “moderati” presenti nello stesso Partito democratico. I bilanci dello Stato, ha detto il Presidente, «sono dichiarazioni di valori, e il bilancio che presento oggi indica chiaramente che diamo valore alla responsabilità fiscale, alla sicurezza in patria e nel mondo e agli investimenti che sono necessari per proseguire verso una crescita equilibrata e per costruire un’America migliore»[n]The White House, Remarks by President Biden Announcing the Fiscal Year 2023 Budget, 28 marzo 2022;  Z. Kanno-YoungsA. Rappeport e E. Cochrane, Biden’s $5.8 Trillion Budget Pivots Toward Economic and Security Concerns, in «New York Times», 28 marzo 2022.[/n]. Un altro Biden, da quello di un anno prima. 

È come se la spinta con cui egli aveva tentato di scavalcare il fossato di quarant’anni di politica antipopolare fosse stata insufficiente e a tre quarti del balzo ci fosse caduto dentro. Il salto non era facile e la responsabilità dell’insuccesso non è tutta sua: il terreno da cui lo aveva spiccato era malsicuro per i molti detriti instabili che ostacolavano la rincorsa. Sottovalutarli è stato l’errore politico del neopresidente e dei suoi consiglieri. Non c’è dubbio, come ha scritto Michelle Goldberg sul New York Times, che «l’orrendo stato della nostra politica negli ultimi anni» sia uno, forse il peggiore, dei frutti maturati con il trumpismo[n]M. Goldberg, The Mental Health Toll of Trump Era Politics, in «New York Times», 21 gennaio 2022.[/n]. Ma è nella pianta della democrazia che la circolazione della linfa vitale ha perso vigore. Fuori dalle metafore, le conclusioni critiche raggiunte dagli istituti citati in apertura si avvicinano soltanto alla realtà delle cose. La crisi della democrazia e il distanziamento tra politica dei partiti e popolo erano già in atto prima di Trump. Anzi, proprio il fatto che siano state possibili la candidatura e l’elezione di uno come lui nel 2016 dice chiaramente quanto la demagogia – la spudorata manipolazione della realtà per i propri fini mediatici e di potere – e l’uso delle istituzioni per il proprio esclusivo interesse di parte si fossero impadroniti del Partito repubblicano e fino a che punto fossero arrivati i malesseri e la frantumazione sociale e il disordine ideologico-politico nel paese. Come è noto, il culmine della crisi istituzionale e politica è stato raggiunto con i tentativi di rovesciare l’esito elettorale, spinti fino alla concreta elaborazione di progetti eversivi da parte degli uomini di Trump e con l’attacco armato al Campidoglio del 6 gennaio 2021. 

Ed è altrettanto grave che a un anno di distanza Donald Trump abbia potuto ancora affermare pubblicamente che se rieletto nel 2024 grazierebbe i partecipanti a quei disordini e che, subito dopo, il Comitato nazionale repubblicano abbia definito le violenze del 6 gennaio come «legittimo discorso politico», contemporaneamente censurando due propri senatori di rilievo – Liz Cheney e Adam Kinzinger – per la loro dissociazione dall’attacco e dal comportamento di Trump (ancora più “grave” nel caso di Cheney, che ha accettato di entrare a fare parte della Commissione congressuale che indaga sulle responsabilità dirette di Trump nei fatti del 6 gennaio). Poi, a ennesima testimonianza dell’abissale involuzione etica e politica del Partito repubblicano, è arrivata la dichiarazione – votata a giugno dai delegati alla convenzione statale del Texas e inserita nella piattaforma politica ufficiale del Partito – secondo cui l’elezione di Joe Biden alla Presidenza è stata «rubata» a Trump ed è quindi illegittima[n]R.J. Epstein e S. Goldmacher, How the G.O.P.’s Censure Fight Exposes the Party’s Deeper Divide, in«New York Times», 10 febbraio 2022; A. Payabarah e D. Montgomery, Texas Repubblicans Approve Far-Right Platform Declaring Biden’s Election Illegitimate, in «New York Times», 19 giugno 2022. Nella stessa piattaforma l’omosessualità è definita come «scelta di vita anormale» ed è ribadita la contrarietà all’aborto.[/n]. 

Infine, è arrivato l’“evento” forse più rappresentativo della determinazione reazionaria dei repubblicani odierni, che mette nella più grande evidenza l’intreccio tra orientamenti ideologici di parte, decisioni istituzionali che ne discendono e loro ricaduta sociale. Il 24 giugno, la Corte Suprema a maggioranza conservatrice-trumpiana ha deciso la cancellazione della sua antica decisione del 1973 sul caso “Roe v. Wade” con sei voti a favore e tre contrari. Le donne negli Stati Uniti hanno difeso per decenni dagli attacchi continui di tutte le destre, religiose e non, il diritto di aborto che “Roe v. Wade” aveva legalizzato. Soltanto ora, grazie a una Corte in cui la maggioranza dei giudici è ideologicamente schierata con l’attuale Partito repubblicano, quegli attacchi hanno avuto successo. Indipendentemente dalla reazione di massa dei movimenti delle donne a tale decisione, che è stata immediata e durerà a lungo, la portata della decisione è enorme sul piano sia simbolico, sia pratico, sia ideologico-politico. In almeno metà degli stati il diritto di aborto sarà cancellato e dove resterà in vigore crescerà l’aggressività delle componenti politiche e religiose oscurantiste contro le persone, organizzazioni e strutture che ne proteggono l’effettuazione. La decisione della Corte è l’espressione, al livello giuridico più alto, dell’arroganza con cui il potere viene esercitato dalle componenti reazionarie quando sono in posizione di forza. E testimonia quanto sia reale e profonda – e pericolosa per la stessa laicità dello stato – la contrapposizione ideologico-politica nella società e nelle istituzioni e di quanto il diritto possa essere piegato al volere di chi si trova a gestirlo. La divisione sociale e politica attraversa le appartenenze di classe e di genere (soprattutto tra i bianchi) e contribuisce a dividere verticalmente il paese. Ma altrettanto reali sono le profonde disuguaglianze sociali che, in buona parte, le generano o, comunque, le accompagnano.   

«Quando ho assunto la mia carica, gli Stati Uniti erano una nazione in crisi», ha scritto Biden alla fine di maggio del 2021 nel Messaggio posto a introduzione del suo progetto di bilancio per il 2022. Da allora, qualcosa è cambiato, ma la crisi rimane aperta. L’economia, nonostante la persistente presenza del Covid-19, è cresciuta più di quanto abbia fatto negli ultimi decenni, con il Pil che è aumentato al tasso annuale del 5,7 per cento tra gennaio e dicembre del 2021. La disoccupazione, che era al 6,3 per cento a gennaio 2021, è scesa al 3,6 per cento a fine giugno 2022 e tra l’entrata in carica di Biden e quest’ultima data sono stati creati circa sei milioni di nuovi posti di lavoro. Complessivamente, sono stati recuperati quasi del tutto i 22 milioni di posti persi dall’inizio del 2020. Infine, viene detto, i salari sono cresciuti del 4,7 per cento nel corso dell’anno e i redditi hanno tenuto, anche grazie ai sussidi emergenziali[n]The White House, Remarks by President Biden before Business Roundtable, cit.; T.J. Smith, U.S. Economy Grew 1.7% in 4th Quarter, Capping a Strong Year, in «New York Times», 27 gennaio 2022.[/n]. Questi i dati statistici. Tuttavia, se si guarda sotto i diagrammi e le tabelle si scoprono realtà che i numeri non descrivono. È qui che nasce la contraddizione tra le cifre positive dell’economia e la diffusa percezione che “le cose” non vadano bene rilevata dai sondaggi. Anzitutto, tralasciando la prolungata presenza del Covid-19 e le letture ideologicamente pregiudiziali della realtà, il dato di fondo: bene la crescita della domanda di forza lavoro e dell’occupazione, ma per buona parte di chi lavora o vorrebbe lavorare l’occupazione continua a essere, come prima della pandemia, largamente precaria, temporanea, a tempo parziale e molto spesso priva di coperture assistenziali e previdenziali. Queste ultime sono generalmente fornite da assicurazioni private, o sono garantite dagli accordi sindacali; ma la loro estensione nei luoghi di lavoro è limitata per la debolezza delle unions, la cui presenza nel settore privato è ridotta ai minimi termini. Inoltre, gli aumenti salariali per gli occupati e la crescita economica sono più che annullati dall’inflazione, che a giugno ha superato il 9 per cento. Da questo stato di cose discende, almeno in parte, la crescita delle agitazioni nel mondo del lavoro. 

I comportamenti dei lavoratori non sono univoci; anzi, sono leggibili in almeno due modi opposti; secondo alcuni osservatori, i benefici reali della ripresa risultano talmente poco consistenti da stimolare rivendicazioni e scioperi; per altri, invece, sono proprio la crescita dell’economia e la conseguente maggiore domanda di forza lavoro a indicare che è il momento buono per chiedere aumenti, oppure per “mollare” posti di lavoro cattivi e cercarne di migliori. A dire il vero, il numero di scioperi e proteste aveva iniziato a crescere nel biennio 2018-19. Aveva avuto poi una flessione a causa della pandemia nel 2020, compensata però, in un certo senso, dalla più generale mobilitazione sociale seguita all’uccisione di George Floyd a fine maggio e durata fino all’elezione di Biden a novembre. Riprendeva vigore tra l’estate e l’autunno del 2021 con un’impennata tale da meritarsi una sua etichetta mediatica: Striketober, ottobre degli scioperi. L’altra etichetta diventata popolare è quella della Great Resignation, la “Grande dimissione”: milioni di lavoratori che abbandonano il posto che hanno, magari attingendo per qualche tempo ai risparmi o ai sussidi emergenziali, per mettersi in proprio[n]Su chi sia da intendersi come lavoratore autonomo (self-employed, o independent worker), esistono divergenze che richiederebbero analisi specifiche della realtà e delle sue interpretazioni. Non entro nel merito. Mi attengo qui ai dati e all’interpretazione del Pew Research Center: dopo il calo nel periodo della pandemia, il lavoro autonomo – circa 16 milioni di persone – è stato rapido a riprendersi e a tornare ai livelli pre-Covid già nel corso del 2021; R. Kochhar, The self-employed are back at work in pre-Covid-19 numbers, but their businesses have smaller payrolls, Pew Research Center, 3 novembre 2021; al sito: Self-employed are working at pre-COVID-19 levels but have fewer employees | Pew Research Center.[/n] o cercare nel frattempo un posto migliore, che contano di trovare grazie alla fase economicamente positiva. Torneremo più avanti sulle dinamiche interne al mondo del lavoro.

Nell’ultimo quarto del 2021, mentre la crescita economica registrava la sua punta massima, il tasso di approvazione per Biden scendeva nei sondaggi al 42 per cento (a metà 2022 è sceso ancora). Sono la politica «orrenda» e le particolari caratteristiche delle divisioni ideologico-politiche attuali che spiegano perché a Biden non sia bastato avanzare i suoi apprezzabili Jobs Plan e Families Plan per evitargli lo scivolone. Era certo già da prima del suo ingresso alla Casa Bianca che non avrebbe avuto vita facile. Cessata l’urgenza della mobilitazione contro Trump, e dopo i primi mesi positivi delle scelte unilaterali del neopresidente e del largo favore che ha accolto le sue proposte di riforma c’è stata una caduta della tensione che aveva tenuto insieme i suoi elettori nel novembre 2020. Ma nel ribaltamento del giudizio sul suo operato c’è anche altro. Anzitutto, è probabile che abbiano pesato il protrarsi della pandemia e gli insuccessi dei piani di vaccinazione – a febbraio 2022 erano 60 milioni i non vaccinati – in gran parte dovuti alla chiassosa campagna “contro” e alle ostilità dei tanti no-vax presenti, e dominanti, nella metà della popolazione egemonizzata da repubblicani e altre destre varie. Poi, hanno di sicuro giocato contro di lui l’efficacia del generale battage mediatico negativo sui modi infausti del ritiro dall’Afghanistan, il prevedibile furore dei repubblicani contro i suoi programmi rooseveltiani e infine il prolungato, brutto spettacolo delle distruttive divisioni interne al Partito democratico nei confronti dei suoi progetti di spesa sociale. Ed è anche probabile che queste ragioni abbiano contribuito a far sì che la parte di popolazione che pure rifiuta l’estremismo “trumpista” dei repubblicani e che ha subito per anni la perdita di status e di reddito, sia tornata alla vecchia disaffezione nei confronti della politica partitico-istituzionale in quanto tale. Può apparire curioso che ciò sia avvenuto nonostante sia stata la prima volta negli ultimi decenni che in “alto” venivano denunciati i danni del neoliberismo e tentate risposte ai tanti bisogni inappagati del “basso”. 

In realtà, l’insieme è una testimonianza abbastanza precisa dell’autoreferenzialità presente nella politica dei partiti, di quanto siano grandi i malesseri economici, sociali e culturali e di come le contrapposizioni ideologiche e identitarie frantumino le coscienze e le coerenze. E alla metà del 2022 le circolanti anticipazioni relative al bilancio per il 2023 indicavano che la corsa progressista dello stesso Biden aveva perso il suo slancio. Appena entrato in carica, Biden aveva spazzato via l’impronta di Trump nelle stanze e nei corridoi della Casa Bianca e dei ministeri, invece la divisione ideologica e la crisi culturale e morale del paese, di cui la politica è insieme causa ed effetto, erano troppo profonde perché le potesse sanare in poco tempo. 

Come Michelle Goldberg, ma spostando lo sguardo sul mosaico sociale, anche David Brooks – altro giornalista del New York Times – ha riepilogato lo stato delle cose alla fine del primo anno di presidenza Biden, prendendo spunto dalle rilevazioni sociali e dall’osservazione diretta. Nessuno dei due giornalisti ha imputato al neopresidente la colpa di non avere ricomposto i frantumi di cui altri erano responsabili, ma entrambi mostravano quanto il quadro rimanesse preoccupante. Brooks ha scritto che il tessuto della nazione si sta sfilacciando: le «cuciture» che lo tengono insieme si stanno lacerando e il paese va in pezzi. Che li si osservi dall’alto oppure dal basso, gli Stati Uniti appaiono «una società che si sta dissolvendo», da tempo attraversata «da una caduta dei vincoli solidaristici e dalla crescita dell’estraniamento e dell’ostilità reciproca». Le prove elencate sono molte: l’incremento di violenza e omicidi nelle città, il vasto uso e abuso di oppioidi, la crescita delle morti per overdose e dei suicidi (anche tra i giovani), l’ininterrotta crescita nell’acquisto di armi, l’aumento degli incidenti stradali dovuti ad alcol o droghe, la maggiore aggressività a sfondo razziale e la litigiosità nei rapporti interpersonali, la dissoluzione dei legami familiari (e la crescita del numero di bambini con un solo genitore), il diffuso disordine mentale e perfino il calo delle donazioni benefiche e l’allontanamento dalle chiese… – problemi sociali e culturali, psicologici e morali. «Istituzioni politiche sclerotiche che hanno smesso di funzionare» e un «problema collettivo senza soluzioni individuali», per Michelle Goldberg; «veleni» e qualcosa di «profondo e oscuro», scrive infine Brooks, di cui «io non conosco la spiegazione. So soltanto che la situazione è disperata»[n]Ibid.; D. Brooks, America Is Falling Apart at the Seams, in «New York Times», 13 gennaio 2022. Secondo il Center for Disease Control and Prevention (Cdc) il numero di suicidi, che era aumentato del 35 per cento tra il 2000 e il 2018, è diminuito leggermente nel triennio 2018-2020. E nel 2020 sono diminuiti del 3 per cento rispetto al 2019 (45.855 contro 47.511), ma sono aumentati tra i più giovani. Nello stesso anno si è verificato un aumento record di omicidi ed è continuata la crescita delle morti per overdose; si vedano: S.C. Curtin, H. Hedegaard e F.B. Ahmad, Provisional numbers and rates of suicide by month and demographic characteristics: United States, 2020, Vital Statistics Rapid Release; n. 16, National Center for Health Statistics,  Hyattsville, MD, Novembre 2021; al sito:  https://dx.doi.org/10.15620/cdc:110369; Cdc/ National Center for Health Statistics, Suicide in the U.S. Declined During the Pandemic, 5 novembre 2021; al sito: Suicide in the U.S. Declined During the Pandemic (cdc.gov). J.D. Goodman, Angry Drivers, Lots of Guns: An Explosion in Road Rage Shootings, in «New York Times», 12 aprile 2022. Secondo il National Center for Health Statistics, le morti per overdose, causate in grande maggioranza da oppioidi, hanno superato le 100.000 unità nel 2021 (+35 per cento sul 2020); G. Lopez, Overdoses Are Increasing at a Troubling Rate, in «New York Times», 13 febbraio 2022. Nel 2020 sono arrivate a 99.000 (+ 25 per cento sul 2019) le morti legate al consumo eccessivo di alcool; A.M. White, I-J. P. Castle, P.A. Powell et al., Alcohol-Related Deaths During the Covid-19 Pandemic, in «Jama Network», 18 marzo 2022; al sito: Alcohol-Related Deaths During the COVID-19 Pandemic | Addiction Medicine | JAMA | JAMA Network[/n]. 

Quattro mesi più tardi, i media registravano le chiusure dei conti statistici relativi al 2021. Alcune conferme: le morti per overdose sono arrivate a poco meno di 108.000 nel corso dell’anno (con un incremento del 15 per cento sul 2020, che aveva registrato un +30 per cento sull’anno precedente) e «una quota crescente di morti continua a venire da overdosi da fentanyl, un tipo di potente oppioide sintetico mescolato spesso con altre droghe e con metanfetamina, uno stimolante sintetico […] Le morti per overdose da tempo hanno superato quelle causate da Aids, incidenti stradali, armi da fuoco»[n]Della storia, natura e gravità della «crisi degli oppioidi» di questi anni hanno scritto un libro importante A. Case e A. Deaton, Death of Despair and the Future of Capitalism, Princeton University Press, Princeton 2020[/n]. A loro volta queste ultime, salite a 45.000 nel 2020 (+35 per cento rispetto al 2019) hanno raggiunto la cifra massima mai registrata dal 1994 in poi. E le due ultime stragi del mese di maggio – il 14 nel supermercato Tops di Buffalo (New York) e il 24 nella cittadina di Uvalde (Texas), in cui sono state uccise 10 e 21 persone – hanno indotto ad aggiornare la lista degli omicidi di massa con armi da fuoco. Le stragi in cui sono state uccise o ferite almeno quattro persone (escluso lo sparatore) sono state 336 nel 2018; 417 nel 2019; 611 nel 2020, 693 nel 2021; 172 nel periodo 1° gennaio-31 maggio 2022, con poco meno di 200 morti e più di 700 feriti. Ma per completezza di informazione vale la pena citare le frasi d’apertura di un articolo del New York Times del 17 giugno (dopo che il 1° giugno a Tulsa uno sparatore aveva ucciso quattro persone prima di suicidarsi): 

«Trentacinque persone sono state uccise in stragi di massa avvenute a Buffalo, Uvalde e Tulsa nelle poche ultime settimane, focalizzando l’attenzione nazionale sul problema tipicamente americano delle armi. Nello stesso periodo, circa 1.800 persone sono state uccise e quasi 500 ferite in 1.600 altre sparatorie avvenute negli Stati Uniti, ultima quella avvenuta in un magazzino di Los Angeles nell’ultimo weekend». 

Questo computo, compilato sui dati del Gun Violence Archive di Washington, riguardano tutti gli uccisi e feriti con armi da fuoco indipendentemente dal numero delle persone coinvolte[n]F.B. Ahmad, L.M. Rossen e P. Sutton, Provisional drug overdose death counts, National Center for Health Statistics, 2021; N. Weiland e M. Sanger-Katz, Overdose Deaths Continue Rising, With Fentanyl and Meth Key Culprits, in «New York Times», 11 maggio 2022; R.C. Rabin e T. Arango, Gun deaths surged during the pandemic’s first year, the C.D.C. reports, in «New York Times», 10 maggio 2022;D. Wolfe e J. Murphy-Teixidor, Mass Shootings in the US Fast Facts, 16 maggio 2022, al sito: Mass Shootings in the US Fast Facts – CNN  (i dati qui riportati possono essere imprecisi per difetto, non includono le sparatorie in cui i morti sono stati meno di quattro, sparatore/ri escluso/i).  Il giorno dopo la strage di Uvalde il «New York Times» ripubblicava un ampio articolo di analisi del 2017, ma con tutti i dati aggiornati: N. Kristof, How to reduce shootings, 25 maggio 2022. Infine: G. Lopez, The Morning. A small number of blocks often account for most of the gun violence in U.S. cities, in «New York Times», 16 giugno 2022.[/n].

2. Una storia che vale la pena non dimenticare: necessità e sconfitta dell’anti-neoliberismo.   

Mi sembra opportuno fare un passo indietro e dedicare qualche pagina al 2021 del neopresidente. Nei primi tre mesi del suo mandato Biden firmava oltre 60 Azioni esecutive, molte più degli ultimi suoi predecessori, e 24 di esse revocavano «scelte sbagliate» e socialmente «dannose» prese da Donald Trump. Varava numerosi provvedimenti di intervento immediato per la vaccinazione di massa, contro la disoccupazione e i disagi economici creati dalla pandemia (Rescue Plan, per 1.900 miliardi di dollari). A maggio formalizzava i due assai ambiziosi programmi di riforma e spesa anticipati nei mesi precedenti (Jobs Plan, 2.300 miliardi, e Families Plan, 1.800 miliardi) e a luglio pubblicava un inclusivo Ordine esecutivo articolato in 72 direttive diverse «a favore della concorrenza, dei consumatori e dei lavoratori». Contemporaneamente nominava personalità progressiste a posti di rilievo della macchina politico-amministrativa in materia di politiche sociali. 

Nelle formulazioni originarie i Piani per il lavoro e per le famiglie implicavano la distribuzione pluriennale degli investimenti. Doveva invece avere attuazione immediata l’unica spesa in continuità con l’amministrazione Trump: il rinnovo dell’intervento emergenziale per fornire reddito e assistenza a chi li aveva perduti nei mesi della pandemia. (Al proposito, è stato politicamente sintomatico che, mentre entrambi i partiti in Congresso avevano collaborato per arrivare al Cares Act firmato da Trump nel marzo 2020, un anno dopo l’opposizione dei repubblicani nei confronti del Rescue Plan di Biden è stata totale.) Il piano di emergenza di Biden prevedeva un contributo diretto una tantum di 1.400 dollari a persona, un sussidio di disoccupazione supplementare e altre forme di assistenza ai bisognosi, sgravi fiscali a individui e piccole aziende. Avevano una ambizione molto diversa, invece, i successivi Jobs Plan e Families Plan. Proponendo straordinari stanziamenti federali da scaglionare lungo un arco decennale, Biden impegnava il governo federale a finanziare un ventaglio larghissimo di lavori pubblici, di interventi per l’ambiente e il clima e di iniziative a favore di giovani e famiglie: ristrutturazione e ammodernamento delle infrastrutture del paese (strade, ponti, aeroporti, scuole e ospedali; ferrovie e trasporti pubblici; condutture idriche, rete elettrica e banda larga); produzione di energia pulita, incentivi alla produzione di auto elettriche, creazione di strutture e adozione di mezzi per la difesa ambientale e per affrontare i cambiamenti climatici; incentivi fiscali alle piccole imprese e innalzamento delle aliquote fiscali sui redditi più alti; e infine, adottando un’innovativa concezione di che cosa sia “infrastruttura sociale”, misure inedite per qualità e quantità della spesa a sostegno dei lavori di cura a disabili e anziani; per l’istituzione di asili nido e scuole materne pubbliche e gratuite e l’iscrizione gratuita al biennio dei community college; per permessi pagati ai lavoratori per assenze dovute a malattia, maternità o motivi familiari; per l’ampliamento delle coperture assistenziali e facilitazioni per l’accesso al servizio sanitario…

I propositi del neopresidente e i provvedimenti del Jobs Plan e del Families Plan venivano esposti in dettaglio, dopo le prime anticipazioni per i media alla fine di marzo, nel Bilancio per il 2022, presentato ufficialmente il 28 maggio 2021[n]Biden diede un significato speciale alla prima presentazione del suo Jobs Plan, scegliendo per il discorso il centro di formazione del sindacato dei carpentieri di Pittsburgh: The White House, Remarks by President Biden on the American Jobs Plan, Carpenters Pittsburgh Training Center, 31 marzo 2021; Budget of the U.S. Government, Fiscal Year 2022, U.S. Government Publishing Office, Washington 2021. Entrambi i testi sono disponibili al sito della Casa Bianca.[/n]. I due Piani illustrati nelle 66 pagine del testo, includendo anche il Rescue Plan già in atto, prefiguravano un totale di spesa decennale di circa 6.000 miliardi di dollari, la metà dei quali in deficit. Una spesa senza precedenti. Nel breve Messaggio che introduceva il progetto di bilancio[n]The Budget Message of the President, in Budget of the U.S. Government, cit., pp. 1-3.[/n], Biden entrava direttamente nel merito, senza parole di circostanza: 

«Il Bilancio è costruito sulla base della fondamentale comprensione di come funziona la nostra economia e del perché essa non ha funzionato per così tanti e per così tanto tempo. È un bilancio in cui si riflette il fatto che l’economia dello sgocciolamento (trickle-down economics) non ha mai funzionato e che il modo migliore di far crescere la nostra economia non è partendo dall’alto (from the top down), ma dal basso (from the bottom up) e dal centro (and the middle out)».[n]Mentre le locuzioni, trickle-down economics, from the top down e from the bottom up erano universalmente note, fu proprio Biden a dare improvvisa visibilità a: from the middle out, che poneva al centro la middle class. I suoi primi e pressoché inascoltati propositori erano stati: N. Hanauer e E. Liu nel loro: The Gardens of Democracy: A New American Story of Citizenship, the Economy, and the Role of Government, Sasquatch Books, Seattle 2011. Il suo significato dovette essere “spiegato”: P. Coy, Biden Wants to Build “From the Middle Out”. Here’s What He Means, in «Bloomberg News», 1° aprile 2021; P. Constant, Bidenomics explained: Why building the economy from the middle out might be the most revolutionary concept in modern politics, in «Business Insider», 24 aprile 2021; N. Hanauer e E. Beinhocker, “Middle-Out”: More Than a Slogan, in «Democracy. A Journal of Ideas», 9 aprile 2021; al sito: ‘Middle-Out’: More Than a Slogan : Democracy Journal).[/n] 

Quarant’anni di dominio dell’economia neoliberista dell’offerta, da Reagan a Trump, cancellati in una frase. 

Nel resto del Messaggio Biden dichiarava le finalità principali dei suoi Piani: investire nel popolo americano, rafforzare l’economia, riformare il sistema fiscale al fine di «ricompensare il lavoro invece della ricchezza» e poter realizzare progetti a favore di lavoratori e famiglie per i prossimi quindici anni. Fare tutto ciò, nelle parole conclusive, «ci aiuterà a costruire una ripresa ad ampia base, inclusiva, sostenuta, forte. E dimostrerà ai cittadini americani che per noi essi sono importanti e che noi riconosciamo in essi la chiave della nostra prosperità condivisa; che il governo li vede, li ascolta ed è nuovamente capace di realizzare cose a loro favore». Con questa finale, breve concessione alla retorica Biden riaffermava insieme l’intervento rooseveltiano dello Stato nell’economia e lo specifico ruolo istituzionale di Stato e governo a tutela dei cittadini. Qualche settimana dopo avrebbe ribadito ancora la volontà di mettere fine all’«esperimento [«quarantennale»] che ha fallito» del neoliberismo[n]Ibid.; The White House, Remarks by President Biden At Signing of An Executive Order Promoting Competition in the American Economy, 9 luglio 2021.[/n]. La radicalità del progetto nel suo insieme era non solo evidente ma dichiarata. Mentre era “socialismo” per gli avversari politici e le destre, che rivolgevano a lui le stesse accuse rivolte a F.D. Roosevelt dai loro omologhi di quasi cent’anni fa, era invece giudicata con gradi diversi di favore da tanti altri commentatori non conservatori o meno prevenuti. Per Paul Krugman, «la cosa più importante di questo bilancio non sta tanto nei dollari che intende distribuire, ma nel dogma che toglie di mezzo» e la Nation salutava la svolta di Biden come un «ribaltamento di 180 gradi» rispetto alle idee di politica economica condivise dalla «mezza dozzina di presidenti che lo hanno preceduto»[n]P. Krugman, The Radical Modesty of Biden’s Budget, in «New York Times», 1° giugno 2021; Z. Teachout, Joe Biden Just Threw Down the Anti-Monopoly Gauntlet—but One Big Question Remains, in «The Nation», 9 luglio 2021; Constant, Bidenomics explained, cit.[/n]. Proprio per questo, come sarebbe apparso presto, era più facile concepirlo che concretizzarlo, quel progetto. 

Il 7 settembre 2020, Labor Day, nel corso della campagna elettorale, in un’assemblea di iscritti sindacali di Harrisburg, in Pennsylvania, Biden aveva detto: «Avrete in me il miglior amico del lavoro che abbia mai abitato la Casa Bianca». I programmi enunciati nei suoi primi mesi sono stati tentativi di dimostrarlo. Impegni, più che promesse, il cui cammino verso la realizzazione, però, è stato più che accidentato. Non tanto per la pregiudiziale, scontata opposizione repubblicana, né perché è esile la maggioranza (222 a 213) su cui i Democratici contano nella Camera dei Rappresentanti, quanto per l’opposizione interna allo stesso Partito democratico nel Senato, dove i due partiti sono pari (50 a 50) e per avere la maggioranza è indispensabile il voto di ogni senatore e della vicepresidente Kamala Harris. Mentre Sanders e la sinistra interna, inizialmente critici, hanno sostenuto lealmente i Piani di Biden, l’ostinato antagonismo dei senatori Manchin (West Virginia) e Sinema (Arizona) ha prima imposto ridimensionamenti pesanti degli stanziamenti previsti, cancellazioni e compromessi sui programmi specifici, poi ha comunque bloccato in Senato la parte più consistente dei progetti. Né l’intervento ripetuto del Presidente, né quelli dei vertici del Partito e delle altre componenti meno estremiste hanno smosso i due oppositori interni. Alla fine, soltanto il piano sulle infrastrutture in senso stretto – rinominato Infrastructure Plan, con previsioni di spesa ridimensionate a 1.000 miliardi di dollari – è stato approvato da entrambe le camere del Congresso ed è legge. 

Lo smacco, grande, non è stato l’unico. Altri sono venuti dall’impossibilità di far passare in Congresso l’innalzamento del salario minimo orario a 15 dollari con una legge federale e la protezione del diritto all’organizzazione e alla contrattazione sindacale: il progetto di modifica della legislazione sui rapporti di lavoro, intitolato Protecting the Right to Organize (Pro)[n]Nella formulazione approvata dalla Camera, il Pro intenderebbe riformare le leggi esistenti per facilitare «i diritti dei lavoratori a organizzarsi e ad accedere a contratti collettivi nei luoghi di lavoro», nello stesso tempo limitando e, se necessario, sanzionando le interferenze imprenditoriali con i processi auto-organizzativi dei lavoratori, legittimando di scioperi di solidarietà (ora proibiti) e incrementando i poteri d’indagine e di sanzione del National Labor Relations Board.[/n], è stato approvato dalla Camera dei Rappresentanti nel marzo 2021, ma non è riuscito finora a passare in Senato, dove la sua approvazione richiede una maggioranza qualificata del 60 per cento. Alla metà del 2022, e sempre per l’opposizione interna degli stessi due senatori, non è ancora passata in Senato neppure l’altra legge sulla protezione del diritto di voto (For the People Act)[n]Il For the People Act, cui i Repubblicani si opposero in blocco,è stato respinto a giugno 2021, quando per il suo passaggio in Senato era richiesta la maggioranza qualificata del 60 per cento. Riproposto con modifiche con il nuovo nome Freedom to Vote Act è stato affossato nel gennaio 2022, grazie al voto contrario dei due senatori democratici Joe Manchin e Kyrsten Sinema che si sono schierati con i Repubblicani (52-48) nell’impedire che potesse essere approvato a maggioranza semplice.[/n] indirizzata soprattutto contro i repubblicani che, negli stati in cui hanno la maggioranza, alterano a proprio favore i confini dei distretti elettorali, cambiano le norme per l’accesso ai seggi, aboliscono il voto per posta, riducono il numero e l’orario di apertura dei seggi e boicottano in molti altri modi l’accesso al voto delle minoranze (la Voter suppression di cui si è detto). 

In prospettiva elettorale immediata, nei primi mesi del 2022 appariva chiaro che la combinazione delle bocciature subite – e quindi degli effetti negativi delle promesse oggettivamente non mantenute – e della sempre aggressiva offensiva mediatica repubblicana-trumpiana avrebbe messo in serio pericolo la possibilità dei democratici di conquistare la maggioranza in entrambe le camere del Congresso nelle elezioni di novembre. Con il rischio per Biden di trovarsi in una posizione di totale impotenza analoga a quella in cui si trovò Barack Obama dopo il 2014, quando perdette anche il Senato dopo essere stato azzoppato dalle maggioranze repubblicane nella Camera nel 2010 e 2012. Dalla presa d’atto di questa minaccia incombente è venuta la correzione “centrista” della rotta politica dell’amministrazione, nel tentativo di cauterizzare le ferite lasciate dalla divisione nel suo stesso partito e di ottenere anche qualche voto favorevole da parte di repubblicani più “ragionevoli” e meno trumpiani. 

La tradizione vuole che il partito al potere perda le sue prime elezioni di midterm e, stando ai sondaggi che all’inizio dell’estate 2022 registrano un tasso di approvazione del Presidente di poco superiore al 30 per cento, sembra ipotizzabile che venga rispettata. Tuttavia, all’inizio dell’anno, un osservatore attento come Michael Tomasky non escludeva la possibilità di un recupero di consensi[n]M. Tomasky, Many liberals worry that the Democrats are doomed. But Biden can still rebound, in «New York Review of Books», 10 febbraio 2022.[/n]. Non è valutabile l’effetto interno che avrà la guerra in Ucraina. Lo stesso Biden sembra ritenere che l’irrigidimento nei confronti della Cina e soprattutto il muso duro verso la Russia, le parole sprezzanti nei confronti di Putin fin dall’inizio dell’invasione e il grande impegno finanziario e militare a sostegno dell’Ucraina possano giocare a suo favore nel prossimo novembre. Ma è la pubblicazione a giugno della decisione con cui la Corte Suprema ha cancellato “Roe v. Wade” che dà qualche credito a tale aspettativa[n]J. Gerstein e A. Ward, Supreme Court has voted to overturn abortion rights, draft opinion shows, in «Politico», 3 maggio 2022; al sito: Supreme Court has voted to overturn abortion rights, draft opinion shows – POLITICO.[/n]. La sensibilità delle statunitensi sulla questione è sempre stata grande. Sia il Presidente, sia la sua vice Kamala Harris si sono pronunciati con forza contro la decisione della Corte e Biden è subito intervenuto impegnando lo stato federale a favorire le donne che intendano esercitare il loro diritto di scelta negli stati che continueranno a renderlo possibile e garantendo la continuazione dei loro appoggi in occasione delle altrettanto prevedibili future mobilitazioni pro-aborto dei movimenti delle donne. Se così sarà, mentre si approfondirà il fossato che divide la destra reazionaria repubblicana dal resto della società, aumenteranno le probabilità sia di sottrarre ai repubblicani una quota ancora maggiore dei voti femminili, sia di far tornare a votare e a votare per i democratici una parte di quegli uomini e donne che nel corso del 2021 si erano allontanati a causa dei comportamenti dei più moderati nel Partito. (Anche gli esiti della commissione d’indagine congressuale sulle responsabilità di Trump nei fatti del 6 gennaio 2021 è possibile che incidano a favore dei democratici: potrebbero impedire la ricandidabilità di Trump, o comunque – nell’alternativa tra possibilità di togliere di mezzo Trump per sempre e mobilitazione a suo favore – fungere più da chiamata a raccolta contro di lui, che per lui.)    

Non c’è dubbio che la fretta di “dare” al popolo per riceverne poi i voti necessari a sconfiggere insieme la tradizione negativa e i repubblicani sia stata presente nell’azione di governo del primo Biden. D’altro canto, è altrettanto certo che il rovesciamento dei dogmi neoliberisti da parte sua e dei suoi consiglieri economici non era in funzione soltanto della prospettiva elettorale più ravvicinata. Non c’è ragione per dubitare che negli intenti dichiarati nel 2021 e nella definizione degli obiettivi di lungo periodo si siano espresse convinzioni maturate da Biden negli ultimi anni. Tra queste, la percezione che il capitalismo neoliberista sia giunto a una crisi epocale e, infine, un’anche più significativa adesione della sua amministrazione ad alcune delle correnti di pensiero che si sono andate consolidando proprio intorno alla critica del neoliberismo. Rimarrà ascritto a suo merito – e  possibilmente restare nella memoria di chi verrà dopo di lui – l’avere cercato di dare forma a un tentativo concreto di cambiare strada, il primo dagli anni Sessanta in poi (e non solo negli Stati Uniti). Il trovare vie condivise per uscire dal neoliberismo è più difficile che indicare i guasti che esso ha prodotto: la crescita abnorme dei grandi ricchi e l’evoluzione oligopolistica e plutocratica del sistema, le trasformazioni del lavoro a danno dei lavoratori e la crescita delle disuguaglianze, la diminuzione e privatizzazione dei servizi, il degrado delle città e della salute dei cittadini, i legami tra politica istituzionale e grande capitale e così via. L’idea che Biden sembrava avere in mente era quella di riprendere e aggiornare la vecchia idea newdealista di un «capitalismo sociale», come lo definisce Wolfgang Streeck, e democratico, caratterizzato dal ruolo attivo dello stato nella riduzione delle disuguaglianze, fondato sulla piena occupazione e su redditi da salario dignitosi, sul riconoscimento della presenza organizzata dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Questo sembravano dire l’ampiezza e le destinazioni della spesa delineata dai suoi Piani nel 2021. 

Almeno per ora rimangono coerenti con il progetto iniziale i curricula di alcune delle persone scelte da Biden per dargli forma e gestirne gli indirizzi. Queste persone dovrebbero restare, quali ne siano le risorse finanziarie finali messe a loro disposizione, anche se l’eventuale sconfitta dei democratici nelle elezioni di midterm ne ridurrà le possibilità di azione. In particolare, della serietà degli intenti riformatori – in sintonia con le indagini della Federal Trade Commission (Ftc) sulle grandi concentrazioni (come Big Pharma e Big Tech) avviate resuscitando le dimenticate leggi antitrust – e della vicinanza di Biden al mondo del lavoro fanno fede le nomine a posti di rilievo di figure note per le loro attività e critiche al sistema oligopolistico. Sarà molto difficile per lo Stato imbrigliare per legge lo strapotere delle grandi società dell’informatica, sia a causa degli equilibri politici nel Congresso, sia per i ritardi legislativi accumulati, sia soprattutto perché, come scrive Shoshana Zuboff, esse continuano a evolversi più in fretta di quanto lo Stato possa fare o capire[n]S. Zuboff , Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University Press, Roma 2019, p. 115. Nelle parole di uno dei dirigenti di Google citate da Zuboff in Ibid.: «L’high-tech va tre volte più veloce di un business comune. E i governi vanno tre volte più lenti di un business comune. Di conseguenza il gap ammonta a nove volte […] Per questo motivo bisogna assicurarsi che il governo non si metta in mezzo rallentando le cose».[/n]. Tuttavia, non ci sono dubbi né sull’acume e la competenza, né sull’impegno in quella direzione di Lina Khan, la giovane studiosa della Columbia University posta a capo proprio della Ftc; di Jonathan Kanter a capo della divisione antitrust del Ministero della Giustizia e di Tim Wu, nel ruolo di assistente speciale del Presidente per i temi delle tecnologie e della concorrenza. Poi: a Ministro del lavoro Biden ha messo Marty Walsh, ex sindacalista e già sindaco di Boston, nominando come nuova chief economist dello stesso ministero la giovane Janelle Jones, che proviene dall’Economic Policy Institute (Epi). A capo del Council of Economic Advisers, Biden ha chiamato un’altamente qualificata accademica di Princeton, Cecilia Rouse, che aveva già servito nello stesso Consiglio con Obama. E i due consiglieri economici chiamati a farne parte sono Heather Boushey, del Center for Equitable Growth, e Jared Bernstein, dell’Epi, entrambi centri studi storicamente impegnati sui temi della giustizia sociale e sul mondo del lavoro e, in particolare l’Epi, al fianco del movimento sindacale. Le persone scelte, scriveva Ronald Brownstein su The Atlantic, sono progressiste, che erano «entrate in collisione con le precedenti amministrazioni» sulle loro politiche economiche o che appartengono a una nuova generazione di ricercatori attenti alle «questioni di razza e di genere»[n]R. Brownstein, Bidenomics Really Is Something New, in «The Atlantic», 6 maggio 2021; al sito: Biden’s Economic Plan Gives Progressives What They Want – The Atlantic.[/n]. Una fisionomia da cui non si discosta molto neppure Janet Yellen, la nuova Ministra del Tesoro. Quando Barack Obama la mise a capo della Federal Reserve, nel 2014, Yellen sottolineava che la crescita ed estensione delle disuguaglianze sociali la «preoccupavano», e si domandava se l’approfondimento della disuguaglianza di ricchezza fosse «compatibile con i valori radicati nella storia della nostra nazione, considerando l’alto valore che gli americani hanno sempre dato all’uguaglianza di opportunità»[n]J.L. Yellen, “Perspectives on Inequality and Opportunity from the Survey of Consumer Finances”, Remarks at the Conference on Economic Opportunity and Inequality, Federal Reserve Bank of Boston, Boston 17 ottobre 2014; al sito: http://www.federalreserve.gov/newsevents/speech/yellen20141017a.htm.[/n]. Tutto sommato anche oggi, scrive Brownstein, Yellen è meno «vicina a Wall Street» di quanto fossero Larry Summers e Tim Geithner, gli ex ministri del tesoro di Clinton e di Obama.

Come detto, dopo il primo anno di presidenza le realizzazioni sono state inferiori alle attese. Solo gli investimenti per le infrastrutture, che anche ridimensionati restano comunque imponenti, sono stati approvati. Il Families Plan, ribattezzato Build Back Better, è stato anch’esso pesantemente ridimensionato e benché sia stato approvato dalla Camera, è rimasto bloccato in Senato. Vale la pena, però, di fermarsi ancora brevemente sui progetti di Biden, prendendoli non per come sono o non sono stati realizzati, ma per come sono stati formulati e visti: testimonianza di un intento dichiaratamente riformatore e radicale. I due termini non sono in contraddizione: il riformismo può riuscire soltanto se è concepito – e, certo, attuato – con una radicalità sufficiente a connotarlo come alternativo al sistema dominante. E negli Stati Uniti odierni la riforma di Biden avrebbe voluto essere tanto alternativa quanto la svolta neoliberista – incardinata sui precetti di Friedrich von Hayek, Milton Friedman e della “Scuola di Chicago” – lo era stata rispetto al capitalismo sociale del dopoguerra. 

Lungo tutto l’arco dei quarant’anni da Reagan a Trump, Stato e capitale hanno condotto una guerra senza quartiere contro la classe operaia e le sue organizzazioni. Il tasso di sindacalizzazione nel settore privato è sceso dal 20,1 per cento nel 1983, dopo i primi due anni di presidenza Reagan, al 6,1 per cento nel 2021; sono stati tagliati i salari, la cui crescita era andata pressoché di pari passo con la crescita della produttività fino agli anni Settanta (1948-73: produttività: +96,7 e paghe orarie: +91,3; 1973-2013: produttività: +74,4 e paghe orarie: +9,2)[n]Con il 1948 = 0,00 sia per salari e benefits, sia per produttività, gli indici erano saliti rispettivamente a 88,60% e 106,55% nel 1980, l’anno dell’elezione di Reagan; a 93,03% e 179,18% nel 2000, quando fu eletto Bush Junior; a 108,86% e 243,13% nel 2013, all’inizio del secondo mandato di Obama; L. MishelE. GouldJ. Bivens, Wage Stagnation in Nine Charts, Economic Policy Institute (Epi), 6 gennaio 2015; al sito: Wage Stagnation in Nine Charts | Economic Policy Institute (epi.org).[/n]; la deindustrializzazione, le delocalizzazioni, la rivoluzione tecnologica e la finanziarizzazione dell’economia sono state usate a proprio esclusivo vantaggio dai grandi capitalisti per riconquistare la supremazia interna che avevano perso nel mezzo secolo precedente. È la rapacità del grande capitale protetto dallo Stato neoliberista che ha prodotto la Grande recessione del 2008 e lo stato di crisi attuale. Ed è da loro che vengono sempre le crisi economico-sociali. Guai, invece, se sono loro a decidere come uscirne: senza l’iniziativa operaia e popolare negli anni Trenta e senza la rivolta afroamericana negli anni Sessanta non ci sarebbero stati né il riformismo newdealista di Roosevelt, né il welfare e le leggi contro il razzismo istituzionale di Lyndon Johnson (naturalmente, il Johnson “bifronte” ha anche “fatto il Vietnam,” e la risposta è stata il grande movimento contro la guerra). Ora non ci può essere uscita dal neoliberismo senza riformismo; ma senza un movimento sociale che lo sostenga e lo spinga, il riformismo rimarrà allo stato di intenzione, lodevole magari, ma destinato a risultare velleitario e inefficace. In questo momento, la ripresa di protagonismo del mondo del lavoro, per quanto reale, non è sufficiente a sostenere una forte e coerente iniziativa di riforma. 

Solo la “propaganda contro” dei repubblicani può affermare che il riformismo di Biden si propone di smantellare il sistema capitalistico per introdurre in America il socialismo, o peggio il comunismo. Come era stato per Roosevelt e per il Johnson della Great Society, ma senza neppure i movimenti di massa che essi avevano avuto alle spalle, il suo obiettivo è stato salvare il capitalismo, correggendolo dai propri eccessi ed errori, cioè da sé stesso[n]Il concetto è lo stesso elaborato da un non-socialista come C. Crouch in, Salviamo il capitalismo da se stesso (2017), Il Mulino, Bologna 2018.[/n]. Del resto, il Biden che diceva di essere «il migliore amico del lavoro che abbia mai abitato la Casa Bianca», e che ha proposto i suoi progetti di riforma del sistema è lo stesso che dice «io sono un capitalista» e, rivolto a un consesso di amministratori delegati delle maggiori aziende, «Qui siamo tutti capitalisti»[n]The White House, Remarks by President Biden before Business Roundtable’s CEO Quarterly Meeting, cit.[/n]. Nonostante gli smacchi subiti nel 2021, rimane credibile, nelle intenzioni, il suo tentativo di introdurre regolazioni e limiti allo strapotere dei monopoli. Ha un valore analogo al tentativo di Obama di reintrodurre nel 2010, dopo la Grande recessione, qualche regola nel mondo della grande finanza con la Legge Dodd-Frank, per correggere la deregolamentazione attuata da Bill Clinton (che nel 1999 aveva cancellato la rooseveltiana Legge Glass-Steagall del 1933). Nel luglio 2021, in occasione della firma dell’inclusivo «Ordine esecutivo sulla promozione della concorrenza nell’economia americana», Biden si è lasciato andare a un’uscita ad effetto (che ha ripetuto anche in altre circostanze), affermando che «Il capitalismo senza concorrenza non è capitalismo, è sfruttamento». Più delle parole, di grana grossa sul piano della teoria, erano semmai le nomine e le azioni a sostanziare le sue intenzioni. Ed è probabilmente dando credito a queste che uno storico ha scritto allora che il Presidente «restituisce gli Stati Uniti alla grande tradizione antimonopolistica che ha animato il riformismo sociale ed economico nel paese pressoché dalla sua fondazione in poi»[n]N. Lichtenstein, America’s 40-Year Experiment With Big Business Is Over, in «New York Times», 13 luglio 2021.[/n] Grana grossa anche in questo caso. In realtà, il vissuto plurisecolare di milioni di lavoratori e intere biblioteche hanno detto quanto lo sfruttamento sia intrinseco al capitalismo, concorrenziale o monopolistico che sia. E la storia testimonia quanto poco successo abbiano avuto le politiche dell’antimonopolismo negli Stati Uniti fino a oggi. 

Mi limito all’ultimo mezzo secolo. A partire dagli anni di avvio dell’offensiva neoliberista negli scorsi anni Settanta, la corsa a fusioni, assorbimenti e concentrazioni – in altre parole: alla monopolizzazione – è stata sempre più sfrenata e ha trovato sempre meno ostacoli sul piano legislativo. Il risvolto diretto delle concentrazioni è il predominio che le imprese più grandi esercitano sull’intero loro settore di attività, a discapito delle minori. Secondo Marcy Gordon, le quattro maggiori compagnie aeree controllano all’incirca il 65 per cento del traffico aereo negli Stati Uniti; cinque compagnie assicurative controllano il 45 per cento del mercato dell’assistenza sanitaria privata; il settore farmaceutico è dominato da tre aziende; le quattro maggiori banche controllano il 44 per cento del mercato; cinque editori controllano l’80 per cento del mercato librario e a Google fa capo quasi il 90 per cento della ricerca online mondiale[n]M. Gordon, Battling bigness: Congress eyes action against monopolies, in «ABC News», 19 marzo 2021; al sito: Battling bigness: Congress eyes action against monopolies – ABC News (go.com). Sulla concentrazione capitalistica e sugli effetti negativi sia sull’innovazione, sia sui prezzi, sia sul mercato del lavoro, si veda: J. Shambaugh, R. Nunn, A. Breitwieser e P. Liu, The State of Competition and Dynamism: Facts about Concentration, Start-Ups, and Related Policies, Brookings Institution’s Hamilton Project, giugno 2018; al sito: https://www.brookings.edu/research/the-state-of-competition-and-dynamism-facts-about-concentration-start-ups-and-related-policies/. [/n]. Da quando esistono, Google ha assorbito 268 imprese concorrenti, Apple 123, Amazon 111 e Facebook 105. È stata l’inconsistenza dell’antimonopolismo che ha permesso la crescita abnorme, per esempio, di Google, Microsoft, Amazon, Apple e Facebook e la creazione di «fortune», come scrive ProPublica, che «eclissano quelle di John D. Rockefeller, J.P. Morgan e Andrew Carnegie»[n]V. Comito, I Paperoni di Hightech, petrolifere e banche a braccetto con l’inflazione, in «il manifesto», 2 marzo 2022; J. EisingerJ. Ernsthausen e P. Kiel, The Secret IRS Files: Trove of Never-Before-Seen Records Reveal How the Wealthiest Avoid Income Tax, per «ProPublica», 8 giugno 2021; al sito: The Secret IRS Files: Trove of Never-Before-Seen Records Reveal How the Wealthiest Avoid Income Tax — ProPublica.[/n]. L’impegno dell’attuale amministrazione a ridurre lo strapotere del gigantismo rivedendo la legislazione esistente e imponendo la suddivisione delle società in entità separate di minori dimensioni è dunque tutt’altro che trascurabile. Ma dopo un anno e mezzo di questa presidenza non si può non avere dubbi sul suo successo. 

Non è trascurabile neppure la vicinanza di Biden al mondo del lavoro, ma è problematica la traduzione in atti delle sue affermazioni. Hanno avuto notevole risonanza il tentativo – frustrato – di innalzare il salario minimo a 15 dollari all’ora con una legge federale e le sue dichiarazioni a favore del tentativo – frustrato anch’esso – di sindacalizzare un magazzino di Amazon a Bessemer, in Alabama: «Voglio essere chiaro: non sta a me decidere se uno deve iscriversi o no a un sindacato. Ma anche più chiaro: non spetta deciderlo neppure agli imprenditori». Sulla stessa linea, pur dichiarando di non potere, né volere intervenire in prima persona su specifici conflitti tra capitale e lavoro, Biden ha salutato i timidi segni di ripresa sindacale e la crescita di iniziativa operaia dell’autunno 2021 come legittime rivendicazioni di diritti e di salario nel contesto della crescita economica in atto. I lavoratori «hanno il diritto di scioperare e hanno il diritto di chiedere salari più alti, e le società contro cui scioperano stanno andando bene. Io non entrerò nelle negoziazioni, ma la mia posizione è: se è questo di cui pensi di avere bisogno, fallo». E dopo la vittoria operaia contro Amazon a Staten Island dell’inizio di aprile 2022, parlando a un’assemblea sindacale, Biden ha ribadito che «la scelta di aderire al sindacato spetta soltanto ai lavoratori», aggiungendo poi l’avvertimento, a uso della platea: «E tra l’altro, Amazon, arriviamo! Attenzione»[n]K. Rogers e K. Weise, Biden Appears to Show Support for Amazon Workers Who Voted to Unionize, in «New York Times», 6 aprile 2022; S. Pettypiece, Biden on the sidelines of ‘Striketober’, with economy on the balance, in «NBCNews», 24 ottobre 2021.[/n]. 

Il quadro complessivo appare molto diverso nel 2022 rispetto all’anno precedente. Tuttavia, non perdono di valore, da una parte, il rafforzamento del National Labor Relations Board e l’obiettivo di arrivare a quella già ricordata legge sui diritti del lavoro e delle rappresentanze dei lavoratori che i suoi predecessori democratici hanno sempre dichiarato di voler cambiare senza mai neppure tentare di farlo, e dall’altra, l’impulso all’occupazione legato ai mille miliardi di investimenti in lavori pubblici previsti dal piano per le infrastrutture. Se a quei progetti e atteggiamenti si guarda nel loro insieme, tenendo presenti anche le intenzioni di ridurre lo strapotere dei monopoli, non si può non leggervi i residui dell’aspirazione a recuperare democrazia attraverso il riequilibrio nei rapporti tra grande capitale e Stato e tra entrambi e la maggioranza dei cittadini statunitensi. 

Alla radice degli originari progetti di riforma c’era la percezione della gravità della «crisi»; vale a dire delle ferite lasciate dall’epocale crisi produttiva, sociale e culturale prodotta da decenni di neoliberismo, dalla Grande recessione, da quattro anni di Trump e da un biennio di pandemia. È anche immaginabile che quei progetti siano stati concepiti come risposte positive, e incentivi ulteriori, alla ripresa operaia del 2018-19 – accompagnata dai sondaggi favorevoli alle unions sulle tematiche del lavoro, anche in assenza di una loro reale crescita organizzativa – e alla sollevazione generale del 2020, con i corollari della vasta risposta antirazzista, delle rivendicazioni di equità sociale, dei movimenti di donne e giovani contro il sessismo e le armi. Il problema è che la “visione” di Biden e l’agenda che ne è derivata sono cadute su un terreno politico troppo poco ricettivo («orrendo»). Nello scontato, inflessibile antagonismo repubblicano nel Congresso si riflettono le profonde fratture che dividono la società: quella verticale, che si esprime nella contrapposizione ideologico-politica che attraversa tutte le fasce sociali, e quella orizzontale, che si incarna nella polarizzazione creata dalla iniqua distribuzione di redditi e ricchezza. Le responsabilità di questa evoluzione della società sono condivise tra i due partiti che si sono alternati al potere. E nonostante il fatto contingente che la caduta dei progetti di Biden sia avvenuta per colpa di due senatori democratici, la quota maggiore delle responsabilità storiche spetta al Partito repubblicano. Soprattutto in questi anni più recenti. La «resistibile ascesa» di Donald Trump alla presidenza nel 2016 non è stata il culmine della crescita reazionaria dei repubblicani, è stata invece la soglia per l’ulteriore involuzione a cui si sono spinti lo stesso Trump e il suo partito. Il risultato è che il disgregato mosaico sociale degli Stati Uniti odierni si è opposto e resiste al tentativo di ricomposizione che Biden aveva in mente. E che non riuscirà a realizzare: la sua età, le sue emergenti fragilità personali e il poco tempo che ha a disposizione giocano contro di lui.  

  1. La “democrazia fragile”: civismo e paura, pregiudizi e armi

Al termine dell’articolo di David Brooks citato sopra, il New York Times faceva seguire una lunga scia di oltre cinquemila commenti inviati dai lettori. L’aspetto forse più significativo nella loro successione era l’intersecarsi dei piani: il quotidiano spicciolo e personale si giustapponeva a considerazioni più analitiche e di sistema. Tra loro c’era chi contestava Brooks ricordando che nel «mondo reale» i rapporti tra le persone sono improntati a «gentilezza e comprensione»; chi concordava col giornalista o rafforzava la negatività del quadro sociale da lui presentato, e chi attribuiva al capitalismo le responsabilità del disastro sociale (in uno dei commenti il modello di funzionamento della società statunitense era definito «transazionale», cioè governato dagli imperativi consumistici, commerciali e finanziari e dalle logiche egoistiche che li sottendono). In generale, emergevano diversi gradi di disagio nei confronti dell’egoismo e individualismo dominanti e di un sistema che ha prodotto disuguaglianze profonde. Apriamo una parentesi.

Nella vita di tutti i giorni, i rapporti tra le persone negli Stati Uniti – anche se forse non caratterizzati proprio da gentilezza e comprensione – non si può dire che non siano improntati a modi generalmente caratterizzati da una sobria informalità, dal rispetto reciproco e dalla comune osservanza delle buone norme del civismo. Sono tratti tipici di una democrazia diventata nel corso del tempo prassi comune tra i pari e i simili. Questa attitudine è positiva, ma non universale, né senza ombre. Verso gli “altri” o gli inferiori inoffensivi essa può assumere le forme sia dell’indifferenza, di una cortesia convenzionale e a volte dell’empatia personale, sia quelle di una chiara manifestazione di estraneità e diffidenza e ora, dopo due anni di pandemia, delle insofferenze e intemperanze dei nervi tesi. Le aperture di un altruismo empatico possono cedere il passo alle chiusure di un individualismo egocentrico, quando le persone temono per il proprio presente e futuro, o ad aggressività e violenza, quando i pregiudizi identitari condizionano i rapporti con chi è considerato diverso da sé. In particolare, «sono molte le prove che l’idea della minacciosità [per sé] e della pericolosità per la sicurezza sociale combacia con i modi in cui sono percepiti i neri e le altre persone di colore»[n]The Sentencing Project, The Color of Justice: Racial and Ethnic Disparity in State Prisons, Washington, D.C. 2021, p. 12; al sito: the-color-of-justice-racial-and-ethnic-disparity-in-state-prisons.pdf (cnn.com). A.D.S. Burch e L. Vander Ploeg, Buffalo Shooting Highlights Rise of Hate Crimes Against Black Americans, in «New York Times», 16 maggio 2022.[/n]. Anche i pregiudizi – quello razziale, da sempre, su tutti – sono tratti storici presenti nei rapporti sociali. Provengono da sorgenti profonde, la cui portata è sempre stata generosa, che hanno dato vita a correnti perenni nella storia nazionale, carsiche a momenti, ma mai inaridite, che hanno attraversato la società e la politica nazionale. Se non fosse così non sarebbe stata così grande la facilità con cui il loro corso è stato rialimentato e riportato alla superficie della vita sociale e politica nel passato recente. La situazione odierna è che i «mali oscuri» di cui parlano le cronache sono certamente frutto delle angosce personali in molti modi legate alle crescenti insicurezze e frustrazioni materiali, ma soprattutto degli allarmi e dell’odio fomentati ad arte per creare divisioni prima e riaggregazioni poi sotto nuove bandiere, le proprie.

Come spiegare altrimenti il fatto che, come scrive Christopher Ingraham, nel primo anno di presidenza dell’afroamericano Obama «per la prima volta il numero delle armi da fuoco ha superato il totale della popolazione degli Stati Uniti», oppure che il numero delle armi da fuoco oggi presenti nelle case è quasi doppio rispetto a quello dei cittadini adulti, e che all’alta dose di violenza esercitata sugli altri si aggiunge quella, altrettanto abnorme, inflitta dai singoli a sé stessi con le droghe, oltre che con le armi[n]Si stima che, nel 2020, nel 42 per cento delle abitazioni fosse presente almeno un’arma e che le armi di cui i civili sono in possesso siano 434 milioni; di queste 214 milioni sono «entrate nel mercato» dopo il 1991, e poco meno di 20 milioni sono fucili semiautomatici come l’AR-15, noto come il «fucile degli americani.» Si vedano: Statista, Gun ownership in the U.S. 1972-2020 | Statista; C. Eger, Data: US ha 434 Millions Guns…, in «Guns.com», 17 novembre 2020; al sito: Data: US has 434 Million Guns, 20M ARs, 150M Mags :: Guns.com. Nel 2012, il Congressional Research Service indicava che il numero delle armi in circolazione era passato da 242 milioni nel 1996 a 259 milioni nel 2000, a 310 milioni nel 2009. C. Ingraham, There are now more guns than people in the United States, in «Washington Post», 5 ottobre 2015.[/n]. Se le persone ritengono, o – come è successo – sono spinte a ritenere che le proprie circostanze non sono sicure e la loro libertà è minacciata tendono ad armarsi. Sono invitate ad armarsi. Controprove indirette vengono dai soldi investiti con successo dalla National Rifle Association per convincere, da una parte, i legislatori – e i giudici della Corte Suprema, che nel giugno 2022 hanno bocciato le limitazioni al possesso delle armi presenti nello stato di New York – a opporsi a ogni tentativo di ridurre la circolazione delle armi da fuoco e, dall’altra, i cittadini che armarsi è la cosa da fare per essere in grado di reagire alle minacce incombenti sulle loro esistenze. 

In una coincidenza non casuale con la presenza di un afroamericano alla Casa Bianca, le spese di lobbying della National Rifle Association passarono da 1,67 milioni nel 2008 a 3,61 milioni nel 2015. E negli anni successivi, la Nra ha speso in lobbying una media di 3,76 milioni di dollari all’anno nel quinquennio 2016-2020, con le punte più alte nei primi due anni della presidenza Trump – 5,12 milioni nel 2017 e 5,08 milioni nel 2018 – quando la destra doveva attrezzarsi per difendere la propria conquista del potere, e di nuovo all’inizio della presidenza Biden (3,31 milioni nei primi sei mesi del 2021), quando sembrò che Trump e i suoi avrebbero potuto cercare – anche con le armi, se necessario – di riprendersi la «vittoria rubata». Che si sia trattato di risposte alle richieste di mobilitazione sollecitate da Trump e dai repubblicani mi sembra fuori discussione[n]Lobbying Expenditures of the National Rifle Association (Nra) in the United States from 1998 to 2021, Statista Research Department, 28 luglio 2021; al sito: National Rifle Association: lobbying expenditure 2021 | Statista[/n]. D’altro canto, se anche non si armano, le persone tendono comunque a ridurre i perimetri della propria socialità, evitando le occasioni di entrare in interazioni sociali potenzialmente sgradevoli o pericolose. Possono chiudersi in sé, come durante la pandemia, aiutati in ciò dalla moltiplicazione degli strumenti tecnologici che permettono i rapporti virtuali con il mondo. Oppure, tendono a formare o riformare aggregazioni tra simili, materiali o virtuali: difensive, come sono state e sono le comunità degli immigrati e dei discriminati, presenti (e indispensabili in quanto forza lavoro) nel sistema economico nazionale e però emarginati dalla più grande comunità degli autoctoni e dei bianchi; o aggressive, quando, in passato come ora, i collanti sono stati e sono i pregiudizi ideologico-politici dello sciovinismo, del razzismo, del sessismo, del classismo, su cui si innestano l’assunto di una propria innata superiorità e la reazione a un’altrettanto presupposta minaccia da parte di “altri”, “diversi”, “inferiori”. 

La coesistenza tra simili è viva, dunque, anche se instabile o provvisoria. Ma quanto più problematica si fa quella tra diversi, tanto più fragili diventano la generale coesione sociale e la democrazia in quanto prassi condivisa. Lo stesso Biden nel discorso inaugurale ha ricordato che «la democrazia è fragile». Non si riferiva soltanto alle divisioni politiche lasciate in eredità dal trumpismo. Prima e dopo quell’occasione ha ripetutamente ammesso l’esistenza di un «razzismo sistemico» negli Stati Uniti. Parlando nel giugno 2020, a pochi giorni dall’omicidio di George Floyd, mentre sottolineava la necessità di «sradicarlo» dai corpi di polizia, ricordava anche che il razzismo «non è presente solo nelle forze dell’ordine, è dappertutto. È nelle politiche abitative, nell’istruzione, in tutto quello che facciamo»[n]K. Watson, Biden says there’s “absolutely” systemic racism in law enforcement, and beyond, in «CBS  Evening News», 20 giugno 2020;  al sito: Biden says there’s “absolutely” systemic racism in law enforcement and beyond – CBS News.[/n].  Erano gli stessi concetti, anche se non le stesse parole, che Kareem Abdul-Jabbar aveva espresso pochi giorni prima: «Il razzismo è come il pulviscolo atmosferico». E quello in cui i neri si trovano immersi «nel sistema educativo e giudiziario e nel mondo del lavoro» è «razzismo istituzionale»[n]K. Abdul-Jabbar, Don’t understand the protests? What you’re seeing is people pushed to the edge, in «Los Angeles Times», 30 maggio 2020; al sito: https://www.latimes.com/opinion/story/2020-05-30/dont-understand-the-protests-what-youre-seeing-is-people-pushed-to-the-edge.[/n]. 

Di entrambe le varianti si è scritto molto e non è necessario, qui, entrare nelle specificità dell’una e dell’altra, né descrivere le condizioni di vita, lavoro e salute che sono conseguenza del razzismo.  Basti la pregnanza che hanno i numeri degli uccisi da agenti di polizia e i dati relativi al regime carcerario. [Le righe che seguono sono state scritte prima che il 27 giugno 2022 otto poliziotti di Akron, in Ohio, uccidessero il giovane nero disarmato Jayland Walker con sessanta colpi di arma da fuoco e lo consegnassero all’obitorio con le manette ai polsi]. Le persone uccise con le armi da poliziotti in servizio sono state 999 nel 2019, 1.021 nel 2020 e 1.055 nel 2021, mantenendo il lento ma costante ritmo di crescita riscontrabile dal 2015. Il commento del criminologo Franklin Zimling: «La buona notizia è che le cose non stanno andando molto peggio; però la cattiva notizia è che non stanno andando meglio»[n]M. Iati, S. Rich e J. Jenkins, Fatal police shootings in 2021 set record since The Post began tracking, despite public outcry, in «Washington Post», 9 febbraio 2022.[/n]. L’eccessiva frequenza del ricorso alle armi da parte degli agenti di polizia è indicativo, da una parte, dello stato di tensione con cui essi agiscono nelle strade, spesso in presenza di individui che sono, o si suppone che siano, armati o comunque pericolosi; dall’altra, della pregiudiziale selettività etnico-razziale dei criteri con cui usano le armi da fuoco. Per il 2021, i dati resi disponibili dal Washington Post, che aggiorna quotidianamente il numero delle vittime, non sono sufficienti per dare una fisionomia etnico-razziale alle vittime, scrivono gli autori appena citati. Non è così per gli anni precedenti. Tra il 1° gennaio 2015, giorno d’inizio del “censimento” da parte del giornale, e il 27 febbraio 2022, data dell’ultimo aggiornamento consultato, gli omicidi polizieschi sono stati 7.139, una media di circa 1000 all’anno e di 2,7 al giorno. Appare chiaro che i poliziotti ricorrono alle armi con facilità eccessiva in ogni parte degli Stati Uniti. Ma la fisionomia nota delle persone a cui sparano dà l’idea di quanto gli omicidi siano guidati o condizionati dai pregiudizi razziali. I neri uccisi sono stati 1.592 (su 42 milioni di persone, 38 per milione); gli ispanici, 1.089 (su 39 milioni, 28 per milione); i bianchi, 3016 (su 197 milioni, 15 per milione); altri, 244 (su 49 milioni, 5 per milione)[n]1,017 people have been shot and killed by police in the past year, in «Washington Post», 1° marzo 2022; al sito: Police shootings database 2015-2022 – Washington Post.[/n]. 

Nel dicembre 2014, pochi mesi dopo l’uccisione poliziesca del giovane Michael Brown, avvenuta il 9 agosto a Ferguson, nel Missouri, il presidente Obama istituì una commissione, la President’s Task Force on 21st Century Policing, per indagare sulla «sfiducia reciproca che divide troppi dipartimenti di polizia da troppe comunità» e sul fatto che «troppi individui, in particolare giovani di colore, sentono di non essere trattati con giustizia». Il suo Rapporto finale fu pubblicato nel maggio 2015[n]Office of Community Oriented Policing Services, Final Report of the President’s Task Force on 21st Century Policing, Washington, D.C., maggio 2015; al sito: President-Barack-Obama-Task-Force-on-21st-Century-Policing-Final-Report-min.pdf.[/n]. Forniva le linee guida per una riforma della «cultura delle forze dell’ordine» che sostituisse un atteggiamento di «custode» (guardian) a quello di «guerriero» (warrior). Sottolineava l’urgenza di adeguare la composizione delle forze di polizia alle realtà locali e di aumentare la collaborazione con le autorità civili e i rappresentanti delle comunità, di curare la formazione degli agenti, preparandoli sia ad affrontare situazioni diverse e più o meno problematiche, sia a come usare la forza e a come ridurne l’impiego, di accrescere i controlli interni sui comportamenti dei singoli e istituire «meccanismi di supervisione civile in accordo con le comunità». Le indicazioni della commissione non ebbero seguito. Dopo poco più di un anno sarebbe stato eletto Donald Trump, che durante la presidenza Obama aveva continuamente mosso contro di lui attacchi volgarmente razzisti e basati su patenti falsità. Con Trump alla Casa Bianca, non solo i dipartimenti di polizia mantennero la loro libertà d’azione, nonostante le proteste contro la loro violenza (e spesso impunità) e i tentativi di riforma di alcune amministrazioni locali, ma le loro organizzazioni di corpo accrebbero la loro arroganza, sfoggiando impermeabilità alle critiche e verso ogni iniziativa tesa a controllare o riformare il loro agire. 

L’altra faccia del mantenimento dell’ordine passa attraverso il sistema giudiziario. Ma come nelle monete dei bari, il disegno sulle due facce è lo stesso. Repressione poliziesca, condanne dei tribunali e reclusione carceraria – con la “coda” dei controlli extra o post carcerari – formano un’unica catena. La cronica disparità razziale ed etnica nelle incarcerazioni è nota da decenni, ha scritto Ashley Nellis, nel rapporto del Sentencing Project. Qualche piccolo passo correttivo è stato fatto; almeno nove stati hanno ridotto la loro popolazione carceraria del 30 per cento o più. Tuttavia, «non è possibile attuare una riforma veramente significativa del sistema di giustizia criminale se non si riconosce che le basi su cui poggia sono razziste». Le carcerazioni negli Stati Uniti sono un quarto del totale mondiale; non c’è uguale nel resto del mondo, sia in cifre assolute, sia in rapporto alla popolazione. Nel complesso, i detenuti neri sono quasi 5 volte più numerosi dei bianchi e gli ispanici 1,3 volte più dei bianchi. Nel 2019, secondo i dati del Ministero della Giustizia, le percentuali medie delle carcerazioni erano: 1.240 neri per 100.000 residenti; 349 ispanici; 261 bianchi. Inoltre, a livello nazionale, un nero adulto su 81 si trova in prigione (massimi e minimi: 1 su 36 in Wisconsin e 1 su 214 in Massachusetts) e, mentre la percentuale media nazionale delle presenze afroamericane nelle carceri è intorno al 40 per cento, in 12 stati (Alabama, Delaware, Georgia, Illinois, Louisiana, Maryland, Michigan, Mississippi, New Jersey, North e South Carolina, Virginia) quella percentuale supera il 50 per cento[n]The Sentencing Project, The Color of Justice, cit., pp. 4-8; C. Carrega, Black American are incarcerated at nearly five times the rate of Whites, new report on state prisons finds, in «CNNPolitics», 13 ottobre 2021; al sito: Black Americans are incarcerated at nearly five times the rate of Whites, new report on state prisons finds – CNNPolitics.[/n]. 

All’inizio del 2019 – prima dei mutamenti indotti dalla pandemia – i detenuti nei diversi tipi di prigione erano circa 2.300.000, in prevalenza afroamericani, ispanici e poveri (e, come tra gli uccisi, in stragrande maggioranza maschi). Le persone che per un motivo o per l’altro entrano in un carcere sono più di 600.000 ogni anno, hanno scritto Wendy Sawyer e Peter Wagner. Molti vengono arrestati ed escono rapidamente pagando la cauzione, ma molti di più sono poveri, specialmente tra le minoranze, e rimangono in prigione fino al processo e dopo. Molti altri vengono arrestati anche per semplici infrazioni[n]Subito dopo l’uccisione di Michael Brown, il Ministero della Giustizia dell’amministrazione Obama aprì un’indagine sulle prassi discriminatorie della polizia di Ferguson, quasi tutta bianca in una cittadina per oltre due terzi nera. Il rapporto finale diceva che negli anni 2012-14, l’85 per cento dei fermati per infrazioni stradali erano stati afroamericani e il 90 per cento di loro era finito in tribunale; che il 93 per cento di tutti gli arrestati in città erano neri e che spesso nei loro confronti era stata usata «un’irragionevole forza»; che i perquisiti, dopo essere stati fermati, erano in grande maggioranza neri e solo contro di loro i poliziotti avevano aizzato i cani; United States Department of Justice, Civil Rights Division, Investigation of the Ferguson Police Department, Washington, D.C., 4 marzo 2015, p. 4;  J. Swaine, Discrimination in Ferguson: full extent of police bias laid bare in damning report, in «The Guardian, 5 marzo 2015.[/n]. Un numero relativamente piccolo – meno di 160.000 ogni giorno – riceve la sentenza di condanna e in genere deve scontare pene inferiori a un anno. Ma il sistema correzionale non è circoscritto alle mura delle carceri, quali che esse siano: 840.000 persone sono fuori su cauzione e 3.600.000 sono in libertà condizionata[n]W. Sawyer e P. Wagner, Mass Incarceration: The Whole Pie 2019, per Prison Policy Initiative, 19 marzo 2019; al sito: Mass Incarceration: The Whole Pie 2020 | Prison Policy Initiative. Si veda anche la sezione monografica di «Iperstoria», vol. XIV (autunno-inverno 2019) sulle carceri negli Stati Uniti: Bars and Stripes. The United States as Penitentiary/Sbarre e strisce. Gli Stati Uniti come penitenziario, a cura di E. Bordin, S. Bosco e R. Cagliero; al sito: http://www.iperstoria.it/joomla/.  [/n]. Vale sempre la sostanza di quello che Adam Gopnik aveva scritto una decina di anni fa: «Ci sono ora più persone sotto “controllo correzionale” negli Stati Uniti – più di sei milioni – che nell’Arcipelago Gulag al suo massimo sotto Stalin. La “città” dei confinati e controllati, Lockuptown, è la seconda per popolazione negli Stati Uniti»[n]A. Gopnik, The Caging of America, in «The New Yorker», 30 gennaio 2012; al sito: https://www.newyorker.com/magazine/2012/01/30/the-caging-of-america.[/n].

Tutto questo non è cosa nuova. Le contiguità fisiche tra gruppi diversi, quasi sempre imposte o subite dagli uni e dagli altri, sono state uno dei tratti costitutivi della storia americana. Il plurisecolare gomito a gomito tra diversi è iniziato nel momento stesso in cui le colonie sono state fondate, con i bianchi europei nel duplice ruolo ricorrente di ospiti ingrati e aggressori nei confronti dei nativi locali e di importatori e schiavizzatori di nativi africani. Nel tempo, esso ha prodotto forme di repressione e norme di comportamento scritte e non scritte, imposte dai ceti dominanti per proteggere sé stessi, governare le contiguità, evitare le “contaminazioni” – come i matrimoni misti – e limitare le frizioni e gli scontri. La segregazione a base razziale ne è la più tristemente conosciuta. Non è il caso di discutere qui quanto o quanto poco spontaneamente quelle norme siano state condivise, né quanta violenza sia stata esercitata per imporle o per evitare le ribellioni di chi le subiva. Sono cose note. L’assenza di conflitto, quando c’è stata, non è quasi mai dipesa da acquisizione di parità di diritti o riconoscimento di uguaglianza sociale dei ceti subalterni, e la compresenza, in concreto, ha voluto dire abitare e vivere vicini ma divisi: i ricchi dai poveri, i bianchi (anglosassoni e “teutonici” protestanti) da altri bianchi (“latini” cattolici, ebrei e slavi), dai neri (africani e caraibici), dai “marroni” (latinoamericani), dai “gialli” (cinesi e giapponesi). Con i nativi americani la coesistenza è cominciata solo a un passo dalla loro estinzione e dopo la loro recinzione nelle riserve. 

La segregazione razziale non è stata un fenomeno spontaneo. È stata la messa in atto esplicita e inequivocabile della sistematica prevaricazione di un gruppo sociale su un altro gruppo – gli afroamericani, dopo che avevano contribuito in modo diretto e con le armi alla fine della schiavitù – e poi, per estensione, su altri gruppi socialmente discriminabili. La Corte Suprema aveva poi legittimato lo stato di fatto nel 1896, decidendo sul caso «Plessy v. Ferguson» che la regola doveva essere: «Separati ma uguali». L’ipocrisia di quella formula mascherava appena, sotto il velo del paternalismo, la violenza del razzismo dominante. E offriva di fatto la copertura del diritto alle prassi discriminatorie adottate nei luoghi di lavoro e nella società. Nelle città, la segregazione è stata una strategia deliberata, che si è realizzata nella forma stessa via via assunta dalle aggregazioni urbane nelle fasi decisive della loro crescita di fine Ottocento-inizio Novecento. Come mostra Jessica Trounstine, dell’Università di California, la segregazione è un fenomeno razziale e di classe che si è evoluto nel corso dei decenni, mantenendo sempre, però, l’originale coerenza con la propria natura di strumento funzionale all’esercizio di un potere sociale[n]J. Trounstine, Segregation by Design: Local Politics and Inequality in American Cities, Cambridge University Press, New York 2018, p. 3.[/n]. Le amministrazioni locali «hanno generato la segregazione lungo linee di razza e classe» in consonanza con la volontà dei white property owners di «difendere i valori delle proprietà immobiliari e gli accessi esclusivi» ad aree, beni e servizi pubblici di pregio, ed è stata resa possibile dalla capacità dei ceti abbienti di «istituzionalizzare» i propri pregiudizi e privilegi attraverso le scelte politico-amministrative.

Anche quando infine la segregazione e l’esclusione hanno smesso di essere formalmente disciplinate da leggi e da norme locali, la separazione abitativa, sociale e culturale ha continuato a essere praticata e legittimata di fatto. Lo hanno testimoniato fino a due terzi del Novecento – e oltre, in vari casi – i quartieri suburbani esclusivamente bianchi di classe media e alta, i ghetti neri e portoricani; i quartieri urbani a lungo separati di italiani, greci, polacchi, ebrei, cinesi e così via (in parte smantellati, via via, dalle progressive cooptazioni facilitate da nuove immigrazioni e dalle gentrificazioni); i quartieri “al di là della ferrovia” nelle città del Sud o marginalizzati, ovunque, da linee di confine urbane, invisibili ma invalicabili; le Sunset towns della grande Provincia americana, in cui era impedito agli afroamericani non solo di risiedere, ma anche di essere presenti in città dopo il tramonto. 

  1. Dai tycoons alla conquista della democrazia, ai nuovi tycoons e ai panni ristretti della classe media

Quando Alexis de Tocqueville pubblicò La democrazia in America, nel 1835, non immaginava certo che l’approssimazione presente in quel suo titolo avrebbe dato origine a un equivoco reso imperituro dalle convenienze ideologico-politiche – e mediatiche, diremmo oggi – con cui la repubblica ha poi sempre celebrato sé stessa nel confronto con le monarchie e gli assolutismi europei. La società repubblicana non è nata democratica e non lo è stata per molto tempo. Come ha scritto, con buona approssimazione, lo studioso e giornalista britannico Gary Younge: «Gli Stati Uniti sono stati per 200 anni uno stato schiavista; per 100 anni uno stato dell’apartheid e solo per poco più di 50 anni una democrazia non-razziale. Il concetto di uguaglianza vi è abbastanza nuovo»[n]G. Younge, Remember this about Donald Trump. He knows the depths of American bigotry, in «The Guardian», 26 settembre 2017; al sito: https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/sep/26/donald-trump-nfl-kneeling-national-anthem.[/n]. Democratici gli Stati Uniti lo sono diventati per gradi e, per così dire, a pezzi, a mano a mano che elementi di democrazia venivano imposti dai lavoratori organizzati e da forze sociali emancipatrici – di neri e bianchi, di uomini e di donne – non sempre antirazziste, spesso antiborghesi e qualche volta anticapitalistiche. È stato un processo lungo, in cui si sono alternate le vittorie e sconfitte delle forze in campo. 

La plutocrazia assolutista dei tycoon e robber barons della storia economica e finanziaria degli Stati Uniti della Seconda rivoluzione industriale – curiosamente, il primo termine preso dalla storia feudale nipponica; il secondo dal passato feudale europeo – è stata contestata con forza crescente dalle classi operaie nei decenni compresi tra il grande sciopero delle ferrovie del 1877, che investì tutte le regioni e aree più popolose del paese, e la crescita prorompente del Congress of Industrial Organizations appena prima della Seconda guerra mondiale. Anche quando le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori non avevano ancora le dimensioni di massa e la piena legittimità raggiunte solo negli anni Trenta non sono mai mancate le voci di opposizione che sfidavano l’ordine dominante e le repressioni, anche a mano armata, da parte dei capitalisti in prima persona e, a volte, dallo Stato insieme a loro o per conto loro. 

Sono stati i conflitti di classe e i loro protagonisti lungo quei decenni – davvero la storia come storia della lotta di classe, se si guarda all’economia politica e alle sue istituzioni giuridiche e politiche – a cadenzare i passi della democratizzazione, ponendo il paese di fronte all’alternativa che il già citato giurista Louis Brandeis sintetizzò all’alba del New Deal, «Possiamo avere la democrazia, o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe»[n]Brandeis, giudice della Corte Suprema, cit. in P.S. Campbell, Democracy v. Concentrated Wealth: In Search of Louis D. Brandeis Quote, in «The Green Bag», vol. XVI, n. 3 (primavera 2013), pp. 251-256; al sito: http://greenbag.org/v16n3/v16n3_articles_campbell.pdf.[/n]. Erano stati l’andamento stesso della Borsa e infine il suo crollo nel 1929 a rendere evidente l’insostenibilità di quel modello economico-sociale così sperequato a favore dei grandi capitalisti e dei loro profitti. Nell’amministrazione Roosevelt ci fu chi simpatizzava per l’idea di ricomposizione sociale dello stato corporativo mussoliniano, ma non fu quello il modello vincente. Diversamente che in Italia, la conflittualità sociale non fu soppressa e le organizzazioni operaie, che Roosevelt non pensò mai di promuovere ma neppure di reprimere, indirizzarono le politiche economiche e sociali del New Deal. Dopo la Seconda guerra mondiale, nella lunga fase – quella sì repressiva – della Guerra fredda e del maccartismo, l’obiettivo di una società realmente democratica fu messo nuovamente in pericolo. E il newdealismo non più rooseveltiano dovette “compensare” sul piano economico quello che le paranoie anticomuniste toglievano sul terreno delle libertà civili. Le compensazioni furono la sicurezza dell’occupazione e gli alti salari, garantiti da sindacati riconvertiti all’economicismo «puro e semplice» e da una crescita economica pressoché costante. Fu allora che inaspettatamente crebbero le diverse mobilitazioni delle altre componenti subalterne: prima, e più a lungo e fortemente quella degli afroamericani contro segregazione razziale e povertà e per i diritti civili e politici, poi dei giovani contro l’autoritarismo e la guerra, e infine delle donne contro le discriminazioni e per la parità di genere. Pane per lo «stile paranoico» della politica statunitense, che si trovò a sostituire lo sconfitto nemico stalinista interno con quello afroamericano e poi con quello degli studenti e degli oppositori alla guerra del Vietnam, bollati tutti come comunisti o “compagni di strada” dei comunisti. E quando non erano più i “comunisti”, furono le donne, sovversive anch’esse – in altro modo – perché mettevano in pericolo l’intero genere maschile e il loro potere patriarcale[n]Di tutto questo ho scritto in: I lunghi anni Sessanta. Movimento sociali e cultura politica negli Stati Uniti, Feltrinelli, Milano 2012.[/n].

I movimenti degli anni Sessanta imposero leggi contro le discriminazioni, come l’Equal pay act (1963), il Civil Rights Act (1964), il Voting Rights Act (1965) e le politiche sociali della Great Society di Johnson; ciò nonostante le discriminazioni sociali non sono cessate, la parità salariale e di genere ha continuato a non essere garantita ai neri e alle donne, e l’esercizio del diritto di voto degli afroamericani ha continuato a essere limitato. E quando, mentre la stagione tumultuosa e drammatica dei movimenti di liberazione e contro la guerra cominciava a perdere intensità, il risveglio operaio diede vita a un lunghissimo ciclo di lotte: tra il 1966 e il 1975, il numero medio annuo degli scioperi fu di 5.207, con oltre due milioni e mezzo di scioperanti e 40.760.000 giornate di lavoro perdute all’anno. Sono stati massimi storici; in nessun altro decennio della storia statunitense i lavoratori hanno scioperato di più. Fu allora che divenne chiaro ai ceti dominanti che le eliminazioni fisiche, lo spionaggio interno e i metodi tradizionali di controllo e repressione non erano sufficienti per riportare la società all’ordine. Anzi, bisognava che l’ordine stesso e la società non fossero più gli stessi. 

La trasformazione sociale e la Terza rivoluzione industriale furono avviate allora, insieme. Fu un’impennata brusca e generale; altra cosa rispetto alla stabilità dei rapporti sociali e al passo lento dell’evoluzione tecnologica del lungo dopoguerra. Molte delle loro premesse teoriche e ideologiche erano state formulate poco tempo prima da Milton Friedman nel suo Capitalism and Freedom e nella Monetary History of the United States, scritto con Anna Schwartz, pubblicati nel 1962 e 1963[n]M. Friedman, Capitalism and Freedom (1962), trad. it.: Efficienza economica e libertà, Vallecchi, Firenze 1967; Id. e A. Schwartz, A Monetary History of the United States, 1867-1960 (1963), trad. it.: Il dollaro. Storia monetaria degli USA, 1867-1960, UTET, Torino 1979.[/n]. Per qualche anno, il keynesismo-rooseveltismo ancora predominante e addirittura rilanciato da Lyndon Johnson con la War on Poverty e la Great Society, gli aveva tolto spazio. Ma non furono dimenticate. Le linee fondamentali del pensiero di Friedman e della scuola neoliberista ebbero una prima attuazione parziale nel New Economic Program varato da Nixon nel 1971. Nelle parole del suo consigliere Arnold Weber, il business «premeva» sulla presidenza perché «facesse qualcosa sui salari.» Furono adottate misure economico-sociali che avevano al centro il blocco dei prezzi (che invece continuarono a salire) e dei salari: dovevano «tagliare le gambe al movimento operaio. E lo abbiamo fatto»[n]Weber cit. da C. Fritchey nella sua rubrica sul «New York Post», 19 settembre 1974; ved.. D.M. Gordon, Capital vs. Labor: The Current Crisis in the Sphere of Production,  in Aa.Vv., Radical Perspectives on the Economic Crisis of Monopoly Capitalism, Union for Radical Political Economists, New York 1975, p. 34.[/n]. Con la guerra in Vietnam e la protesta operaia ancora in corso, furono adottate le strategie mediatiche per addebitare al welfare state e alla conflittualità sociale le responsabilità della crisi in cui era entrato il paese (e che si sarebbe aggravata proprio con la sconfitta in Vietnam, con la prima crisi petrolifera del 1973 e, sul piano istituzionale, con Nixon e il suo vice Agnew costretti a dimettersi con infamia). 

Contraltari alla sconfitta in Vietnam e a testimonianza che il vento cambiava direzione, arrivavano i successi internazionali delle destre sanciti dalla realizzazione dei golpe militari in Cile del 1973 e in Argentina nel 1976, dal Premio Nobel per l’economia a von Hayek nel 1974 e a Friedman nel 1976 e dal premierato di Margaret Thatcher nel 1979. I precetti del neoliberismo diventarono politica condivisa, “ufficiale”, del grande capitale e dello Stato dopo il 1980, quando Ronald Reagan fu eletto alla presidenza. Contro il capitalismo sociale dei decenni precedenti Friedman aveva scritto nel 1970 che «esiste soltanto una responsabilità sociale del business: impiegare le proprie risorse e impegnarsi in attività funzionali a incrementare i propri profitti». Dirigenti e amministratori lavorano per gli azionisti che gli pagano gli stipendi; ogni altra forma di «coscienza sociale» è «socialismo puro e semplice»[n]M. Friedman, The Social Responsibility of Business Is to Increase Its Profits, in «New York Times», 13 settembre 1970. Dieci anni più tardi, in risposta alla domanda di divulgazione del suo pensiero, Friedman e la moglie Rose pubblicarono, Free to Choose (1980), trad. it.: Liberi di scegliere, TEA, Milano 1981.[/n]. Non è un caso che la Business Roundtable, l’associazione che riunisce gli amministratori delegati delle maggiori corporation, sia nata allora – nel 1972 – esattamente in nome e per imporre quei principi[n]La Business Roundtable (Brt) adottò formalmente nel 1977 i principi friedmaniani, secondo cui «le corporation esistono primariamente per servire i loro azionisti (shareholders)». Sarebbe passato quasi mezzo secolo prima che i 182 amministratori delegati riuniti nella BRT adottassero nell’agosto 2019 un nuovo Statement on the Purpose of a Corporation, in cui dichiaravano invece l’assunzione di responsabilità verso gli stakeholders, cioè le «parti interessate» esterne all’azienda, sotto forma di rispetto dei consumatori e dei dipendenti e di supporto alle comunità, con l’obiettivo di «generare valore per gli azionisti sul lungo periodo» invece che nell’immediato.[/n]. 

I ceti dominanti cercarono una propria nuova identità nell’intensificazione della ricerca di nuovi modi di produzione e di nuovi rapporti di forza nei luoghi di lavoro e nella società. Capitale e Stato, insieme, hanno zittito la protesta afroamericana e operaia, smantellato le grandi fabbriche, le organizzazioni sindacali e le comunità operaie nelle città (e, in parte, le città stesse[n]B. Cartosio, Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 174-210.[/n]), riuscendo a reimporre forme autoritarie di comando sul lavoro e strutture economico-sociali di casta e classe che sembravano risorgere dal passato della Seconda rivoluzione industriale. Dagli anni di Reagan in poi, Stato e capitale hanno cancellato le politiche redistributive che avevano caratterizzato i primi trent’anni del secondo dopoguerra; hanno dato mano libera alla grande finanza; hanno rivoluzionato il mondo della produzione e del lavoro; hanno tagliato i salari e riapprofondito le disuguaglianze sociali che si erano ridotte progressivamente fino ai primi anni Settanta, facendo crollare anche i bastioni che avevano difeso la classe media. La “famosa” mobilità americana verso l’alto è stata azzerata. 

Analisi, testimonianze e reportages sul declino della classe media hanno costellato i media statunitensi negli ultimi decenni, soprattutto dopo la Grande recessione e la crisi dei mutui, che aveva ridotto di quasi un terzo la ricchezza delle famiglie di classe media (- 28 per cento nel 2013 rispetto al 2001). Una volta, le tre fasce costitutive della cosiddetta middle class occupavano i tre quinti centrali della società, al di sotto del 20 per cento dei più ricchi, ma al di sopra del 20 per cento dei poveri. Ora una piccola percentuale della middle class più alta (upper) è salita verso l’alto, mentre una quota sostanziale della middle class più bassa (lower) è scesa ulteriormente verso il basso. Soprattutto ha perso reddito l’intera fascia intermedia, la middle class senza aggettivi. Nel 2016, ha scritto il giornalista Nelson Schwartz, al netto dell’inflazione, la ricchezza media delle famiglie bianche di classe media era sceso del 19 per cento rispetto al 2007, mentre il crollo era stato del 40 per cento per quelle afroamericane e del 46 per le ispaniche. 

«E per molti il vecchio sentiero del lavorare duro era semplicemente non praticabile; dopo il picco della disoccupazione nell’autunno 2009 ci sono voluti anni perché la disoccupazione tornasse ai livelli pre-recessione. Anche se i profitti delle corporation aumentavano, né occupati, né disoccupati avevano la forza per chiedere aumenti»[n]N.D. Schwartz, The Recovery Threw the Middle-Class Dream Under a Benz, in «New York Times», 12 settembre 2018.[/n]. 

La grande middle class che secondo le classificazioni usuali nel 1971 costituiva oltre il 60 per cento della società, nel 2015 si era ristretta al 50 per cento. Nel 1970 essa contava sul 62 per cento del reddito nazionale; nei decenni successivi – quelli dell’affermazione del neoliberismo – la sua quota si era progressivamente assottigliata e nel 2014 era scesa al 43 per cento, mentre quella della lower class rimaneva sostanzialmente inalterata (dal 10 al 9 per cento), e quella della upper class saliva del 29 al 49 per cento[n]La questione è stata al centro di un dibattito sociologico-politico che si è protratto per tutti gli ultimi quindici anni. Qui si vedano almeno: Pew Research Center, The American Middle Class Is Losing Ground, 9 dicembre 2015; al sito:  The American Middle Class Is Losing Ground | Pew Research Center; P.F. Cole (American Labor Studies Center), The Decline of the Middle Class: How and Why It Happened and What to Do about It, 2016;  al sito: Decline-of-the-Middle-Class.pdf (labor-studies.org)[/n].

La grande maggioranza degli azionisti delle corporation non sono classe media, appartengono alla fascia ristretta dei grandi ricchi e dei super-ricchi. Questi ultimi, l’uno per cento, alla fine del 2020 possedevano negli Stati Uniti il 31,4 per cento della ricchezza, il 26 per cento dei redditi e il 56 per cento di tutte le azioni. Alla stessa data, il 10 per cento che include i super-ricchi e costituisce il vertice della piramide sociale e della classe dominante – o élite, come si ama chiamarla ora – deteneva il 69,6 per cento della ricchezza (lasciandone il 30,3 per cento al sottostante 90 per cento della popolazione), si accaparrava il 70,5 dei redditi e possedeva l’84 per cento delle azioni[n]Fed, Distribution of Household Wealth in the U.S. since 1989, 19 marzo 2021; nel 1989 la quota di ricchezza dell’1 per cento era del 23,7 e quella dei redditi del 17,4 per cento; al sito: The Fed – Distribution: Distribution of Household Wealth in the U.S. since 1989 (federalreserve.gov). Nel 1989 la quota di possesso di azioni dell’1 per cento era del 46 per cento; R. Wigglesworth, How America’s 1% came to dominate stock ownership, «Financial Times», 11 fennraio 2020; al sito: How America’s 1% came to dominate stock ownership | Financial Post.[/n]. Tra l’altro, contrariamente alla narrazione mitologica, secondo la quale «tutti gli americani giocano in borsa», solo poco più della metà della popolazione statunitense possiede azioni direttamente o indirettamente (attraverso fondi pensione, fondi comuni ecc.). Con un po’ più di precisione: tra gli appartenenti alla metà inferiore della scala dei redditi è il 31 per cento delle persone a possedere azioni direttamente o indirettamente, e il valore mediano dei pacchetti azionari da queste detenuti è di circa 10.000 dollari; mentre tra chi si colloca nel 10 per cento di vertice è il 92,3 per cento a possedere azioni, per un valore mediano di circa 439.000 dollari. Questi pochi individui tengono le redini dell’economia attraverso la posizione dominante delle corporation che amministrano e di cui condividono proprietà e interessi. Sono i “ricchi e istruiti”, il cui accesso a denaro, informazioni e rapporti sociali permette loro di continuare ad arricchirsi individualmente (tra il 1989 e il 2020, la ricchezza del 10 per cento più ricco è cresciuta dell’8,9 per cento).

La letterale ubiquità degli stessi individui che presenziano in consigli di amministrazione diversi e in settori di attività diversi, dice quanto grande sia la condivisione dei poteri decisionali tra gli appartenenti allo stesso ceto e quanto sia inevitabile che i pochi ricchi e istruiti “si vedano”, come nella citata Business Roundtable, la tavola rotonda degli amministratori delegati, per tracciare le linee essenziali di strategie comuni. Di fatto, questo ceto dominante – tornato a essere «aristocrazia del denaro» com’era nella prima Gilded Age – è una piccola comunità coesa e autoreferenziale (globale) per la quale gran parte degli altri quattro quinti della popolazione costituisce “il resto”. Nel 2005, in un documento destinato esclusivamente ai clienti più ricchi, gli analisti di Citigroup avevano tracciato un compiaciuto ritratto di quel ristretto numero di privilegiati che aveva nelle sue mani le redini dell’economia statunitense e globale: «Il mondo si divide in due blocchi: le plutonomie, in cui la crescita economica è messa in moto e largamente goduta dai pochi ricchi, e il resto»[n]A. Kapur, N. Macleod e N. Singh, Plutonomy: Buying Luxury, Explaining Global Imbalances, in «Citygroup», 15 ottobre 2005.[/n]. Le plutonomie, o più tradizionalmente, le plutocrazie sono quelle dei paesi ricchi.

  La parte più povera del “resto”, al contrario dei ricchi e istruiti, è poco scolarizzata, ha redditi al di sotto o poco al di sopra della media nazionale, non ha ricchezze ereditate o accumulate, a parte la casa, che magari ha rischiato di perdere – o ha perso – nella Grande recessione del 2008 o nella successiva crisi causata dalla pandemia. Per molti di quanti si trovano in questa fascia il rapporto con il mondo del lavoro è diventato sempre più precario e a basso salario. Secondo il Bureau of Labor Statistics, sono poveri o impoveriti (nel 2019: 34 milioni) e spesso working poor (6,3 milioni): persone che hanno lavori a tempo parziale o precari o saltuari, sottopagati e senza coperture assistenziali o pensionistiche, che non permettono loro di allontanarsi dalla povertà. La differenza tra bianchi e non bianchi tra loro è data dal fatto che mentre molti bianchi sono “decaduti” da una precedente condizione di classe media a lavoro relativamente stabile e a salari e redditi medio alti (spesso “da classe media”), molti più afroamericani, ispanici e asiatici non hanno mai superato la media nazionale dei redditi. Infine, tra il resto e l’élite si trova la piccola fascia cuscinetto di persone che non hanno perso reddito e collocazione sociale. Gente più o meno benestante, divisa tra l’aspirazione di salire ancora nella scala sociale, la paura di scendere e il disagio provocato dalla pura e semplice presenza di tanti poveri intorno a loro. 

È stato agli impoveriti, a chi ha paura di diventare povero e a chi pensa che non potrà uscire dai dintorni della povertà – soprattutto bianchi – che ha parlato il demagogo Donald Trump, evocando fantasmi e attribuendo loro nomi e fisionomie di comodo: non sono i padroni che li hanno privati del lavoro portando altrove la produzione, ma gli immigrati che glielo hanno portato via; non le grandi corporation che dettano prezzi e salari, ma i poveri che vendono il loro lavoro sottocosto; non le società finanziarie che li hanno illusi offrendogli mutui-spazzatura per la loro casa, ma neri e ispanici che approfittano delle loro difficoltà per uscire dai ghetti urbani e infiltrare i suburbs. La classe media, che paga più tasse dei ricchi, è indotta a domandarsi perché dare soldi per le scuole pubbliche, l’assistenza medica per poveri e anziani, i buoni pasto e i sussidi di disoccupazione, se sono i poveri a goderne. E così via. Non è l’egoismo altero dei ricchi, al sicuro e al di sopra della mischia per la sopravvivenza (di cui si occupano solo, da lontano, per scegliere i destinatari della loro beneficienza). È un egoismo revanscista, interamente calato nella zuffa: se io devo pagare, perché tu no? Se sei povero è colpa tua, perché devi avere “vantaggi” per i quali io pago? Erano questi, la crisi sociale e il cumulo di risentimenti ideologico-politici su cui Biden aveva immaginato di potere intervenire all’inizio della sua presidenza, con il Jobs Plan e il Families Plan.

5. I pochi, i tanti e la Grande recessione: Occupy Wall Street e Barack Obama

Gli attentati di New York e Washington del settembre 2001 coincisero con una breve recessione, innescata in parte dalla «crisi dell’e-commerce» e superata rapidamente. Invece gli interventi in Afghanistan dall’ottobre dello stesso anno e in Iraq dal marzo 2003 aprirono la strada a nuovi problemi. Nella società già così squilibrata, l’enorme, prolungata spesa per le due guerre impose la riduzione della spesa pubblica, dei trasferimenti finanziari a città e stati e infine dei servizi forniti alla popolazione. Il bilancio federale, che Clinton aveva lasciato in attivo per 236 miliardi di dollari nel 2000, si rovesciò in un passivo pesante dopo i primi sei anni della presidenza Bush, a causa soprattutto dell’incremento delle spese militari in combinazione con il calo delle entrate all’erario, dovuto all’introduzione di forti riduzioni fiscali a favore dei redditi più alti e alla riduzione del gettito proveniente dai ceti medio-bassi impoveriti e dalle città deindustrializzate e depopolate[n]B. Cartosio, Stati Uniti contemporanei. Dalla guerra civile a oggi, Giunti, Firenze 2010, pp. 225-226. J.E. Stiglitz e L.J. Bilmes, The Three Trillion Dollar War: The True Cost of the Iraq Conflict, Allen Lane, London 2008; W.D. Nordhaus, The Economic Consequences of a War with Iraq, in Aa.Vv., War with Iraq: Costs, Consequences, and Alternatives, American Academy of Arts and Sciences, Cambridge, MA 2002.[/n]. L’economia rallentò di nuovo nel corso del 2007 ed entrò in recessione alla fine dell’anno. Quando arrivò, la “Grande recessione” fu violenta. Portò anche a drammatica evidenza i meccanismi speculativi – nascosti, per così dire, nelle zone buie dei mercati finanziari – che avevano portato alla creazione della “bolla” immobiliare, in seguito all’abbassamento dei tassi d’interesse da parte della Fed e all’espansione dei mutui sub-prime, cioè concessi senza garanzie sufficienti[n]Questo paragrafo e il seguente sintetizzano gli eventi più estesamente ricostruiti in Cartosio, Stati Uniti contemporanei, cit., pp. 225-234.[/n]. La bolla speculativa che aveva portato al rialzo dei valori immobiliari esplose quando le difficoltà dei mutuatari a pagare le rate dei mutui giunsero al punto critico dell’insolvenza diffusa, cui seguì l’esproprio degli immobili da parte degli istituti creditori. Le conseguenze furono catastrofiche per le centinaia di migliaia di morosi che avevano ottenuto il mutuo magari ponendo a garanzia soltanto il posto di lavoro stabile e il reddito sicuro (che presto si rivelarono essere né stabili, né sicuri): la percentuale degli espropri si avvicinò al 30 per cento nel 2008 e raddoppiò nel 2009. La catena delle speculazioni, e degli inganni a danno di chi era stato irretito dalle false opportunità offerte dagli istituti finanziari, finì per causare crolli eccellenti anche tra questi ultimi. 

I fallimenti arrivarono quasi all’improvviso, prima che il governo introducesse misure di salvataggio. Nel marzo 2008 crollò Bear Stearns, seguita da Lehman Brothers e Washington Mutual a settembre dello stesso anno. Fallirono molte banche più piccole, grandi aziende come General Motors e Chrysler arrivarono sull’orlo della bancarotta. E quando i maggiori gestori di mutui (Aig, Fannie Mae, Freddie Mac) e i massimi colossi di Wall Street (Goldman Sachs, JPMorgan, Citigroup, Bank of America) diedero segni di possibili cedimenti, rischiando di portare al crollo Wall Street e l’intero sistema economico-finanziario nazionale e internazionale imperniato sul dollaro, l’amministrazione Bush intervenne a difesa del sistema. Contro i principi neoliberisti – da darwinismo sociale: sopravviva chi ha le forze per farlo – a cui sia il governo, sia i grandi capitalisti dicevano di attenersi, la Washington di Bush e, dall’inizio del 2009, di Obama accorse al salvataggio, assumendo su di sé il controllo dei due maggiori gestori di mutui e concedendo un prestito di salvataggio alla Aig, stanziando centinaia di miliardi di dollari per le banche «troppo grandi per fallire» e destinando quantità minori di denaro al salvataggio delle due “grandi” dell’automobile (in compartecipazione con il sindacato e il governo canadese) e al sostegno delle aziende minori e dei lavoratori. Nel 2010-11, anche grazie ai miliardi con cui Bush e soprattutto Obama avevano «stimolato» l’economia e salvato dal crollo il sistema finanziario, il paese cominciò a riprendersi dalla recessione. Anche il progressivo ritiro delle truppe dall’Iraq contribuì alla ripresa riducendo le spese. Nel frattempo, l’amministrazione Obama cercò di mettere ordine e introdurre controlli sui comportamenti sregolati del mondo finanziario con la Legge Dodd-Frank «per la riforma di Wall Street e la protezione dei consumatori», del luglio 2010. Legge contro la quale le ostilità di Wall Street e delle destre iniziarono un minuto dopo il suo varo. 

Ma i discorsi sulle responsabilità del disastro e su chi aveva sofferto e chi aveva guadagnato durante la crisi ebbero un brusco salto di qualità il 17 settembre 2011, quando un gruppo di alcune centinaia di attivisti newyorkesi occupò il piccolo spiazzo lastricato e alberato di Zuccotti Park, a pochi passi dal tempio della finanza. Il nome dell’iniziativa, “Occupy Wall Street”, era altamente simbolico, in più di un senso. In primo luogo, denunciava il mondo della grande finanza come responsabile principale sia della recessione, sia delle logiche speculative che l’avevano preceduta e avevano portato molti alla rovina e il paese a una spaventosa sperequazione sociale. Il suo slogan, «loro l’1%, noi il 99%», intendeva rappresentare tutta la popolazione che subiva la supremazia di una piccolissima minoranza super-ricca, privilegiata e rapace. In secondo luogo, contro la falsa democrazia dei ricchi, indicava nella democrazia diretta, dal basso, il modo di agire: occupare Wall Street ne era la messa in pratica. Nella distanza tra le occupazioni delle fabbriche degli anni Trenta e delle università dei Sessanta del Novecento, e l’occupazione di un piccolo parco pubblico nel cuore del sistema finanziario mondiale si rappresentavano le diversità di soggetti e ragioni dell’antagonismo sociale. Le occupazioni delle fabbriche e delle università da parte di operai e studenti negli anni Trenta e Sessanta si erano chiamate sit-down e sit-in. Quella attuale richiamava implicitamente quel passato, ma la scelta del termine, occupy, rendeva invece esplicito il collegamento con le contemporanee occupazioni di spazi pubblici che in altri paesi avevano preceduto quella di Zuccotti Park. Un filo diretto legava l’autunno di Occupy alle rivolte in Tunisia e in Egitto di fine 2010 e inizio 2011 (gli inizi delle “Primavere arabe”), alle occupazioni degli indignados spagnoli alla Puerta del Sol a Madrid del mese di maggio, alla rivolta nelle strade di Londra dell’agosto e alle altre agitazioni che nel corso dell’estate avevano avuto luogo in Europa, Asia e America Latina[n]Scrittori per il 99%, Occupy Wall Street, Feltrinelli, Milano 2012; A. Curcio e G. Roggero, a cura di, Occupy! I movimenti nella crisi globale, ombre corte, Verona 2012; Aa.Vv., Occupy! Teoria e pratica del movimento contro l’oligarchia finanziaria, il Saggiatore, Milano 2012; T. Gitlin, Occupy Nation, The Roots, the Spirit, and the Promise of Occupy Wall Street, itbooks, New York 2012. Gli indignados spagnoli avevano tratto il loro nome da un opuscolo pubblicato nel 2010, e subito circolato in tutta Europa, dall’ex partigiano e poi diplomatico francese S. Hessel, Indignatevi!, add, Torino 2011.[/n].  

Era stato nel mese di luglio che Adbuster, una rivista dell’attivismo ecologista-anticonsumista di Vancouver, aveva auspicato un movimento che fondesse «piazza Tahrir con le acampadas di Spagna» e lanciato la sfida: «#OCCUPY WALL STREET. Siete pronti per un momento Tahrir? Il 17 settembre invadete Manhattan, tirate su tende, cucine, barricate pacifiche e occupate Wall Street»[n]Scrittori per il 99%, Occupy Wall Street, cit., p. 22. Il giorno 17 – del dicembre 2010 – era quello in cui Mohammed Bouazizi, il venditore ambulante cui la polizia aveva sequestrato merce e carretto, si era dato fuoco a Ben Arous, in Tunisia.[/n]. Negli Stati Uniti, la scintilla di New York generò una fiammata che investì centinaia di città grandi e piccole nel resto del paese. A Oakland, sull’altra costa, gli occupanti erano 50.000 alla fine di novembre. Occupy rimase viva fino a quando l’inverno e le polizie locali resero impossibili gli accampamenti. Il momento e il luogo dell’azione e i modi eclatanti della sua conduzione (e del vasto supporto ricevuto) arrivarono per molti statunitensi come una sorpresa. I media avevano sottovalutato l’esistenza del nuovo internazionalismo che aveva coinvolto anche gli Stati Uniti nei dieci anni precedenti. Ora dovettero rimediare tenendo per mesi l’occhio puntato su Occupy e le sue denunce. Rintracciarono nei temi dibattuti nelle assemblee pubbliche e nelle biografie degli stessi occupanti il filo dei loro precedenti a partire dalla rivolta di Seattle del 1999 contro l’Organizzazione mondiale del commercio. Riscoprirono il grande contributo – di partecipazione e teorico – alla crescita del movimento No Global e per la giustizia globale, che aveva dato luogo a undici Forum sociali mondiali tra il 2001 (Porto Alegre) e l’inizio del 2011 (Dakar). Si accorsero che non solo le manifestazioni contro la guerra in Iraq erano state “nodali” per quello stesso movimento, ma che anche in quel caso esse erano avvenute contemporaneamente negli Stati Uniti e nel resto del mondo. 

Anche mobilitazioni a sostegno della candidatura di Barack Obama nel corso del 2008, avevano contribuito a sensibilizzare molti giovani sui temi della giustizia e delle ingiustizie sociali e delle politiche ambientali. Allora, Noam Chomsky – uno dei maggiori intellettuali di riferimento per i Forum sociali – aveva detto che i giovani che si erano impegnati nella campagna per Obama sarebbero potuti diventare una forza capace di «cambiare la società per il meglio»[n]N. Chomsky, L’America oggi, intervista con Martina Toti, in «Rassegna sindacale-Il mese», Marzo 2008, p. 1.[/n]. Fu una proiezione un po’ troppo ottimistica; tuttavia, non c’è dubbio che nell’autunno di tre anni dopo una parte di quei giovani fossero in piazza con Occupy in centinaia di città americane. Lo stesso Obama cercò di arrivare a loro e ai tanti che erano stati sensibilizzati dal movimento, valorizzando esplicitamente la spinta etica e le istanze di democrazia, inclusione e solidarietà – i termini sono di Frances Fox Piven[n]F. Fox Piven, A Proud, Angry Poor, in «The Nation», 14 dicembre 2011.[/n] – che il movimento aveva vitalizzato. Lo fece nel discorso di lancio della campagna per la propria rielezione in un discorso denso di storia e di attualità nella cittadina di Osawatomie, in Kansas, a dicembre del 2011[n]The White House, Remarks by the President [Barack Obama] on the Economy in Osawatomie, Kansas, 6 dicembre 2011. La scelta del luogo non fu casuale. A Osawatomie, il 31 agosto 1910, Theodore Roosevelt aveva lanciato la campagna per la sua rielezione alla Presidenza, che non ebbe successo, con l’importante discorso sul «New Nationalism», in occasione dell’inaugurazione di un parco pubblico dedicato all’antischiavista John Brown, che a Osawatomie si era scontrato con i sostenitori della schiavitù nel 1856. Il testo è disponibile sul sito: http://www.theodore.roosevelt.com/images/research/trnationalismspeech.pdf.[/n]. 

Il discorso fu visto come una netta scelta di campo. Obama mise al centro i temi della disuguaglianza sociale, indicando nella sottrazione di opportunità economiche le cause del declino di quella classe media da sempre depositaria dell’«ideologia americana». 

«Quelli che stanno in cima sono diventati più ricchi grazie ai loro redditi e investimenti, più ricchi che mai prima d’ora. Invece tutti gli altri hanno lottato con i costi che crescevano mentre le buste paga no, e troppe famiglie si sono trovate ad accumulare debiti solo per rimanere a galla. Per troppo tempo le carte di credito e i mutui hanno mascherato questa dura realtà. Ma nel 2008 il castello di carte è crollato…»

 Con un riferimento implicito, ma chiaro, a Occupy, Obama puntava il dito contro il lassismo legislativo a favore di Wall Street e le responsabilità delle grandi banche e dell’uno per cento dei super-ricchi: 

«La disuguaglianza distorce la nostra democrazia. Dà voce spropositata ai pochi che possono permettersi lobbisti costosi e contributi elettorali illimitati, e rischia di svendere la nostra democrazia al miglior offerente. Crea in tutti gli altri il giusto sospetto che a Washington il sistema sia truccato contro di loro, che i nostri rappresentanti eletti non si curino degli interessi della maggioranza degli statunitensi». 

La riduzione del prelievo fiscale per i ricchi era stato uno dei fattori nella creazione della disuguaglianza. E dopo avere ricordato che «oggi gli statunitensi più ricchi pagano le tasse più basse dell’ultimo mezzo secolo», sottolineava che l’equità fiscale non è una questione di class warfare, ma di welfare per l’intera nazione: 

«Non è come negli anni Cinquanta, quando l’aliquota fiscale più alta superava il 90 per cento. Non è neppure come nei primi anni Ottanta, quando era intorno al 70 per cento. Con il presidente Clinton l’aliquota massima era intorno al 39 per cento. Oggi, grazie a protezioni e aggiramenti, un quarto dei milionari paga meno tasse di milioni di voi, di milioni di famiglie della classe media. Alcuni miliardari pagano l’1 per cento. Uno per cento. Questo è il massimo dell’ingiustizia. È sbagliato. È sbagliato che negli Stati Uniti un insegnante o un’infermiera o un muratore che guadagni forse 50.000 dollari all’anno debba pagare in base a un’aliquota fiscale più alta di uno che ammassa 50 milioni di dollari»[n]L’aliquota più alta, superiore al 90 per cento, si applicava ai redditi che superavano i 400.000 dollari annui; D. Bennett, Commentary: The Inequality Delusion, in «Bloomberg Businessweek», 21 ottobre 2010; al sito: http://www.businessweek.com/print/magazine/content/10_44/b4201008238184.htm; T. Noah, The Great Divergence: America’s Growing Inequality Crisis and What We Can Do about It, Bloomsbury Press, New York 2013.[/n]. 

Così come avevano fatto gli “occupanti” nei mesi precedenti, con il suo discorso Obama si rendeva divulgatore di alcuni dati molto concreti presenti nelle elaborazioni degli stessi economisti, sociologi, statistici a cui il movimento faceva riferimento. Lo avrebbe fatto nuovamente nel discorso sullo “Stato dell’Unione” del successivo 24 gennaio, pronunciato di fronte al Congresso riunito e teletrasmesso in tutto il paese, facendo delle disuguaglianze sociali e degli effetti nefasti della loro crescita sulla middle class uno dei cardini della sua allocuzione. 

Naturalmente, nonostante i vasti echi delle parole di Occupy sulle disuguaglianze sociali e i privilegi dei grandi ricchi, e nonostante che anche Obama giocasse la carta dell’indignazione, il Presidente degli Stati Uniti e il movimento non potevano essere la stessa cosa. Entrambi intendevano parlare per «il 99 per cento», ma Occupy non aveva bisogno dei voti di cui invece aveva bisogno Obama. La forza comunicativa con cui il movimento denunciava le responsabilità dell’«1 per cento», che riapriva nella classe media le cicatrici della Grande recessione, riuscì a imporre i temi di Occupy ai media e all’opinione pubblica. Anche Obama trasse parziale vantaggio dalla sua efficacia. Ma le ovvie, inevitabili semplificazioni presenti nel messaggio politico del movimento erano inaccettabili da parte sua. Inoltre, le pratiche di democrazia diretta, inscindibili dal messaggio, ponevano il movimento al di fuori del terreno istituzionale di cui il Presidente è il centro reale e simbolico. Alla fine, la nuova sensibilità per i temi agitati da Occupy contribuì alla rielezione di Obama. (Ma la sua vittoria non fu completa. Il Partito repubblicano conquistò la maggioranza alla Camera, come aveva già fatto nel 2010. Avrebbe poi conquistato entrambe le Camere nelle due elezioni successive del 2014 e 2016, con il parziale paradosso che mentre i repubblicani riconquistavano il Congresso il loro candidato alla presidenza Trump, pur eletto, riceveva tre milioni di voti popolari meno della sconfitta Hillary Clinton.) 

6. L’evasione dei super-ricchi: potere, lobbismo e filantrocapitalismo

La presunzione di onnipotenza che ha caratterizzato quest’ultima fase di espansione del dominio economico-finanziario capitalistico, innescata dagli Stati Uniti e divenuta globale, si è alimentata sottraendo potere, reddito e condizione sociale ai lavoratori. Quando il finanziere Warren Buffett, una delle persone più ricche del mondo, ha detto e ripetuto che la «classe dei ricchi» ha combattuto la «guerra di classe» e l’ha vinta, affermava un’amara verità. Lo faceva anche quando diceva, con la signorilità del vincitore, che la «sua» classe dovrebbe pagare più tasse, perché era ingiusto che lui stesso ne pagasse meno della sua segretaria. Ed è una verità anche il fatto che la generosità con la quale lui e altri come lui finanziano delle «buone cause» si accompagna al loro pagare meno tasse o anche niente tasse. Apriamo una parentesi su alcune delle mediazioni attraverso cui si articola la lotta di classe dei “signori”. 

I grandi ricchi e le grandi corporation in cui essi investono il loro denaro hanno eserciti di esperti al loro servizio che gestiscono le loro strategie finanziarie, filantropiche e antisindacali e li aiutano a pagare meno tasse possibile. Oltre a fare ricorso alle scatole cinesi e ai paradisi fiscali (sia oltre confine, sia in patria, come nel Delaware[n]Institute on Taxation and Economic Policy (Itep), Delaware: An Onshore Tax Haven, dicembre 2015; al sito: delawarereport1210.pdf (itep.sfo2.digitaloceanspaces.com); Evan Tarver, Why Delaware Is Considered a Tax Shelter, in «Investopedia», 31 dicembre 2020; al sito: Why Delaware Is Considered a Tax Shelter (investopedia.com).[/n]) sfruttano le leggi esistenti (o la loro assenza), oppure ottengono di cambiare le leggi a loro favore (o impediscono il possibile cambiamento a loro sfavore) grazie alle disponibilità finanziarie che hanno e che usano per la propria convenienza. In poche parole, realizzano quella che gli economisti Gabriel Zucman e Gus Wezerek hanno definito «evasione pura e semplice»[n]G. Zucman e G. Wezerek, This Is Tax Evasion, Plain and Simple, in «New York Times», 7 luglio 2021.[/n]. 

Il rapporto con le tasse dell’1 per cento è stato oggetto di molte analisi. Ne cito una sola, tra le più attendibili e recenti. Nel 2021, ProPublica, un’organizzazione non-profit che fa giornalismo d’indagine, ha pubblicato uno studio puntiglioso sulle tasse sul reddito dei 25 maggiori super-ricchi[n]EisingerErnsthausen e Kiel, The Secret IRS Files, cit..[/n]. Le sue prime righe sono fulminanti: 

«Nel 2007, Jeff Bezos, allora un multimiliardario e ora l’uomo più ricco del mondo, non ha pagato un centesimo di tasse federali sul reddito. Ha realizzato di nuovo la stessa prodezza nel 2011. Nel 2018, anche Elon Musk, il fondatore di Tesla e il secondo più ricco al mondo, non ha pagato tasse federali sul reddito. Michael Bloomberg è riuscito a fare la stessa cosa in anni recenti. L’investitore miliardario Carl Icahn lo ha fatto per due volte. George Soros non ha pagato tasse federali sul reddito per tre anni di fila». 

Nel loro insieme, i dati provenienti dagli schedari dell’Internal Revenue System (Irs) analizzati da ProPublica «demoliscono il mito fondante del sistema fiscale statunitense, secondo cui ognuno paga la sua giusta quota e gli americani più ricchi pagano il massimo. I registri dell’Irs mostrano che i più ricchi riescono a pagare – in modo del tutto legale – tasse federali sul reddito che sono soltanto una piccola frazione delle centinaia di milioni, se non miliardi, che le loro fortune accumulano ogni anno». La ricchezza deriva dal valore delle proprietà e delle azioni possedute, che nel caso dei miliardari sono grandi e negli ultimi decenni hanno avuto crescite monumentali. Ma quella ricchezza non è tassabile: secondo la legge statunitense diventa reddito, quindi tassabile, soltanto quando è oggetto di compra-vendita[n]Nel caso di Jeff Bezos, scrivono i ricercatori di «ProPublica», l’elusione fiscale risulta particolarmente eclatante «se si esaminano gli anni 2006-2018, per i quali “ProPublica” ha i dati completi. La sua ricchezza è cresciuta di 127 miliardi di dollari, secondo “Forbes”, ma Bezos ha dichiarato redditi per un totale di 6,5 miliardi. L’1,4 miliardo che ha pagato in tasse federali personali sono una somma imponente, che però ammonta a una tassa reale dall’1,1 per cento sull’incremento della sua ricchezza»; Ibid.[/n]. 

I risultati dell’indagine sono chiari: «Secondo Forbes, quelle 25 persone hanno visto aumentare la loro ricchezza complessiva di 401 miliardi di dollari tra il 2014 e il 2018. In quei cinque anni, i dati dell’IRS mostrano che esse hanno pagato un totale di 13,6 miliardi in tasse federali sul reddito. La somma appare enorme, ma corrisponde a un’aliquota reale solo del 3,4 per cento». Chi ha pagato di meno, sembra sia stato Warren Buffett: sempre secondo Forbes, in quel periodo le sue ricchezze sono aumentate di 24,3 miliardi e i dati mostrano che ha pagato tasse per 23,7 milioni, il che corrisponde a «un’aliquota reale dello 0,1 percento, cioè meno di 10 centesimi per ogni 100 dollari che si sono aggiunti alla sua ricchezza». Alcuni dei super-ricchi a cui ProPublica ha sottoposto i risultati del suo studio – Buffett incluso – hanno risposto semplicemente che hanno pagato il dovuto. A titolo di confronto: il quadro è completamente diverso per gli americani di classe media. Per esempio, «lavoratori quarantenni stipendiati» che nello stesso periodo hanno avuto incrementi di ricchezza medi di circa 65.000 dollari, legati soprattutto all’aumento di valore delle loro case, hanno pagato tasse per quasi 62.000 dollari. 

L’altro strumento classico con cui i grandi ricchi fanno i loro interessi è la lobby. Le corporation mantengono un esercito di lobbisti il cui compito è far sì che i legislatori “producano” leggi a favore o in difesa degli interessi delle stesse corporation. L’istituto del lobbismo è l’esplicito riconoscimento istituzionale del fatto che esistono rapporti di forza nella società e che chi ha più denaro ha il diritto di esercitare sulle leve del potere legislativo le pressioni ritenute necessarie e adeguate a raggiungere i propri fini: chi ha più soldi ha più potere e chi ha più potere lo esercita tramite il denaro che è in grado di spendere per difendere i propri interessi sul terreno istituzionale. «Money buys influence; big money buys big influence», ha scritto con esemplare semplicità l’economista Paul Krugman, che aggiungeva: «E le politiche che ci hanno portato dove ci troviamo non hanno mai fatto molto per la maggioranza della popolazione, mentre sono state, almeno per un certo periodo, assai buone per le poche persone al vertice»[n]P. Krugman, End This Depression Now!, W.W. Norton, New York 2012, p. 85.[/n]. I mondi degli affari, della politica e delle istituzioni procedono di conserva, dopo la fine del Novecento come all’inizio dello stesso secolo. Raramente si rompe la formazione; normalmente ognuno svolge il suo ruolo per la difesa dei propri interessi settoriali, che però formano nel loro insieme un fronte comune.

I lobbyists ufficialmente operativi a Washington e regolarmente registrati in un apposito albo federale erano 12.137 nel 2021, vale a dire poco meno di 23 lobbisti per ognuno dei 535 membri del Congresso, e nel loro insieme le corporation hanno speso circa 3,73 miliardi di dollari per influenzare – o comprare – i comportamenti degli eletti dal popolo. Il loro lavoro non è la corruzione tradizionale (benché, naturalmente, ci sia anche quella): non è fatto sottobanco, ma alla luce del sole, sotto forma di regalie, sovvenzioni e contributi per le campagne elettorali dei singoli. Secondo OpenSecrets, al primo posto tra chi spende di più in lobbying si trovava nel 2021 l’industria farmaceutica e della salute, che ha speso oltre 677 milioni di dollari, facendo lavorare 3130 lobbisti, il 47,83 per cento dei quali – a proposito di “porte girevoli”, cioè interscambi e connessioni tra macchina statale e industriale-finanziaria – erano ex dipendenti del Governo. Seguivano a distanza il settore finanziario, assicurativo e immobiliare (514 milioni), le associazioni imprenditoriali (508), il settore dell’elettronica e delle comunicazioni (491), il settore del petrolio e delle risorse naturali (316). Anche sindacati, associazioni e organizzazioni di varia natura hanno i loro gruppi di pressione nella capitale, ma la quantità di denaro che investono, e quindi l’«influenza» che sono in grado di esercitare sulle decisioni politiche, è incomparabilmente inferiore rispetto a quella di cui è capace il mondo degli affari. Nel 2021, il mondo del lavoro per i suoi lobbisti ha speso 49 milioni di dollari[n]Si vedano: Total Lobbying Spending in the US from 1998 to 2021, by sector, gennaio 2022; al sito: Total lobbying spending U.S. 2021 | Statista; Lobbying Data Summary, 2021; al sito:  www.https://opensecrets.org/federal-lobbying. [/n]. Sul terreno su cui si gioca la partita le proporzioni delle squadre contano.  

Inoltre, spostando l’attenzione sugli eletti che dei lobbisti sono gli interlocutori, ognuno dei concorrenti nelle campagne elettorali sia per la Camera, sia per il Senato è disposto a spendere grandi quantità di denaro, proprio e donato da sostenitori interessati alla sua vittoria. Un dato vecchio di qualche anno resta rappresentativo: «Nel 2010, i vincitori nelle elezioni per la Camera hanno speso in media 1,4 milioni di dollari ciascuno nella loro campagna. E per il Senato? Quasi sette volte di più»[n]Essential Information-Consumer Education Foundation, Sold Out: How Wall Street and Washington Betrayed America, Washington-Studio City, CA 2009, pp. 99-104; al sito: http://www.wallstreetwatch.org;  OpenSecrets (Center for Responsive Politics), Most Races for Congress Are not even Competitive; al sito: https://www.opensecrets.org/resources/dollarocracy/03.php.[/n]. Questo non può non fare pensare che la carica porti con sé cospicue ricompense collaterali. Russ Choma del Center for Responsive Politics, scriveva nel 2014 che «per la prima volta nella storia la maggioranza dei membri del Congresso sono milionari». Alle soglie della pandemia quella constatazione veniva confermata, e veniva sottolineato che il “valore” finanziario mediano dei singoli membri del Congresso era «di poco superiore al milione di dollari» (con punte significative verso l’alto. A titolo di esempio, Karl Evers-Hillstrom scriveva che la ricchezza di Nancy Pelosi, la presidente democratica della Camera, era salita da 41 milioni di dollari nel 2004 a 115 milioni nel 2018 e che quella di Mitch McConnell, leader della maggioranza repubblicana al Senato, era passata nello stesso periodo da 3 milioni a oltre 34 milioni)[n]R. Choma, per OpenSecrets (Center for Responsive Politics), Millionaires’ Club: For the First Time Most Lawmakers are Worth $1 Million-Plus, 9 gennaio, 2014; al sito: https://www.opensecrets.org/news/2014/01/millionaires-club-for-first-time-most-lawmakers-are-worth-1-million-plus/; K. Evers-Hillstrom, Majority of Lawmakers in 1116th Congress are millionaires, in OpenSecrets, 23 aprile 2020; al sito: Majority of lawmakers in 116th Congress are millionaires • OpenSecrets.[/n]. 

In sostanza, quello che aveva scritto Larry Bartels riferendosi ai membri del Senato – che la loro condizione economica privilegiata è da tenere in conto «se si vuole comprendere il forte legame che esiste […] tra il voto che essi esprimono in aula e le preferenze dei loro elettori ricchi»[n]J. Lardner e D.A. Smith, Inequality Matters: The Growing Economic Divide in America and Its Poisonous Consequences, New Press, New York 2005; L.M. Bartels, Unequal Democracy: The Political Economy of the New Gilded Age, Russell Sage Foundation-Princeton University Press, New York-Princeton 2008, p. 281.[/n] – è stato confermato anche nelle presidenziali del 2020, quando le statistiche dicono che il numero dei milionari negli Stati Uniti era di poco inferiore a 22.000.000 (1.730.000 in più rispetto al 2019, grazie alla pandemia)[n]Credit Suisse Research Institute, Global Wealth Report 2021, p. 20; al sito: global-wealth-report-2021-en.pdf.[/n]. Come sempre, la componente sociale che nell’intero corpo elettorale ha votato di più è stata quella dei ricchi e dei benestanti: il loro tasso di partecipazione al voto nel 2020 è stato dell’88 per cento, contro il 65 per cento – peraltro, una percentuale insolitamente alta – di chi aveva redditi inferiori ai 40.000 dollari annui e al 78 per cento degli elettori con redditi fino a 75.000 dollari annui[n]A. Clemens, S. Lake e D. Mitchell, Evidence from the 2020 election shows how to close the income voting divide, Washington Center for Equitable Growth, 8 luglio 2021; al sito: Evidence from the 2020 election shows how to close the income voting divide – Equitable Growth.[/n]. Questo fa sì che «siano gli elettori bianchi più ricchi a prevalere nelle decisioni relative a quali leggi approvare, piegando la legislazione in materia economica a favore dei ricchi e potenti»[n]Ibid.[/n].  

Torniamo a Buffett e ai suoi soldi. È stato scritto che nei 16 mesi e mezzo che sono bastati ad Apple per incrementare il proprio valore da 2.000 a 3.000 miliardi di dollari, Buffett – che ne è uno dei maggiori azionisti con una quota del 5,5 per cento – ha guadagnato 120 miliardi di dollari. E la Berkshire Hathaway, la conglomerata che Buffett controlla, ha guadagnato poco meno di 90 miliardi di dollari nel 2021, più del doppio rispetto al 2020[n]M.J. de la Merced, Berkshire Hathaway Rebounds From the Pandemic, in «New York Times», 26 febbraio 2022[/n]. Secondo Forbes, nel 2021 Buffett – il maggior “donatore” statunitense – ha destinato 4,1 miliardi in opere filantropiche (ne aveva donati 2,9 nel 2020)[n]A.R. Sorkin et al., Buffett Weighs In on Tax-Free Philanthropy, in «New York Times», 24 giugno 2021.[/n]. Ma Buffett non è solo. È universalmente noto che la filantropia è parte di una strategia finanziaria condivisa dalle aristocrazie del denaro. Il super-ricco ex sindaco di New York Michael Bloomberg, per esempio, nel 2018 ha dichiarato un reddito di 1,9 miliardi e ha tagliato le sue tasse sfruttando «le deduzioni rese possibili dalle leggi volute da Trump, dalle donazioni caritatevoli per 968,3 milioni e dai crediti su tasse pagate all’estero»[n]Inoltre, «il risultato finale è stato che su quei quasi 2 miliardi di reddito ha pagato 70,7 milioni di tasse. Il che ammonta ad appena il 3,7 per cento. E tra il 2014 e il 2018 la tassa reale di Bloomberg è stata dell’1,30 per cento»; EisingerErnsthausen e Kiel, The Secret IRS Files, cit.[/n]. Nel corso della loro vita, stando sempre ai conti di Forbes, «i 25 “maggiori filantropi” tra i miliardari americani hanno donato un totale di 169 miliardi di dollari […Questa somma] stimata a tutto il 2021 è considerevolmente maggiore dei 149 miliardi raggiunti nell’anno precedente, grazie in parte al fatto che quei miliardari nel loro insieme sono più ricchi per 150 miliardi – in media: +18 per cento – rispetto al 2020»[n]Pnd, Warren Buffett tops Forbes’ list of biggest 2021 and lifetime givers, 20 gennaio 2022; al sito: Warren Buffett tops Forbes’ lists of biggest 2021 and lifetime givers | Philanthropy news | PND (philanthropynewsdigest.org).[/n]. 

All’inizio di un libro denso di chiavi di lettura e di informazioni, Nicoletta Dentico ne fa il ritratto di gruppo: 

«È l’élite più socialmente impegnata ma anche la più predatoria della storia quella che ha sapientemente concettualizzato e architettato il filantrocapitalismo. Perlopiù sono uomini, uomini bianchi (le poche protagoniste donne sono “mogli di”). Sono americani, perlopiù. Monopolisti nel settore economico di riferimento, hanno congegnato con le loro fondazioni la grande trasformazione della governance mondiale per arrivare a monopolizzare le leve della politica internazionale…»[n]N. Dentico, Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo, Emi, Verona 2020, pp. 22-23.[/n]

 Con i miliardi delle loro donazioni i super-ricchi tengono in piedi fondazioni che finanziano istituzioni benefiche, culturali, artistiche e sportive, ma anche centri di ricerca e di iniziativa esplicitamente rivolti all’acquisizione o conservazione del controllo politico delle istituzioni[n]Sui finanziamenti da parte di super-ricchi ad attività di elaborazione ideologico-politica affidate a strutture  le cui finalità prime sono state il rafforzamento e la legittimazione del proprio dominio di classe, si vedano almeno: J. Mayer, Covert Operations, in «New Yorker», 30 agosto 2010; Id., Dark Money: The Hidden History of the Billionaires Behind the Rise of the Radical Right, Doubleday, New York 2016; N. MacLean, Democracy in Chain: The Deep History of the Radical Right’s Stealth Plan for America, Penguin, New York 2017; M. D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, Milano 2020.[/n]. Sul terreno delle opere benefiche, finanziano campagne contro la povertà, per lo sviluppo agricolo e per la protezione sanitaria negli Stati Uniti e nel mondo, devolvendo grandi somme a favore di progetti e soggetti che loro stessi selezionano. Spesso coinvolgono come co-finanziatrici strutture pubbliche nazionali e sovranazionali, indirizzandone le scelte grazie ai finanziamenti iniziali con cui lanciano i propri progetti. Per la legislazione degli Stati Uniti, scrive Dentico, 

«chi fa filantropia gode di agevolazioni fiscali enormi, e fare donazioni è tanto più premiante quanto più ricco sei (mentre le piccole associazioni con piccoli donatori non sono riconosciute). Quindi, chi ha una grande fondazione come quella di Gates o Zuckerberg si ritrova con almeno un terzo dei proventi totalmente defiscalizzati. Se pensiamo che la Fondazione Gates è partita con un gruzzolo di 15,5 miliardi di dollari nel 2000 e che la Microsoft e la Fondazione Gates hanno avuto per oltre quindici anni vite parallele [a marzo 2020 Bill Gates è uscito da Microsoft; nel 2021 Buffett ha abbandonato la Fondazione di Bill e Melinda Gates, N.d.A.], vediamo che privato profit e privato non-profit interagiscono in maniera complementare, con grandi benefici sui due fronti». 

Ma i “benefattori” sfruttano anche le norme «stabilite dai governi in seno all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), che permettono alla produzione di conoscenza di essere privatizzata e all’innovazione di essere costruita intorno a monopoli – e quindi ad abusi di posizione dominante – che durano vent’anni»[n]N. Dentico, I filantrocapitalisti e le ferite della democrazia, in «Gli Asini», 29 marzo 2021, al sito: I filantrocapitalisti e le ferite alla democrazia – Gli Asini – Rivista.[/n]. Non pagano le tasse (e quindi non contribuiscono alla fiscalità generale e al bilancio dello Stato), ma aiutano i poveri, i malati e i bisognosi – anche finanziando la ricerca farmaceutica – rendendo meno pericolose le loro malattie e disagevoli i luoghi in cui vivono. Purché in quei luoghi essi rimangano e non cerchino di cambiare né il mondo, né la loro posizione nel mondo. E purché nei propri feudi produttivi nessuna area del loro dominio assoluto sia terreno di contrattazione o messo in discussione in alcun modo. 

7. Il mondo del lavoro: non poterne più, scioperare e andarsene

Come nella Seconda rivoluzione industriale, le corporation più grandi esercitano il loro comando autoritario sui dipendenti e nella società in generale. In particolare, esercitano la loro egemonia su chi opera nei loro settori, tracciando le linee di comportamento nei rapporti di lavoro. Quando erano i filantropi Carnegie e Rockefeller e Ford a non tollerare la presenza delle organizzazioni operaie nei loro stabilimenti, i sindacati non esistevano negli interi settori siderurgico e petrolifero e automobilistico; ora che sono Jeff Bezos (Amazon) e Sundar Pichai (Google) e Mark Zuckerberg (Facebook) che tengono i sindacati fuori dalle loro aziende, l’intero settore hi-tech è rimasto desindacalizzato. La stessa cosa succede nel settore della sanità, dove dettano legge le grandi aziende. Fa eccezione, in parte, il sotto-settore ospedaliero, grazie alle iniziative locali di infermieri e inservienti, donne e uomini, in maggioranza neri e ispanici. Più precisamente: un po’ più di cent’anni fa, il padrone delle ferriere Andrew Carnegie faceva costruire biblioteche pubbliche in tutti gli Stati uniti per l’elevazione del popolo, ma faceva sparare addosso ai suoi operai che chiedevano salari più alti e la possibilità di organizzarsi in sindacato. L’altro benefattore John D. Rockefeller, finanziatore delle scuole per gli afroamericani nel Sud, faceva massacrare dalle sue squadracce armate decine di minatori in sciopero a Ludlow, in Colorado. E anche l’idiosincratico Henry Ford, costruttore di ospedali e di Greenfield Village, il grande parco di archeologia socio-industriale di Detroit, cedette alla unionization solo nel 1941, dopo avere usato licenziamenti e squadracce di picchiatori per tenere i sindacalisti lontani dalle sue fabbriche. 

I tycoons e filantropi di ieri reprimevano e licenziavano per prolungare l’assenza di organizzazione che aveva caratterizzato i lavoratori nelle fasi della grande industrializzazione; quelli di oggi, usano l’arma del licenziamento contro i propri dipendenti che scioperano, o protestano, o cercano di fare proselitismo sindacale per conservare l‘incontrastata supremazia raggiunta grazie alla distruzione delle organizzazioni sindacali nei decenni che hanno preceduto la loro espansione. Come i loro precursori, sono autocrati che non accettano compromessi. Non ne accettava Bill Gates, fino a quando è stato a capo della Microsoft, né li hanno mai accettati nei loro stabilimenti gli amministratori delegati che hanno guidato Google. A fine 2021, con Sundar Pichai amministratore delegato, alcune centinaia di lavoratori, dopo avere messo in atto piccole forme di resistenza interna e avere “tramato” in segreto per non essere licenziati, hanno formato la loro Alphabet Workers’ Union e aderito alla Communications Workers of America. Alla fine di giugno del 2022, dice la Awu, gli iscritti sono più di 900, sui 260.000 dipendenti di Google. Il loro è un sindacato anomalo e non riconosciuto, che esiste soltanto in quanto iniziativa solidale autonoma e attiva fuori dalle mura aziendali, senza nessuna capacità contrattuale e di rappresentanza interna. Per ora. L’altro noto filantropo Howard Schultz, l’amministratore delegato di Starbucks, dopo la sindacalizzazione della sua prima caffetteria (nel dicembre 2021 a Buffalo, dopo alcuni mesi di agitazione), negli ultimi sei mesi ha subito la sindacalizzazione a cascata di 133 altre sue caffetterie con quasi 3.500 baristas e dovrà affrontare l’«assalto della sindacalizzazione» – parole sue – in almeno altri 150 dei suoi quasi 9.000 negozi sparsi per il paese[n]N. Scheiber, Labor Regulators Find Merit in Accusations by Unions to Amazon and Starbucks, in «New York Times», 6 maggio 2022; Id., Labor Board Seeks Unionization at Starbucks Where Union Lost and Election, in «New York Times», 20 maggio 2022; M. Catucci, Starbucks chiude 16 punti-vendita: “teme I sindacati”, in «il manifesto», 14 luglio 2022.[/n]. 

Neppure Jeff Bezos spara, ma anche lui ha fatto di tutto, finora, per non doversi trovare a discutere con dei rappresentanti sindacali di linee, tempi, orari e carichi di lavoro alla Amazon. Nel marzo 2021 aveva fatto notizia su tutti i media nazionali il lancio da parte della Retail, Wholesale and Department Store Union (Rwdsu) della campagna per sindacalizzare il grande magazzino di Bessemer, in Alabama[n]Negli Stati Uniti si parlò molto poco, invece, dello sciopero nazionale contro Amazon che ebbe luogo in tutta Italia – il primo al mondo – il 22 marzo per iniziativa dei maggiori sindacati nazionali. Lo sciopero, che si aggiunse alle iniziative di lotta locali contro Amazon, portò la multinazionale a firmare un accordo preliminare che prevedeva la contrattazione sui salari e l’organizzazione del lavoro; C. Casadei, Amazon, confronto a 360° col sindacato e riconoscimento delle relazioni industriali, in «Il Sole/24 Ore», 15 settembre 2021.[/n]. L’iniziativa sindacale aveva attirato il sostegno di molte organizzazioni (da Black Lives Matter a Our Revolution, ai Democratic Socialists of America, all’Alabama Working Families Party, agli ambientalisti di Sweet e ai pastori battisti dell’area metropolitana di Birmingham…). E al lancio della campagna, il 28 febbraio, si era pronunciato anche il presidente Biden: «Non ci devono essere intimidazioni, costrizioni, minacce; nessuna propaganda antisindacale e nessun supervisore deve contestare a nessun lavoratore la sua preferenza per il sindacato»[n]L.F. Leon,  Dispatch from Alabama: The Biggest Amazon Union Drive Yet, in «Labor Notes», 19 marzo 2021; al sito: Dispatch from Alabama: The Biggest Amazon Union Drive Yet | Labor Notes.[/n]. Tuttavia, solo una parte dei quasi 6000 dipendenti Amazon di Bessemer, in larga maggioranza neri, aveva votato e l’iniziativa sindacale era stata sconfitta. La Rwdsu aveva denunciato le pressioni e intimidazioni dell’azienda sui lavoratori e aveva fatto ricorso. Tre mesi dopo, il nuovo National Labor Relations Board (Nlrb) annullava quell’elezione, riconoscendo che la dirigenza Amazon aveva intimidito i dipendenti, non aveva rispettato la segretezza nell’esercizio del voto e aveva in vario modo interferito con il procedimento elettorale, falsandone l’esito a proprio favore[n]M. Veruggio, Charmaine Chua: “Una strategia sindacale per i lavoratori di Amazon”, in «Gli Stati Generali», 12 maggio 2021; al sito:charmaine chua: “una strategia sindacale per i lavoratori di amazon” – gli stati generali[/n]. Alla ripetizione del voto, alla fine di marzo del 2022, quasi due terzi dei dipendenti si sono astenuti e il primo spoglio indicava che la componente anti-sindacale godeva di un vantaggio esiguo. Le numerose schede che rimanevano in sospeso e le contestazioni di parte sindacale hanno impedito finora l’attribuzione della vittoria. 

Ma subito dopo la piccola Bessemer, in uno stato in cui la percentuale di sindacalizzati nel settore privato non agricolo è all’8,5 per cento (peraltro, la più alta in tutto il Sud), è venuta New York City, nel cui stato omonimo è invece al 21 per cento. E con un’altra differenza fondamentale tra le due situazioni. A Bessemer la campagna era stata lanciata dai vertici sindacali nazionali, “dall’alto” e “da fuori”; invece nello stabilimento di Staten Island sono stati i lavoratori locali a organizzarsi “da dentro” e “dal basso”: sfidando repressioni e licenziamenti, “facendo gruppo” fuori dall’orario di lavoro con militanti interni ed esterni all’azienda (con Christian Smalls, tra gli altri, licenziato due anni prima per avere criticato l’azienda, e ora riconosciuto come uno dei principali organizzatori della campagna), creando solidarietà all’interno, mettendo in piedi la loro Amazon Workers Union e ottenendo infine dal Nlrb il riconoscimento formale necessario per potere imporre all’azienda una scadenza elettorale. Hanno impiegato quasi due anni per raggiungere quell’obiettivo e all’inizio di aprile hanno votato in maggioranza a favore dell’introduzione del sindacato in azienda[n]L. Celada, Il precariato è un pacco, in «il manifesto», 1° aprile 2022; K. Weise e N. Scheiber, Amazon Workers on Staten Island Vote to Unionize in Landmark Win for Labor, in «New York Times», 1° aprile 2022; Id., Amazon Workers on Staten Island Give Unions a Surprise Win, in «New York Times», 2 aprile 2022. In una quasi concomitante causa di lavoro, il tribunale ha imposto ad Amazon di reintegrare al suo posto di lavoro e a pagare gli arretrati di 24 mesi a Gerald Bryson, licenziato nel 2020 per avere manifestato contro la mancanza di dispositivi di protezione anti-Covid nello stesso stabilimento newyorkese; K. Weise, Judge Rules Amazon Must Reinstate Worker It Fired, in «New York Times», 19 aprile 2022.[/n]. 

È difficile dire se sarà «una delle maggiori vittorie per il lavoro organizzato di questa generazione», come ha scritto il New York Times[n]N. Scheiber, Amazon Union’s Success Opens Labor Leaders’ Eyes, in «New York Times», 7 aprile 2022.[/n], o se invece il ricorso di Amazon contro lo smacco subito riavrà la meglio, oppure ancora, se le mobilitazioni e vittorie di questi ultimi mesi riusciranno a essere più che episodiche (che la tendenza non sia travolgente è confermato dalla successiva sconfitta di misura dei “sindacalizzatori”, in un altro, più piccolo impianto Amazon nella stessa Staten Island). Tuttavia, è significativo che i singoli episodi suscitino attenzione. In condizioni normali il Corriere della Sera non si sarebbe dato la pena di informare che il 15 giugno, in un negozio di Apple, due terzi del centinaio di dipendenti hanno votato per avere il sindacato nel “loro” negozio, nonostante le pressioni contrarie dei dirigenti e il preventivo, generale innalzamento delle paghe da 20 a 22 dollari all’ora. Ma se la notizia ha attraversato l’Atlantico è proprio perché questi non sono tempi normali, né lo è il luogo, un Apple Store nel Maryland[n]M. Sainato, ”The model is listening”: Union’s win at Amazon hatched in a small apartment, in «The Guardian», 9 aprile 2022; L.F. Leon, ”They’re Playing Really Dirty”: Amazon Lashes Back in Staten Island Warehouses, in «Labor Notes», 14 aprile 2022, al sito: ‘They’re Playing Really Dirty’: Amazon Lashes Back in Staten Island Warehouses | Labor Notes. E. Forzinetti, Il primo sindacato di Apple: il voto storico dei dipendenti di uno Store nello stato del Maryland, in «Corriere della Sera», 20 giugno 2022.[/n].  

L’assedio alle fortezze autocratiche è lungi dall’essere generale, ma sarebbe difficile negare che le crepe che hanno cominciato a formarsi nelle loro mura siano effetti collaterali dei sommovimenti che hanno caratterizzato la società circostante negli ultimi anni[n]Di questi ho cercato di dare conto in: Dollari e no, cit. e in, Stati Uniti oggi: breve ragguaglio sulla conflittualità di classe, in «Officina Primo Maggio», n. 2 (dicembre 2020), pp. 66-69.[/n]. Nel 2021, poi, anche l’arrivo alla Casa Bianca di un «amico del lavoro» aveva dato un suo indiretto sostegno alle nuove agitazioni e aspettative. A quel punto era apparso chiaro che chi era stato portato al limite dall’impoverimento personale, sociale e politico degli anni del neoliberismo, subendo alla fine anche l’insulto della pandemia, «non ne poteva più». Quello attuale, come scrivono i già citati Furman e Winant, non è un movimento di massa paragonabile ad altri ormai lontani, ma non è neppure «la bonaccia del decennio precedente, quando i grandi scioperi nel settore privato erano scesi quasi a zero. Oggi i lavoratori sono sempre più combattivi, e indisponibili ad accettare cattive condizioni di lavoro, ma non sono molto organizzati». Di conseguenza, il numero degli scioperi è sovrastato dagli abbandoni della Grande dimissione. Nel censimento delle azioni di sciopero fatto autonomamente dalla Nation, le interruzioni del lavoro sono state 265 nel 2021, e hanno coinvolto all’incirca 140.000 lavoratori[n]J. Kallas, E. Friedman e L. Grageda, The Real Number Behind the Labor Movement, in «The Nation», 5 aprile 2022.[/n]. Per inciso, i numeri, che confermano la relativa crescita rispetto ai tre anni precedenti, sono alquanto diversi da quelli del ministero del Lavoro (16 scioperi, per 80.700 lavoratori[n]Lo scarto evidente è il longevo residuo del colpo di mano con cui Ronald Reagan accompagnò l’azione repressiva antioperaia e antisindacale, cancellando dalle statistiche ufficiali nel 1982 gli scioperi in aziende con meno di mille addetti, ottenendo così anche la “certificazione” statistica del mondo del lavoro senza conflitti che stava perseguendo. [/n]), e confermano l’impennata ottobrina che si è meritata l’etichetta di Striketober e l’incremento di attenzione dei media per l’indocilità dei lavoratori[n]A. Pahnke, The Strategic Brilliance of “Striketober”, in «Counterpunch», 26 ottobre 2021; al sito: The Strategic Brilliance of ‘Striketober’ – CounterPunch.org.[/n]. 

Non c’è dubbio che, realisticamente, i numeri degli scioperi rimangono di gran lunga più bassi che nel passato storico. Tuttavia, se si rimane alla registrazione puramente numerica delle proteste e degli abbandoni si rischia di perdere la traccia – certo esile, finora – che tiene viva l’idea di una qualche continuità con storie precedenti. Nella ripresa attuale sembra essere stato ritrovato il capo di un filo che viene dai momenti “alti” del passato recente, non importa quanto sociologicamente diversi tra loro: la passione e i valori che avevano portato a Occupy e che hanno avuto una coda nella composita sollevazione del 2020 contro il razzismo e per la giustizia sociale, che a sua volta è culminata sul piano istituzionale nella fiducia accordata a Joe Biden (o, se si vuole, nella sfiducia a Trump).

Tra chi ha colto il “non poterne più” dei lavoratori c’è stato Robert Reich, studioso ed ex ministro del Lavoro con Bill Clinton, che ha descritto in modi icastici la loro impazienza attuale e tentato una definizione della loro combattività: 

«Si potrebbe anche dire che i lavoratori hanno dichiarato uno sciopero generale nazionale per ottenere paghe più alte e migliori condizioni di lavoro. Nessuno lo chiama sciopero generale, ma in un suo modo disorganizzato esso collega gli scioperi organizzati che spuntano in tutto il paese – le troupe di cinema e televisione di Hollywood, i lavoratori di John Deere, i minatori del carbone dell’Alabama, i lavoratori della Nabisco e quelli della Kellogg, gli infermieri in California e i lavoratori della sanità a Buffalo»[n]R. Reich, Is America experiencing an unofficial general strike?, in «TheGuardian», 13 ottobre 2021; al sito: Is America experiencing an unofficial general strike? | Robert Reich | The Guardian.[/n]. 

Oltre agli scioperi – di cui Reich cita solo i più rappresentativi[n]Si vedano: S. Greenhouse, “Striketober” Is Showing Workers’ Rising Power – but Will It Lead to Lasting Change?, in «The Guardian», 23 ottobre 2021; al sito: ‘Striketober’ is showing workers’ rising power – but will it lead to lasting change? | US unions | The Guardian: «La scala della protesta nell’industria è davvero notevole»: 10.000 lavoratori in sciopero alla John Deere in Iowa e Illinois; 1400 della Kellogg sono scesi in sciopero negli stabilimenti di quattro stati diversi; più di 30.000 lavoratori della Kaiser Permanente hanno votato per lo sciopero in California e Oregon; lo stesso hanno fatto gli oltre 60.00 lavoratori di Cinema e TV a Hollywood. Ma gli scioperi sono molti di più: «Più di 400 lavoratori alla distilleria di bourbon Heaven Hill, in Kentucky, hanno scioperato per sei settimane, mentre un migliaio di minatori del carbone della Warrior Met, in Alabama, sono in sciopero dall’aprile scorso; centinaia di infermieri/e all’ospedale Mercy di Buffalo sono scesi/e in sciopero il 1° ottobre, quando hanno fatto lo stesso anche 450 siderurgici della Special Metals di Huntington, in West Virginia». Poi: 700 infermiere/i in Massachusetts, lo sciopero di un giorno di 2000 lavoratori delle telecomunicazioni in California, 200 autisti di bus a Reno, in Nevada, e «gli scioperi appena conclusi di 2000 carpentieri di Washington, 600 lavoratori di Frito-Lay in Kansas e 1000 lavoratori di cinque diversi stabilimenti della Nabisco»; D. Thomas, 100,000 workers take action as ‘Striketober’ hits the US, in «BBC News», 14 ottobre 2021; al sito: 100,000 workers take action as ‘Striketober’ hits the US – BBC News e soprattutto: J. Furman e G. Winant, The John Deere Strike Shows the Tight Labor Market Is Ready to Pop, in «The Intercepter/Labor Notes», 17 ottobre 2021; al sito: John Deere Strike Shows the Tight Labor Market Is Ready to Pop theintercept.com.[/n] – lo studioso mette in rilievo anche il fatto che i lavoratori abbandonano i loro posti di lavoro in proporzioni senza precedenti: 

«Il ministero del Lavoro ha appena rilevato che circa 4.300.000 persone hanno lasciato il loro lavoro nel mese di agosto. Sono pari a circa il 2,9 per cento della forza lavoro e in crescita rispetto al picco precedente di quasi quattro milioni di dimissioni in aprile. A conti fatti, sono circa quattro milioni al mese i lavoratori che hanno abbandonato il loro lavoro dalla scorsa primavera in poi». 

Le parole impiegate da Reich sono dense di richiami. Anzitutto la tempestività della protesta: nella ripresa economica che innalza la domanda di forza lavoro, dopo tanti mesi (e anni) di vacche magre, i lavoratori ritrovano il senso di un’iniziativa comune, che è collettiva sia quando prende la forma dello sciopero o della ricerca di organizzazione o della vertenza sindacale; sia quando si traduce in  abbandoni che si sanno essere non cosa di pochi singoli isolati, ma di molti individui sintonizzati su una comune lunghezza d’onda comportamentale. Questa coincidenza di individuale e collettivo in uno sciopero generale non formalmente dichiarato da organizzazioni – e nel suo complesso “disorganizzato” e tuttavia di massa – non può non evocare quello descritto da W.E.B. Du Bois nel suo Black Reconstruction: quando gli schiavi del Sud singolarmente ma in massa sciolsero i loro legami con i padroni e le loro famiglie dopo l’inizio della Guerra civile, abbandonarono il lavoro e fuggirono dalle piantagioni per riparare nel Nord e per entrare nell’esercito unionista, trasformando la guerra tra gli stati in una guerra per la fine della schiavitù[n]W.E.B. Du Bois, Black Reconstruction: An Essay toward a History of the Part Which Black Folk Played in the Attempt to Reconstruct Democracy in America, 1860-1880, Harcourt, Brace, New York 1935, p. 67: «Fu uno sciopero di vasta portata contro le condizioni di lavoro. Uno sciopero generale che infine coinvolse qualcosa come mezzo milione di persone. Volevano bloccare il funzionamento del sistema delle piantagioni e per farlo abbandonarono le piantagioni».[/n]. Ma non è l’unica eco. Scioperi e dimissioni in massa possono – devono – essere visti come due facce dello stesso “fenomeno”. Secondo le vecchie categorizzazioni di Albert Hirschman: la protesta ha incrinato le precedenti «lealtà» individuali (loyalty) nei confronti delle imprese e si è avviata contemporaneamente lungo le due strade parallele della «voce» (voice), gli scioperi, e della «defezione» (exit), l’abbandono di vecchi posti di lavoro come precondizione per la successiva ricerca di migliori condizioni di lavoro e salario[n]A. Hirschman, Loyalty, Voice, Exit (1970), trad. it.: Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello Stato, Bompiani, Milano 1982.[/n]. (E a molti, nonostante le profonde diversità rispetto al 1978, avrà fatto tornare alla mente come uno slogan la vecchia canzone del Johnny Paycheck di allora: Take this job and shove it / I ain’t workin’ here no more.)

Infine, tra quanti hanno osservato l’innalzamento della curva della protesta, vi è stato chi ha rilevato l’emergere – o meglio: il riemergere – di un tratto dell’antico passato operaio, dall’Iww di inizio Novecento ai comunisti degli anni Trenta: la presenza e il ruolo attivo di militant minorities nella crescita di combattività e nella costruzione di organizzazione dal basso. Nei movimenti di classe del passato le «minoranze militanti» erano

 «un piccolo strato di attivisti presenti nei luoghi di lavoro, leader riconosciuti dai compagni di lavoro […] e fortemente influenzati da ideologie di sinistra. Erano i combattenti più duri, gli organizzatori più ostinati e quelli che più di tutti costruivano le culture sindacali della solidarietà. Erano il gruppo chiave non solo nella costruzione della protesta, ma nel consolidamento delle loro conquiste»[n]M. Uetricht e Barry Eidlin, U.S. Union Revitalization and the Missing “Militant Minority”, in Labor Studies Journal, vol. 44, n. 1 ( 2019), pp. 36-59 (cit. a p.37);[/n].   

Nel 2019, gli autori appena citati scrivevano che «al movimento operaio di oggi manca questa minoranza militante», e sostenevano che lo sforzo per ricostruirla «è fondamentale per la rivitalizzazione delle organizzazioni».  Tre anni più tardi Mie Inouye, studiosa del Bard College nello stato di New York, aggiornava quel quadro[n]M. Inouye, Labor’s Militant Minority, in «Boston Review», 15 giugno 2022; al sito: Labor’s Militant Minority – Boston Review.[/n]. L’autrice traccia la genealogia dei nuovi militanti, partendo dalla fisionomia di quelli che il Primo Maggio 2022 festeggiavano la vittoria contro Amazon. Erano tutti insieme, lavoratori di lungo corso e salts, cioè quei lavoratori giovani, spesso diplomati, che si fanno assumere in un’azienda con l’obiettivo di sindacalizzarla, secondo «una strategia che le organizzazioni di sinistra hanno adottato in passato», ma che negli ultimi difficili decenni aveva perso continuità. 

«Oggi i salts sono una componente di una nuova minoranza militante nel movimento operaio, una fascia di leader di base combattivi, politicamente consapevoli. La loro presenza in Amazon e Starbucks indica che stiamo assistendo a una convergenza organica tra diplomati di college di classe media e classe operaia. Questa nuova minoranza militante fatta di leader sindacali di classe operaia e diplomati di college di sinistra ha in sé il potenziale di unire il ringiovanito mondo sindacale con altri rami post-Occupy e post Bernie [Sanders] della sinistra negli Stati Uniti».

Se questo avverrà, sintetizza Inouye, la vittoria allo stabilimento JFK8 della Amazon a Staten Island sarà solo «l’annuncio di molte altre vittorie a venire». La previsione è ottimistica. In ogni caso,  la novità descritta arricchisce un quadro in cui i dati emergenti sono almeno due. Il primo, l’iniziativa vincente è dal basso, come era già emerso negli anni scorsi dai successi dei lavoratori delle pulizie di Los Angeles, dei lavoratori e delle lavoratrici delle cucine di Las Vegas, delle lavoratrici di McDonald’s nelle rivendicazioni dei 15 dollari all’ora e delle infermiere e degli inservienti degli ospedali… – classe operaia dei servizi poveri, finora, persone nere e ispaniche e in maggioranza donne. Il secondo: sembra che nei settori altamente tecnologizzati che sono frutto tanto della «nuova geografia del lavoro», quanto delle nuove modalità produttive e distributive si sia formata una nuova composizione sociologica della manodopera, in cui una parte di giovani scolarizzati e socialmente “declassati” entrano e si integrano in posti di lavoro e mansioni a bassa qualificazione, diversi dai servizi poveri e però assai diversi da quelli cui avrebbero potuto aspirare qualche decennio fa.  Molto probabilmente in maggioranza maschi, bianchi e giovani, sembrano essere diversi dagli angry white males, i “maschi bianchi arrabbiati” di mezza età, magari loro padri, che sono stati l’uditorio principale di Donald Trump. 

A sostegno delle parziali novità positive sono presenti significativi dati di contesto generale. Anzitutto, le adesioni sindacali, ridotte al lumicino nel settore privato non agricolo (a livello nazionale il tasso è sceso dal 24,6% nel 1973 al 6,1 per cento del 2021), hanno interrotto il loro declino negli ultimi anni. Una buona notizia, ma è troppo presto per dire se la conflittualità degli ultimi mesi, che ha dato una scossa alle unions, sarà il «preludio alla resurrezione delle organizzazioni sindacali», come scrive un New York Times da mesi schierato al loro fianco[n]I.P. Philbrick,  Good Morning.Today we explain how college-educated workers are driving a spike in union organizing, in «New York Times», 17 luglio 2022.[/n]. Alcuni altri elementi di carattere generale spiegano in parte il contesto e in parte alterano la evidente negatività delle cifre. I sondaggi dicono che sono maggioritarie, non solo tra i lavoratori, le opinioni favorevoli alla presenza sindacale nei luoghi di lavoro: il 68 per cento degli americani «approva» i sindacati (il 90 per cento di chi si dichiara democratico; il 66 degli indipendenti; 47 dei repubblicani)[n]Si veda il sondaggio Gallup: M. Brenan, Approval of Labor Unions at Highest Point since 1965, 2 settembre 2021; al sito: Approval of Labor Unions at Highest Point Since 1965 (gallup.com). Lo stesso sondaggio conferma che i lavoratori sindacalizzati hanno salari più alti dei non sindacalizzati e che è sindacalizzato il 10 per cento di chi ha un reddito annuale superiore ai 40.000 dollari, mentre lo è il 5 per cento di chi ha un reddito inferiore a quella cifra.[/n]. Il sondaggio citato era stato effettuato nell’agosto 2021, prima del successivo striketober, e registrava l’esistenza comunque positiva di una sorta di diffuso «vorrei ma non posso», come se il desiderio di avere una propria rappresentanza organizzata fosse frenato dalla valutazione realistica dei «rapporti di forza ancora tremendamente sbilanciati» a favore degli imprenditori in tanti luoghi di lavoro e tante aree del paese. Come hanno scritto Luis Feliz Leon e Maximillian Alvarez  su Labor Notes, «anche se la militanza dei lavoratori cresce, il sentiero da percorrere per vincere è stato reso sottile da decenni – o anche secoli – di leggi contro i lavoratori e di cultura antisindacale»[n]L.F. Leon e M. Alvarez, Viewpoint: Beneath Striketober Fanfare, The Lower Frequencies of Class Struggle, in «Labor Notes», 29 ottobre 2021; al sito: Viewpoint: Beneath Striketober Fanfare, The Lower Frequencies of Class Struggle | Labor Notes.[/n]. 

Le leggi qui evocate, le Right-to-Work Laws, sono presenti in oltre la metà degli stati. Queste leggi, ironia del nome, non sono state concepite per proteggere il diritto al lavoro, ma per ostacolare le organizzazioni sindacali già presenti e impedirne in molti modi più o meno capziosi l’entrata ex novo nei luoghi di lavoro. Sulla loro funzione ed efficacia: se si prende come discrimine il tasso medio generale di sindacalizzazione per gli interi Stati Uniti, pari al 10,3 per cento, tra i 27 stati in cui sono presenti le leggi right-to-work soltanto 2 hanno un tasso di sindacalizzazione superiore alla media nazionale (il Michigan della vecchia tradizione operaia, 13,6 per cento; il Nevada della nuova sindacalizzazione ispanica nei servizi alberghieri, 14,6); nei restanti 25 stati il tasso medio è del 6,03 per cento. Mentre dei 23 stati, più il Distretto di Columbia, che non hanno quelle leggi, 19 hanno un tasso di sindacalizzazione superiore alla media nazionale (14,57 per cento) e nei restanti quattro la media è 8,52.

D’altro canto, è vero che crescono la “domanda” concreta di sindacato e la sua difesa attiva contro il padronato. Nei sei mesi tra il 1° ottobre 2021 e il 31 marzo 2022 – i primi sei mesi dell’anno fiscale 2022 – le richieste di poter effettuare una votazione presentate al National Labor Relations Board (Nlrb), la cui autorizzazione è necessaria perché in un’azienda i lavoratori possano poi votare a favore o contro l’entrata del sindacato, sono state 1174, da 748 nel corrispondente periodo 2020-21, con un incremento del 57 per cento. Nello stesso arco di tempo le denunce contro pratiche antisindacali delle aziende sono passate da 7255 a 8254 (+14 per cento), testimonianza anch’esse, indipendentemente dal loro esito, della ripresa di combattività. La «impennata di attivismo dei lavoratori sul piano nazionale» degli ultimissimi anni e il conseguente aumento di attività e di costi operativi a carico di personale e risorse dell’Nlrb mette in difficoltà l’agenzia, impreparata a esaminare vertenze e ricorsi e autorizzare e controllare le votazioni[n]National Labor Relations Board, Union Election Petitions Increase 57% In First Half of Fiscal Year 2022, 6 aprile 2022; al sito: Union Election Petitions Increase 57% In First Half of Fiscal Year 2022 | National Labor Relations Board (nlrb.gov). Ora, nella proposta di bilancio per il 2023, Biden aumenterebbe i fondi di circa 50 milioni (+16%). [/n]. Così ha scritto la sua responsabile operativa Jennifer Abruzzo, nominata da Biden a febbraio del 2021 per invertire la rotta in parte filo-imprenditoriale e in parte puramente inerziale dell’agenzia, a lungo irrilevante o contraria rispetto ai propri fini istituzionali. 

Nel declino dell’agenzia nei decenni precedenti si sono intrecciati il disinteresse o ostilità delle precedenti amministrazioni e maggioranze congressuali (repubblicane, in particolare) e l’ignavia compiacente della sua dirigenza interna. Il suo finanziamento è stato sempre pari a poco più di 270 milioni all’anno per tutti gli ultimi nove anni, il che è equivalso a una progressiva riduzione reale degli stanziamenti (giunta oggi a valere un –25 per cento), con la conseguente riduzione dell’operatività e la perdita pesante di personale negli uffici, sia centrali, sia periferici. D’altro canto, i suoi dirigenti hanno sempre regolarmente accettato di buon grado i tagli del personale, e a volte non hanno neppure utilizzato interamente i fondi a loro disposizione. Ora per la prima volta, nella proposta di bilancio per il 2023, il presidente «amico» Biden ha proposto di portare gli stanziamenti a oltre 319 milioni di dollari (+16 per cento), per aumentare il personale, rivitalizzarne le attività e rispondere all’attivismo del mondo del lavoro[n]M. Chen, Trump’s National Labor Relations Board Is Sabotaging Its Own Mission, in «The Nation», 7 settembre 2020, al sito: https://www.thenation.com/article/politics/trump-nlrb-labor/; L. Rhinehart, Biden Is Rebuilding the National Labor Relations Board, in «The Nation», 6 aprile 2021; al sito: https://www.thenation.com/article/politics/gao-nlrb-peter-robb-biden/.[/n].

7. Big Tech e Big Pharma: chi non ha sofferto durante la pandemia

Il 3 gennaio 2022, Il New York Times pubblicava un articolo dal titolo: «Apple diventa la prima società a raggiungere il valore di mercato di 3 trilioni di dollari»; vale a dire: 3000 miliardi, oppure, se si preferisce, tre milioni di milioni di dollari. Per dare un’identità in qualche modo tangibile a quel valore così astratto e immensurabile, l’articolista esordiva con due frasi altamente esplicative: «Mettete insieme Walmart, Disney, Netflix, Nike, Exxon Mobil, Coca-Cola, Comcast, Morgan Stanley, McDonald’s, At&t, Goldman Sachs, Boeing, IBM e Ford. Apple vale ancora di più». Subito dopo, un’altra informazione dava sostanza ulteriore al probabile stupore dei lettori: la velocità e il contesto in cui quella soglia è stata raggiunta. Nata nel 1976, Apple ha impiegato 42 anni per raggiungere il valore di 1000 miliardi nell’agosto 2018 (nel 1901, la US Steel era stata la prima società al mondo a raggiungere la capitalizzazione di un milione di dollari). Ha superato i 2000 miliardi nel 2020 e ha impiegato ancora meno, «appena 16 mesi e 15 giorni» per arrivare ai 3000[n]J. Nicas, Apple Becomes First Company to Hit $3 Trillion Market Value, in «New York Times», 3 gennaio 2022.[/n]. Apple è in buona compagnia: a quella data Microsoft era a 2500 miliardi e si avviava a raggiungere i 3000; Alphabet (Google) era a 1900 miliardi; Amazon a 1700; Meta (Facebook) a 940. 

Il contesto dell’ultimo grande balzo in avanti, naturalmente, è stato quello della pandemia. Una volta, le guerre erano la fortuna dell’industria pesante; oggi la pandemia è una benedizione per Big Tech (e per ragioni diverse, naturalmente, per Big Pharma). La maggioranza delle corporation più grandi ha prosperato nei mesi della pandemia, scriveva il Washington Post nel dicembre 2020: «Milioni di consumatori hanno speso più tempo e denaro online guardando Netflix e le pubblicità sulle pagine di Google e Facebook, riempiendo i carrelli di Amazon e trasformando i video game in filoni auriferi per Nvidia, Microsoft e così via». Le cifre per il 2021 ne davano conferma: Amazon, il maggiore veicolo pubblicitario negli Stati Uniti, deteneva tra la metà e i tre quarti delle vendite di libri e poco meno del 70 per cento del mercato degli ebook. La multipiattaforma più visitata e il maggiore strumento di ricerca era di gran lunga Google, attraverso cui passava oltre l’87 per cento delle ricerche nazionali (e oltre il 90 per cento nel mondo). Facebook, che aveva circa 260 milioni di utenti attivi ogni mese negli Stati Uniti (e poco meno di tre miliardi ogni mese nel mondo), contava sul fatto di essere usato dal 69 per cento degli adulti statunitensi[n]Si vedano:  su Amazon: Just Publishing Advice, Why The Amazon Books Store Has a Monopoly on Book Sales, 19 marzo 2021; al sito: Why Does The Amazon Books Store Dominate The Book Market? (justpublishingadvice.com). Su Google: Statcounter, Search Engine Market Share in United States Of America-January 2022; al sito: Search Engine Market Share United States Of America | Statcounter Global Stats. Su Facebook: Facebook usage in the United States – Statistics & Facts | Statista e Facebook MAU worldwide 2021 | Statista. Anche se i dati quantitativi hanno subito variazioni nel frattempo, rimane valido quanto scritto da M. Mazzucato (Il valore di tutto, Laterza, Bari-Roma 2018, pp. 235, 238): sei aziende – Facebook, Google, Yahoo, AOL, Twitter e Amazon – detengono più della metà del mercato pubblicitario digitale (in cui prevalgono Google e Facebook); ed è oligopolistica anche la posizione di mercato delle cinque maggiori aziende di dati: Facebook, Google, Amazon, IBM e Microsoft.[/n]. 

In molti dei settori in cui si articola Big Tech, i giganti si sono divorati negli anni scorsi le aziende più piccole, prive delle risorse necessarie per sopravvivere ai cali nella domanda, e «mentre le 50 società più grandi avevano un incremento di introiti del 2 per cento nei primi nove mesi del 2020, quelli delle piccole società si restringevano del 12 per cento»[n]D. MacMillan, P. Whoriskey e J. O’Connell, America’s biggest companies are flourishing during the pandemic and putting thousands of people out of work, in «Washington Post», 16 dicembre 2020.[/n]. I profitti di Amazon, Apple, Google e Microsoft hanno registrato una «invidiabile crescita» nel 2021, ha scritto Farhad Manjoo, mentre quelli di Facebook sono cresciuti soltanto «del 35 per cento, in ribasso rispetto alla crescita del 60 per cento del 2020». La crescita dei profitti è stata dovuta senza dubbio alla domesticità forzata imposta dalla pandemia, ma anche al fatto che le società hanno espanso e diversificato le loro offerte di servizi al consumatore. La pandemia ha mostrato, scrive Manjoo, «quanto è ancora grande lo spazio riempibile nelle nostre vite con ancor più tech, per far diventare i nostri schermi il portale primario attraverso cui una manciata di società si prendano una fetta di tutto quello che facciamo»[n]F. Manjoo, The Rise of Big Tech May Just Be Starting, in «New York Times», 16 febbraio 2022. Questa è anche la tesi esposta con dovizia di argomenti da S. Zuboff ne Il capitalismo della sorveglianza, cit.[/n].

La straordinaria accelerazione del processo di concentrazione nel settore e di occupazione oligopolistica del mercato ha avuto luogo al di fuori di ogni reale controllo governativo. È solo nell’ultimo anno della presidenza Trump che il Congresso ha cominciato a occuparsi degli eccessi della monopolizzazione e solo con Biden alla Casa Bianca – e con i democratici in maggioranza nella Camera dei Rappresentanti e alla pari con i repubblicani in Senato – che la «difesa della concorrenza» è stata messa all’ordine del giorno. I primi passi sono stati fatti nella primavera del 2021 dalla Federal Trade Commission – allora momentaneamente diretta dalla democratica Rebecca Kelly Slaughter, cui è succeduta Lina Khan – che ha deciso di aprire un’indagine sulle pratiche acquisitive di Big Pharma. Nel mese di luglio, Biden emetteva l’inclusivo Ordine esecutivo già citato «in difesa della concorrenza». E la senatrice Amy Klobuchar, a capo della commissione giudiziaria del Senato, avanzava una serie di proposte per la riformulazione della legislazione antitrust e apriva un’indagine sui monopoli[n]M. Gordon, Battling bigness, cit.; L. Blanquez e S. Cernak, Antitrust Political Developments: Biden Administration Issues Executive Order on Competition and Congress Proposes Six New Antitrust Bills, Bona Law PC, 28 luglio 2021; al sito: Antitrust Political Developments: Biden Administration Issues Executive Order on Competition and Congress Proposes Six New Antitrust Bills — The Antitrust Attorney Blog — July 28, 2021.[/n]. 

Anche Big Pharma ha grandemente beneficiato dalla pandemia. Ma per le sue ovvie specificità il settore richiede alcune considerazioni di contesto. Per la Health industry, le grandi aziende farmaceutiche e della salute, scriveva Nina Burleigh su Forbes, la crisi pandemica sarebbe potuta essere l’occasione per il governo di «cambiare quel modello di medicina finalizzata a fare profitti» che si era affermato negli ultimi quarant’anni, e invece la bussola è stata il super-arricchimento degli azionisti, non il servizio al bene pubblico[n]N. Burleigh, How The Covid-19 Vaccine Injected Billions Into Big Pharma—And Made Its Executives Very Rich, in «Forbes», 14 maggio 2021.[/n]. Un anno prima di lei, nell’aprile 2020, il New York Times aveva pubblicato un articolo incentrato sul fatto che «non si può fare come si è fatto finora. Gli Stati Uniti sono un paese ricco in grado di avere un sistema sanitario di prima classe», ma non lo hanno[n]A. Case e A. Deaton, America Can Afford a World-Class Health System. Why Don’t We Have One?, in «New York Times», 14 aprile 2020.[/n]. «Perché?», si domandavano gli autori Anne Case e Angus Deaton, economisti all’università di Princeton e studiosi del sistema sanitario. Lo avrebbero poi spiegato nei paragrafi seguenti, ma un frammento decisivo della risposta era già sintetizzato nel sottotitolo: «Il nostro sistema prende ai poveri e alla classe lavoratrice per produrre ricchezza per chi è già ricco». Vale la pena dare loro la parola per esteso. Il senso politico del loro intervento era molto chiaro. Fino a poche settimane prima Donald Trump, che minimizzava gli avvertimenti degli esperti sui rischi del SARS-CoV-2, era stato ideologicamente restio ad ammettere tanto la pericolosità della pandemia, quanto la possibilità che gli Stati Uniti ne fossero investiti. Il suo atteggiamento continuò a essere più che equivoco anche dopo che l’estensione del contagio e il Congresso lo avevano costretto a dichiarare lo stato di emergenza nazionale a metà marzo e ad adottare le misure eccezionali del CARES Act il giorno 27 dello stesso mese. Alla metà di aprile la diffusione e le conseguenze economico-sociali dei contagi erano imponenti. Ed erano drammatiche le inadeguatezze del sistema sanitario statunitense nell’affrontarle. 

Case e Deaton tenevano insieme le condivise responsabilità del sistema sanitario e dell’amministrazione Trump: «Abbiamo bisogno di più medici e infermieri. Abbiamo bisogno di più letti, più ventilatori e materiali protettivi, e abbiamo bisogno di vaccini e medicine». E invece,

 «dobbiamo spendere un mucchio di denaro nella sanità e nelle medicine. Ma dovremmo spenderlo per salvare vite e ridurre le malattie, non per procedure costose e generatrici di profitti che fanno poco per migliorare la salute. O, peggio ancora, per arricchire le società farmaceutiche che alimentano l’epidemia di oppioidi».

 Il riferimento all’altra “epidemia”, strettamente legata all’uso e abuso di oppioidi e alle responsabilità delle case farmaceutiche nella loro diffusione, non era casuale. Il Washington Post aveva scritto a febbraio che le morti per oppioidi erano state tra 400.000 e 500.000 nei vent’anni precedenti e gli stessi Case e Deaton avevano appena fatto scalpore mettendo le vittime e i produttori di oppioidi al centro del loro libro Deaths of Despair, pubblicato alla metà di marzo del 2020[n]M. Kornfield, The death toll of the opioid epidemic is higher than originally thought, researchers say, in «Washington Post», 28 febbraio 2020; A. Case e A. Deaton, Death of Despair and the Future of Capitalism, Princeton University Press, Princeton 2020.[/n]. 

Riprendendo il filo della creazione di ricchezza a vantaggio di chi è già ricco, i due autori descrivevano in breve il business della sanità pubblica. Gli ospedali, molti dei quali sono classificati come aziende non-profit, scrivevano, hanno adottato una politica di acquisizioni ed espansione, assumendo posizioni di monopolio in molte città e usando quelle posizioni per alzare i prezzi di esami, prestazioni e degenze. Un’analoga strategia di consolidamento e di innalzamento dei prezzi è stata adottata dai produttori di attrezzature medicali. Lo stesso hanno fatto i medici, che controllano e limitano gli accessi alla professione, mantenendo «basso il proprio numero e alti i propri compensi», al punto che negli scorsi anni la loro professione era la più rappresentata tra gli appartenenti all’1 per cento più ricco della società. «Sono pagati molto bene» anche i dirigenti ospedalieri, i venditori di attrezzature e le società farmaceutiche. Chi ne fa le spese è la manodopera: ci sono stati ospedali che licenziavano e sospendevano medici e infermieri nonostante le urgenze create dalla pandemia, e altri, invece, che assumevano uomini e donne delle minoranze nera e ispanica, ma in mansioni dequalificate, temporanee e a basso salario. Il che rimanda alla questione dei costi e degli accessi alle coperture assistenziali dei lavoratori. Molti pensano che l’assicurazione malattia fornita dagli imprenditori ai loro dipendenti «sia un regalo dei datori di lavoro, un benefit elargito a lavoratori fortunati da corporation benevole». In realtà è un costo, di cui i singoli lavoratori, pagano direttamente circa un quarto, i governi statali e federale – quindi sempre i cittadini, indirettamente – pagano quasi la metà e gli imprenditori la parte restante. Non solo: le aziende calcolano se il valore prodotto dal singolo lavoratore “copre” salario e benefits, e siccome spesso i non qualificati non producono abbastanza valore, dal punto di vista degli imprenditori, «i loro salari vengono tagliati, oppure sono i loro posti di lavoro a essere soppressi o esternalizzati (presso aziende che offrono meno benefits o meno prospettive di avanzamento)». Quello che succede, quindi, è che i costi crescenti della sanità rendono cure e medicine inaccessibili alla gran parte dei lavoratori a basso salario e a occupazioni precarie, parziali o saltuarie, che non hanno accesso a benefits aziendali e che non hanno reddito sufficiente per pagarsi assicurazioni private (i cui premi sono alti in generale e si alzano ancora di più a seconda del numero dei familiari “da coprire”).

Quello tracciato da Case e Deaton era solo un profilo della ramificata Health industry che a Washington protegge i propri interessi spendendo centinaia di milioni per l’esercito dei lobbisti. Altri entravano nello specifico del rapporto tra pandemia e industria farmaceutica. La già citata Nina Burleigh scriveva che nel 2020 il governo statunitense «ha speso 18 miliardi nella ricerca, produzione e distribuzione dei vaccini» – due dei quali sono stati approvati prima della fine di quell’anno, come è noto – realizzati da due case farmaceutiche, che hanno anche dettato allo Stato le condizioni degli accordi reciproci (che rimangono segreti).  E miliardi di denaro pubblico sono affluiti nelle tasche di un «piccolo gruppo di capitalisti», senza vincoli sulla gestione della proprietà intellettuale e pressoché senza controlli sui prezzi di vendita dei vaccini[n]Burleigh, How The Covid-19 Vaccine Injected Billions Into Big Pharma, cit.[/n]. Aggiungendo qualche dettaglio, l’economista Massimo Florio specificava che «una parte dello sviluppo del vaccino a mRna […] è stata condotta all’Nih [National Institutes of Health]» e che «Moderna, e probabilmente anche BioNTech, ha avuto [da Trump] la licenza a titolo gratuito per l’uso di quelle ricerche». Non solo, aggiungeva, il “miracolo” del vaccino è il frutto, «prima, di vent’anni di investimento pubblico nella ricerca, poi di [molti] miliardi di finanziamento pubblico e infine di autorizzazioni rilasciate in pochi mesi» ad aziende che deterranno il monopolio sul brevetto per i prossimi 19 anni, il che «aumenta a dismisura il valore dei farmaci e delle imprese»[n]A. Capocci, intervista a M. Florio, “Abbiamo regalato la ricerca pubblica alle imprese”, in «il manifesto», 28 novembre 2021.[/n]. Alla fine di luglio 2021, Oxfam era stata ancora più precisa e circostanziata in merito a costi e profitti. In primo luogo, se Pfizer/BioNTech e Moderna non approfittassero della loro posizione di quasi monopolio sui vaccini, addebitando ai governi prezzi d’acquisto per singola fiala «fino a 24 volte superiori ai costi di produzione» (per un totale di «fino a 41 miliardi di dollari in più rispetto ai costi di produzione»), il costo di «vaccinare il mondo contro il Covid-19 potrebbe essere almeno cinque volte meno caro»[n]Oxfam,  Vaccine monopolies make cost of vaccinating the world against COVID at least 5 times more expensive than it could be, 28 luglio 2021; al sito: Vaccine monopolies make cost of vaccinating the world against COVID at least 5 times more expensive than it could be | Oxfam (oxfamamerica.org).[/n]. E se riducessero i prezzi dei loro vaccini o sospendessero il privilegio economico che i brevetti gli garantiscono, come gli hanno chiesto una settantina di organizzazioni (incluse l’African Alliance, Unaids e la stessa Oxfam), le vaccinazioni in Africa e nei paesi più poveri potrebbero essere infinitamente più estese. 

I profitti di Moderna e soprattutto del colosso Pfizer sono stati enormi. Il valore delle loro azioni ha avuto un balzo verso l’alto, permettendo ai loro dirigenti di trarre anche grandi profitti personali dalla loro vendita sul mercato nel momento in cui le quotazioni erano più alte. Il 9 novembre 2020, il giorno in cui l’annuncio di Pfizer che l’efficacia del suo vaccino superava il 90 per cento fece aumentare il prezzo delle sue azioni del 15 per cento, l’amministratore delegato Albert Bourla e altri sei dirigenti della stessa società vendettero parte delle loro quote azionarie, guadagnando complessivamente 14 milioni di dollari. La stessa cosa hanno fatto l’amministratore delegato Stéphane Bancel e i dirigenti di Moderna, che nel corso del 2020 hanno accumulato 287 milioni di profitti vendendo loro azioni nei momenti favorevoli[n]Ibid.; S. Karlin-Smith,How the drug industry got its way on the coronavirus,in «Politico», 5 marzo 2020; al sito: https://www.politico.com/news/2020/03/05/coronavirus-drug-industry-prices-122412; P. McConnell e M. Deskins, Record Corporate Profits, Record Stock Buying, and the Plan to Tax Them, in «Nation of Change», 15 dicembre 2021; al sito: Record corporate profits, record stock buybacks, and the plan to tax them – NationofChange; Americans for Financial Reform, Tax Corporate Stock Buybacks that Enrich Executives and Worsen Inequality, Novembre 2021; al sito: AFR-TOWS-buyback-tax-FS-11-21.pdf (ourfinancialsecurity.org); H. Meyerson, Building Back Better Through Taxing Stock Buybacks, in American Prospect,23 novembre 2021¸al sito: Meyerson on TAP: Building Back Better Through Taxing Stock Buybacks (activehosted.com).[/n]. I grandi azionisti di Big Pharma non sono stati i soli a “giocare” al rialzo. Lo stesso hanno fatto i grandi del Big Tech: Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft (noti nella pubblicistica come “Gafam”). Un unico esempio: la conglomerata Berkshire Hathaway di Buffett, che controlla Google, ha speso quasi 52 miliardi di dollari nel riacquisto di azioni proprie nel biennio 2020-2021[n]De la Merced, Berkshire Hathaway Rebounds From the Pandemic, cit.[/n]. L’unica logica è stata ed è quella del profitto privato. 

8. Nulla sfugge, tutto serve ai capitalisti della sorveglianza. Social media bifronti

In entrambi i settori protagonisti del grande balzo verso la supremazia economica e strategica, erano stati i miliardi di dollari investiti dai governi in ricerca e sviluppo a fornire il piedistallo scientifico e tecnologico per le successive monumentali realizzazioni delle corporation. 

«Il Ministero della Difesa ha costruito l’internet originario [Arpanet], che poi Google, Microsoft, Amazon e altri hanno espanso. I National Institutes of Health [del Ministero della sanità] hanno finanziato gli esperimenti di laboratorio, in base ai quali le società farmaceutiche hanno poi sviluppato le loro cure, incluse quelle per il Covid-19. E storie analoghe valgono per l’energia, l’auto, l’aviazione e altre industrie»[n]D. Leonhardt, Democrats favor federal support for scientific research. So why can’t they agree?, in «New York Times», 9 dicembre 2021.[/n].

Queste parole del giornalista David Leonhardt sembrano una sintesi delle articolate argomentazioni contenute nel volume di Mariana Mazzucato dedicato allo “stato innovatore”. Il venture capital, aveva scritto Mazzucato nel 2013, 

«è entrato in settori come quello delle biotecnologie solo dopo che lo Stato aveva ultimato il complicato lavoro preparatorio» e, allo stesso modo, Steve Jobs e soci «sono riusciti a produrre profitti e successi in gran quantità solo perché la Apple ha potuto cavalcare l’onda di imponenti investimenti pubblici nelle tecnologie “rivoluzionarie” che sono alla base dell’iPhone e dell’iPad: internet, il Gps, gli schermi tattili e le tecnologie di comunicazione»[n]M. Mazzucato, Lo stato innovatore, Laterza, Bari-Roma 2013, p. 124.[/n].

Qualche anno più tardi, nel contesto di discorsi più ampi sulla costruzione del «valore di tutto» nell’economia capitalistica, la stessa autrice avrebbe dedicato qualche pagina a mettere in prospettiva il rapporto tra Big Tech, lavoro e futuro e a sgombrare il campo da alcuni equivoci presenti nel senso comune: 

«I giganti del web come Facebook, Amazon e Google sono spesso ritratti dai loro dirigenti e dai loro difensori come “forze del bene” e per il progresso della società piuttosto che aziende orientate al profitto. Sostenitori entusiasti hanno parlato di una crescente e rivoluzionaria “economia condivisa” e perfino di “socialismo digitale”, proponendo una rosea visione secondo la quale le piattaforme digitali “danno il potere” al popolo, dando a noi libero accesso a un’ampia gamma di servizi, dalle reti sociali al posizionamento GPS al controllo della salute». 

In queste visioni del mondo, Silicon Valley viene contrapposta favorevolmente a Wall Street, poiché offre «servizi accessibili a tutti, quasi indipendentemente dal loro reddito», mentre «Wall Street intensifica la concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani dell’1 per cento della popolazione»[n]Mazzucato, Il valore di tutto, cit., p. 232.[/n]. Naturalmente, non è in discussione l’utilità dei servizi offerti dai giganti di Internet, ma l’idea che tali servizi 

«siano offerti a tutti gratuitamente per la buona volontà di Silicon Valley, al fine di dare il potere al popolo e creare un mondo più aperto, è estremamente ingenua. Un’analisi più realistica dovrebbe iniziare dal comprendere come queste aziende funzionino e da dove traggano i loro profitti, con un occhio alla valutazione del loro impatto sociale globale in termini di creazione di valore e di estrazione di valore». 

Esse agiscono in un mercato a due facce, in cui sviluppano insieme «la domanda e l’offerta» e operano allo stesso tempo come «cardine, connettore e guardiano». L’interattività di questi media dà a chi li possiede e gestisce l’inedita, intrinseca possibilità di acquisire e usare – in modi incontrollati e più o meno leciti, per fini sia commerciali, sia politici – informazioni anche sulla sfera intima delle persone. Le loro strategie sono basate sull’acquisizione più ampia possibile di dati personali, consentendo agli scambi di mercato non solo di raggiungere aree della vita di miliardi di persone in tutto il mondo che in precedenza erano al di fuori della portata del mercato, ma anche, in più, «di mercificarle»[n]Ivi, pp. 232-233.[/n]. Poche righe, sulla strada lungo la quale Shoshana Zuboff si stava spingendo molto più lontano in quello stesso periodo.

Nel 1980, Frank Donner, allora direttore dell’American Civil Liberties Union, aveva scritto il libro The Age of Surveillance sull’onda delle rivelazioni riguardanti gli estesi controlli spionistici e polizieschi sui movimenti sociali degli anni precedenti. L’accento non era ancora sulle possibilità di una sorveglianza diversa da quella strettamente politica. Nei due decenni successivi, quel tipo di sorveglianza sarebbe stato ancora al centro dell’attenzione degli studiosi, che però registravano l’allargamento della sua “portata” grazie all’evoluzione della strumentazione tecnologica usata dai «controllori.» A titolo di esempio, John Parker, nel 2000: «Noi, milioni e milioni di noi, siamo gli obiettivi di origliatori, agenti dei governi, agenti speciali, agenti privati, funzionari dei servizi di sicurezza, forze dell’ordine, costruttori di database commerciali, ciberficcanaso, hackers e specialisti della sorveglianza impegnati in una vasta e intimidente quantità di compiti». 

Era il 2000: le telecamere fisse avevano invaso gli angoli delle strade e le facciate dei palazzi; Internet funzionava dalla metà degli anni Novanta, Google era nata nel 1998 e intorno all’e-commerce si era già gonfiata e sgonfiata – proprio nel 2000 – una bolla speculativa che avrebbe innescato la breve recessione dell’anno successivo. Nel 2002, David Lyon aggiungeva il capitale e i consumi alla sorveglianza politica nel suo La società sorvegliata. In un capitolo del libro, intitolato «Il World Wide Web di sorveglianza», scriveva: 

«I tentativi di governare il consumo poggiano su una maggiore conoscenza “personale” dei consumatori. I produttori e i rivenditori desiderano stabilire coi loro clienti relazioni basate su servizi-tipo, in modo da raccogliere, conservare e gestire le informazioni che li riguardano e al fine di influenzare i loro comportamenti. I database utilizzati nel marketing operano come una tecnologia selettiva, che trasferisce aspetti del taylorismo dalla produzione al mercato. In questo caso i consumatori sono selezionati e guidati sulla base di informazioni personali assunte sia da fonti pubbliche, sia da registrazioni dirette del comportamento del consumatore»[n]F.J. Donner, The Age of Surveillance: The Aims and Methods of America’s Political Intelligence System, Vintage Books, New York 1980; J. Parker, Total Surveillance, Piatkus, Londra 2000, pp. 1-2; D. Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana (2001). Feltrinelli, Milano 2002, pp. 138-139. Di D. Lyon, si vedano anche: L’occhio elettronico (1994), Feltrinelli, Milano 1997 e Surveillance after September 11, Polity, Cambridge (UK) 2003.[/n]. 

Ma nessuno di quei primi esploratori immaginava quello che sarebbe diventato possibile nei decenni a venire. Nel 2014, un anno dopo che Edward Snowden aveva rivelato l’estensione dello spionaggio condotto dalla National Security Agency in cooperazione con le grandi società dell’informatica, John Bellamy Foster e Robert McChesney facevano un primo “aggiornamento“ sulla storia di quello «stretto intreccio» in un lungo saggio pubblicato dalla Monthly Review[n]J.B. Foster e R.W. McChesney, Surveillance Capitalism: Monopoly-Finance Capital, the Military-Industrial Complex, and the Digital Age, in «Monthly Review», 1° luglio 2014. A maggio del 2013, Edward Snowden, un giovane tecnico della società di consulenza informatica Booz Allen Hamilton, che aveva accesso a enormi quantità di documenti riservati della National Security Agency, ne scaricò una parte su una chiavetta e si imbarcò per Hong Kong, da dove li rese pubblici, mettendo in luce l’estensione dello spionaggio informatico interno e internazionale della NSA. Subito dopo Snowden si trasferì in Russia, dove gli fu garantito il permesso di residenza dopo una fase di indagini e verifiche sul suo conto durata alcuni mesi.[/n]. Sull’onda delle rivelazioni, i due autori  tracciavano la linea continua dell’evoluzione di strumenti – «Nel 1962, il 56,2 per cento delle vendite dell’industria elettronica […] andava alle forze armate e all’industria spaziale» – e finalità della sorveglianza sociale, dagli obiettivi di controllo e repressione politica interni perseguiti a partire dalla presidenza Truman per arrivare alla realizzazione del sistema di spionaggio globale Echelon degli anni Settanta, ad Arpanet (il sistema, dismesso nel 1989, che collegava governo e istituti di ricerca sulle nuove tecnologie, precursore della World Wide Web dei primi anni Novanta) e agli sviluppi successivi (inclusa la deregolamentazione della Legge sulle telecomunicazioni di Clinton del 1996). Nel 2014, scrivevano, «tre delle quattro corporation di maggior valore sul mercato erano monopoli di internet: Apple, Microsoft e Google. Dodici delle trenta corporation statunitensi di maggior valore erano giganti dei media e/o monopoli di Internet, che includevano Verizon, Amazon, Disney, Comcast, Intel, Facebook, Qualcomm e Oracle». La loro ricerca si concludeva alle soglie dello stato attuale del government-corporate surveillance complex, sfiorando appena i traguardi più recenti nell’estensione “panottica” della sorveglianza e il protagonismo assoluto delle grandi corporation commerciali.

È stata Shoshana Zuboff, cinque anni più tardi, a spingere ancora oltre ricerca e analisi nel suo ambizioso e voluminoso The Age of Surveillance Capitalism. Prolungando fino allo stato attuale la linea d’indagine tracciata da Donner, Lyon e Foster-McChesney (e molti altri, naturalmente), Zuboff concentra la sua maggiore attenzione sulla rivoluzione digitale che nei decenni del capitalismo neoliberista ha coinciso con la nascita e crescita di inedite concentrazioni di ricchezza e potere nel settore dello high-tech. In partenza, la considerazione fondamentale: il capitalismo della sorveglianza 

«è stato inventato da un determinato gruppo di persone, in un luogo e in un periodo determinati. [«Negli Stati Uniti: nella Silicon Valley, da Google.»] Non si è trattato né di una conseguenza resa inevitabile dallo sviluppo della tecnologia digitale, né dell’unica espressione possibile del capitalismo dell’informazione. Il capitalismo della sorveglianza è stato costruito intenzionalmente in un particolare periodo storico, proprio come ingegneri e tecnici della Ford Motor Company avevano inventato la produzione di massa nella Detroit del 1913»[n]Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, cit., p. 96, 34.[/n]. 

Come le “invenzioni” del fordismo avevano coinciso con la Seconda rivoluzione industriale, le intenzionalità che hanno concepito e reso possibile il capitalismo della sorveglianza sono inscindibili da quelle che hanno prodotto contemporaneamente il neoliberismo e la Terza rivoluzione industriale.

Google, la protagonista principale dei capitoli iniziali della ricostruzione di Zuboff, nasce alla fine degli anni Novanta e, «da subito, l’intelligence degli Stati Uniti fece da incubatrice per Google, tramite una combinazione di finanziamenti diretti e un network informale di influenze economiche, strettamente allineate agli interessi del Pentagono». In quella fase, continua Zuboff, divenne evidente «la crescente interdipendenza tra le agenzie dell’intelligence, stanche dei limiti costituzionali delle loro prerogative, e le aziende della Silicon Valley. Le prime aspiravano alla stessa emancipazione dalle leggi della quale potevano godere le seconde». Gli attentati del settembre 2001, con la mobilitazione “securitaria” sul terreno politico-legislativo e pubblicistico da cui furono seguiti, portarono alla focalizzazione totale «sulla sicurezza e non sulla privacy». Quello spostamento di attenzione giocò a favore dell’intero settore proprio nei decenni della sua nuova espansione, permettendo che la sua crescita impetuosa e la sua monopolizzazione avvenissero in una sorta di vuoto legislativo, senza norme di controllo[n]Ivi, pp. 124, 129.[/n]. 

Le implicazioni propriamente politiche di quel percorso non sono marginali nell’analisi di Zuboff: «Il capitalismo della sorveglianza non è cosa di tecnologi fanatici, ma un capitalismo canaglia che ha imparato a sfruttare astutamente le condizioni storiche date per assicurarsi il proprio successo e difenderlo». I suoi protagonisti «non volevano le costrizioni tipicamente imposte al libero mercato dai governi o dalle leggi democratiche. Per poter affermare e sfruttare la propria libertà, avrebbero dovuto tenere alla larga la democrazia». Cosa che hanno fatto con successo: «Il capitalismo della sorveglianza può essere descritto come una presa del potere autoritaria, attuata rovesciando non lo stato ma la sovranità popolare, e una forza prepotente nella pericolosa deriva verso lo sfaldamento della democrazia che sta minacciando le democrazie liberali dell’Occidente»[n]Ivi, pp. 27, 111, 31 (trad. modificate, N.d.A.).[/n]. In sostanza, applicando indiscutibili «competenza tecnologica e talento per l’informatica», Google per prima ha alterato a proprio vantaggio le relazioni sociali, a partire dal 

«disprezzo per i confini dell’esperienza privata e l’integrità morale dell’individuo indipendente. I capitalisti della sorveglianza hanno stabilito il proprio diritto a invadere la privacy a proprio piacimento, usurpando il diritto degli individui a decidere per sé a favore di una sorveglianza unilaterale e dello sfruttamento autodeterminato dell’esperienza altrui a scopo di lucro. Queste pretese tanto rapaci sono state sostenute dall’assenza di leggi in grado di fermarle, dalla comunione di interessi tra i primi capitalisti della sorveglianza e le agenzie di servizi segreti, e dalla tenacia con la quale le corporation hanno subito difeso i territori conquistati»[n]Ivi, pp. 28-29 (trad. modificate, N.d.A.). Alle pp. 155 e sgg. Zuboff dà conto dei deboli tentativi attuati tra il 2010 e il 2012 dalla Federal Communications Commission e da trentotto procuratori generali di ottenere da Google informazioni sui suoi meccanismi di raccolta di dati personali. Tentativi frustrati, respinti con arroganza dall’azienda «ricca, sfacciata e determinata».[/n].

Nel 2019, in una presentazione pubblica del libro nel Regno Unito, Zuboff ha sottolineato come la rivoluzione dei capitalisti della sorveglianza sia stata, tra le altre cose, una «creazione di ricchezza di portata epocale e mondiale» e come le società del Big Tech – Google in testa, seguita poi da Microsoft, Facebook e Amazon – abbiano sempre avuto a disposizione molte strategie diverse, inclusa la pura e semplice arroganza, per proteggersi dalla legge: «Fanno lobbismo, comperano politici e usano altri metodi definibili come cartellizzazione» e si fanno forti del fatto che la rete è una realtà nuova che agisce secondo nuovi protocolli. Nelle parole di Larry Page, uno dei fondatori di Google, «come potrebbe Google obbedire a leggi che sono entrate in vigore prima di internet?»[n]J. Kavenna, Shoshana Zuboff: “Surveillance capitalism is an assault on human autonomy”, in «The Guardian», 4 ottobre 2019, al sito: Shoshana Zuboff: ‘Surveillance capitalism is an assault on human autonomy’ | Society books | The Guardian.[/n].

Zuboff mostra con dovizia di particolari come gli strumenti che i capitalisti della sorveglianza hanno e usano per penetrare nella vita privata, nei gusti e interessi delle persone e per cambiarne i comportamenti, per conoscere i loro spostamenti fisici sul territorio e le loro relazioni sociali siano enormemente più pervasivi di quanto siano mai stati nelle mani degli stati e dei loro organi di polizia. Il loro essere veicoli tanto di offerte di informazione per gli utenti, quanto – molto di più – di acquisizione di informazioni sugli utenti rende le aziende del Big Tech diverse dai grandi media tradizionali. Anche quelli hanno sempre fatto capo, storicamente, al ristretto mondo oligopolistico dei potentati economici, quella sorta di regno separato «in cui chi governa appartiene all’uno per cento»[n]J.E. Stiglitz, The Price of Inequality, W.W. Norton, New York 2012, p. 129.[/n]. Una volta, per così dire, anche chi comprava un giornale, accendeva la radio o la televisione contribuiva ai guadagni dei proprietari dei mezzi cui accedeva ed era involontario ricevente dei messaggi informativi, politici, pubblicitari che essi veicolavano. La comunicazione era unidirezionale, e chi la riceveva rimaneva al di fuori del controllo diretto dell’emittente. La merce è la notizia, si diceva quando informazione era sinonimo di carta stampata. Invece ora, nella cosiddetta economia condivisa della rete, la merce non è l’informazione che viene offerta, ma l’utente che la riceve e quello che egli/lei “dice” di sé. Inoltre, la possibilità dei “vecchi” media di incidere sulla coscienza e i comportamenti delle persone – oltre che meno insinuante – era circoscritta spazialmente agli ambiti locali e nazionali, mentre ora il campo d’azione dei nuovi media è in grado di includere miliardi di persone: gli utilizzatori di Facebook erano 2,8 miliardi, secondo Statista, nel mese di ottobre 2021[n]Statista Research Department, Leading countries based on Facebook audience size as of October 2021, 17 novembre 2021; al sito: Facebook users by country 2021 | Statista.[/n]. 

Molto tempo fa il giornalista di Fortune William H. Whyte aveva asserito che «se si controlla la comunicazione, si controlla»; ora il controllore è Big Tech. Il giornalista John Lanchester aveva scritto nel 2017 sulla London Review of Books che «il vero business di Facebook è la sorveglianza»: «Di fatto, Facebook è la più grande azienda di sorveglianza nella storia dell’umanità. Sa molto, molto di più sul nostro conto di qualsiasi governo di qualsiasi epoca, anche del più intrusivo»[n]J. Lanchester, La merce sei tu, in «Internazionale», n. 1222, 15 settembre 2017, p. 54.[/n]. Anche prescindendo dagli usi finalizzati al malaffare politico, come nel caso della vicenda che ha coinvolto Facebook e Cambridge Analytica negli scorsi anni[n]La società britannica Cambridge Analytica raccoglieva e commercializzava grandi quantità di dati personali prelevati abusivamente dalla rete. Sospetti che svolgesse attività illegali e che le informazioni raccolte fossero usate a fini politici erano già circolati dopo il 2015. E che Facebook si fosse resa tramite eccezionale per la diffusione di notizie false usabili a fini elettorali nel 2016 era stato denunciato nel 2017 da «Buzzfeed»: «Negli ultimi tre mesi della campagna presidenziale statunitense» – gestita da Steve Bannon per Donald Trump – «le bufale elettorali più lette su Facebook hanno generato più partecipazione e coinvolgimento dei principali articoli di grandi testate giornalistiche come “The New York Times”, “The Washington Post”, “Huffington Post”, “NBC News” e altri» (Buzzfeed”, cit. in Ivi, p. 51). Ma fu solo nei primi mesi dell’anno successivo che esplose il caso della comunità d’intenti tra le due società. Si vedano: M. Rosenberg, N. Confessore e C. Cadwalladr, How Trump Consultants Exploited the Facebook Data of Millions, in «New York Times», 17 marzo 2018; A. Kroll, Cloak and Data: The Real Story behind Cambridge Analytica’s Rise and Fall, in «Mother Jones», maggio-giugno 2018; C. Kang e S. Frenkel, Facebook Says Cambridge Analytica Harvested Data of Up to 87 Million Users, in «New York Times», 4 aprile 2018; J. Weisberg, The Autocracy App, in «New York Review of Books», vol. LXV, n. 16, 25 ottobre 2018, p. 21.[/n], sono impressionanti le conclusioni a cui sono arrivati i giornalisti del New York Times nel dicembre 2019 al termine di un’inchiesta di mesi (forse stimolata dalle pagine dedicate al “rintracciamento” nel libro di Zuboff, uscito a gennaio di quello stesso anno). Attraverso le app normalmente presenti negli smartphone, scrivevano, è possibile sapere pressoché in ogni momento dove una persona si trova, come si muove e lungo quali percorsi, ed è facile individuare l’identità di quella persona. «Mette molta paura. È come essere pedinati», ha detto una donna ai giornalisti; «Il libro 1984», ha detto un altro, «per molti versi lo stiamo vivendo». Il titolo dell’articolo era indicativo: «Le tue app sanno dove ti trovavi la notte scorsa, e non lo tengono segreto». Il suo inizio: «Dozzine di società usano le localizzazioni degli smartphone per aiutare le pubblicità e perfino gli hedge funds. Dicono che sia anonimo, invece i dati mostrano quanto sia personale. E in vendita. […] I dati controllati dal Times mostrano più di 235 milioni di localizzazioni catturate da oltre 1.200.000 apparecchi in un periodo di tre giorni nel 2017» [n]J. Valentino-DeVries, N. Singer, M.H. Keller e A. Krolik, Your Apps Know Where You Were Last Night, and They’re Not Going to Keep It Secret, in «New York Times», 10 dicembre 2019. Dell’inchiesta ha dato notizia Riccardo Luna, Spiati dalle app, in «la Repubblica», 27 dicembre 2019, p. 26.[/n]. Naturalmente, da allora, gli studiosi del settore sono in grado di contestualizzare questo tipo di rilevazione/rivelazione e di aggiungere numerosi dettagli ulteriori. 

I social media sono stati la grande variante di rilievo comparsa a decenni dall’introduzione di Internet all’inizio degli scorsi anni Novanta. Strumenti di democratica presa di parola e quindi di libertà, si è detto. Ma non solo. Le potenze economico-finanziarie che, da una parte, rendono possibile l’espansione della libertà di espressione individuale nella rete (e la sorvegliano…), dall’altra parte non sono per nulla interessate a promuovere rapporti sociali democratici, né nelle relazioni di lavoro al loro interno, né sul terreno della politica all’esterno. Grazie allo scandalo del rapporto con Cambridge Analytica e alle ulteriori rivelazioni della ex dipendente Frances Haugen – che nel 2021 ha documentato la colpevole irresponsabilità di Facebook rispetto ai materiali visivi, alle falsità e alla disinformazione che veicola[n]D. Milmo, Frances Haugen takes on Facebook: The making of a modern US hero, in «The Guardian», 10 ottobre 2021; al sito: Frances Haugen takes on Facebook: the making of a modern US hero | Facebook | The Guardian.[/n] – Facebook è diventato l’esempio scandaloso sia del prevalere assoluto della ricerca del profitto a danno reale e potenziale del pubblico, sia della collusione tra profitto economico e convenienza politica, sia, infine, della disinvoltura con cui la stessa corporation è entrata in pratiche propriamente illegali. 

Se si accantonano gli aspetti strutturali dell’imperio corporate e si sposta l’attenzione alle pratiche comunicative e agli utilizzatori dei social media, bisogna dire che nei “social” si ritrovano in tutta la loro varietà, quindi anche in forme degradate, le dinamiche presenti nella società nel suo complesso. Una di queste, nelle parole di Shoshana Zuboff, è «l’attrazione magnetica che i social media esercitano sui giovani», che induce forme di comportamento «meccanico e involontario» e una «vera e propria compulsione». Citando le dichiarazioni soddisfatte di una dirigente di Facebook, la studiosa riporta che «mentre un adulto medio controlla il proprio telefono 30 volte al giorno, il millennial medio lo fa più di 157 volte. E sappiamo che la Generazione Z tiene un ritmo ancora maggiore»[n]Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, cit., pp. 465, 464.[/n]. Il problema è che in contesti come l’attuale, la libertà e frequenza dell’accesso alla rete, l’impunità offerta dall’anonimato e la brevità spesso gergale delle “scritture,” facilitano un vociferare più o meno aggressivo e provocatorio, spesso confuso e solipsistico di individui-monadi presi in rapporti morbosi con le loro tastiere[n]M. Wendling, Alt-Right: From 4chan to the White House, Pluto Press, London 2018. Secondo A. Nagle (Kill All Normies: The online culture wars from Tumblr and 4chan to the alt-right and Trump, Zero Books, Winchester, UK-Washington, USA 2017, p. 2) la Rete «ha mobilitato una strana avanguardia di adolescenti dediti ai videogiochi; di amanti di anime e “postatori” di svastiche coperti da pseudonimi; di ironici conservatori alla South Park; di sbeffeggiatori antifemministi; di nerd seccatori e di troll creatori di meme, i cui umorismo nero e trasgressioni per il gusto di trasgredire hanno reso arduo capire quali vedute politiche erano genuinamente sentite e quanto invece fossero, come dicevano loro, per farsi quattro risate».[/n]. 

La messaggistica che viaggia in rete è molto spesso marcata ideologicamente, politicamente, culturalmente. Ha creato prima scalpore e poi preoccupazione, in particolare negli anni di Trump (e anche grazie all’uso maniacale di Twitter da parte dello stesso Presidente), la diffusione di piattaforme vicine alla destra o espressione diretta di formazioni di una destra politica razzista, suprematista, quasi sempre maschilista e spesso armata. Formazioni a cui la rete permette di mantenere collegamenti anche in assenza di strutture formalizzate in partiti e di sfruttare l’esistenza delle zone oscure a fini organizzativi e di proselitismo ideologico. Ma sarebbe superficiale fermarsi allo “scandalo”, diciamo, della presenza di 4chan o degli istigatori di mestiere o dei diffusori di falsificazioni deliberate, sottovalutando la ben più nota e diffusa funzione comunicativa-organizzativa che la rete ha avuto in misura crescente sia nelle campagne elettorali degli anni Duemila (il salto di qualità è avvenuto con quella di Obama nel 2008), sia nella crescita di movimenti progressisti e nella capillarizzazione dei collegamenti su cui hanno potuto contare tutte le mobilitazioni popolari, di lavoratori, di sinistra e contro le destre (e contro Trump). Dai primi passi con Seattle nel 1999, ai Social Forum globali e alle proteste contro la guerra in Iraq, a Occupy e su su, fino a Black Lives Matter, alle Women’s Marches contro Trump, alla sollevazione del 2020 e agli scioperi di questi anni e mesi. E, aggiungo, alle più che probabili manifestazioni future – di donne, ma non solo – contro la decisione del giugno 2022 della Corte Suprema di cancellare “Roe v. Wade”.

È questa ambivalenza – che può essere ridotta al discorso più generale sulla prevalenza di una o l’altra subcultura ideologico-politica – che molti mettono in evidenza. Nelle parole dello studioso di Harvard Yochai Benkler: così come «la radio era a disposizione tanto dei discorsi dal caminetto di Roosevelt, quanto della propaganda di Hitler», i social media «possono funzionare sia per incrementare la partecipazione e il governo democratico, sia per minarli alla radice». L’esempio: 

«Sono stati il videogiornalismo dei cittadini che hanno registrato e messo in circolazione le prove, insieme con le proteste di massa [dopo l’omicidio di George Floyd], che hanno cambiato il discorso pubblico sugli omicidi polizieschi di cittadini neri negli Stati Uniti. E sono stati sempre i social media che hanno reso possibile l’organizzazione e la mobilitazione dell’estrema destra, Unite the Right, di Charlottesville»[n]Y. Benkler cit. in T.B. Edsall, Democracy Is Weakening Right in Front of Us, in «New York Times», 17 febbraio 2021.[/n].     

Un ultimo punto. La libertà di accesso – come la realtà contraddittoria su cui la rete si impianta – non è priva di contraddizioni significative. La chiusura a Donald Trump degli accessi a Facebook, Twitter, Instagram, e altre piattaforme social è stata una rappresentazione altamente simbolica del potere corporate, opportunistica e, in quanto “esteriore”, immediatamente visibile a tutti[n]H. Denham, All the platfoms that have banned Trump and his allies, in «Washington Post», 14 gennaio 2021.[/n]. È avvenuta una settimana dopo l’insuccesso dell’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Dopo quattro anni in cui a Trump hanno fatto da megafono, del tutto indifferenti ai contenuti che egli convogliava tramite loro, queste piattaforme hanno unilateralmente zittito il quasi ex Presidente degli Stati Uniti: lo hanno bandito solo dopo il fallimento dei suoi tentativi di eversione, dopo che tutti i passaggi istituzionali avevano certificato la sua sconfitta elettorale e a due settimane dall’entrata in carica di Joe Biden. Sono state tante le voci che si sono espresse pro o contro i motivi e i soggetti coinvolti. E sono stati pochi, tra quanti mettono in discussione la decisione delle piattaforme, quelli che hanno difeso l’utilizzo spregiudicato che Trump ha fatto dei social media e i contenuti che vi ha immesso. Non lo aveva fatto – propedeuticamente, si potrebbe dire – il New York Times, quando ha pubblicato l’«elenco completo, o quasi, di tutte le bugie da lui dette pubblicamente» nei primi dieci mesi della presidenza, tra l’entrata in carica e l’11 novembre 2017[n]D. Leonhardt e S.A. Thompson, Trump’s Lies, in «New York Times», 14 dicembre 2017.[/n].  

Le iniziative censorie nei suoi confronti sono state discusse, e da diversi punti di vista, anche in Italia. Un aspetto mi sembra particolarmente degno di nota. «Twitter e Facebook sono dei privati, non possono togliere la parola», ha scritto il filosofo Massimo Cacciari. La sua non era una difesa del buon nome di Trump, ma del diritto: è inaudito che il «capitalista» abbia il «potere assoluto su questi mezzi»; dovrebbe essere «un’autorità politica costituita» a decidere le norme e il codice etico in base a cui essi funzionano; il fatto che «un’impresa economica la cui logica è volta al profitto» possa decidere chi parla e chi no «è una manifestazione di una crisi radicale dell’idea democratica»[n]M. Cacciari, “E’ scandaloso che sia Twitter a decidere chi può parlare e chi no”, in «la Repubblica», 11 gennaio 2021.[/n]. Tutto giusto; ma proprio questo è il punto: facendo ciò che hanno fatto, hanno provato che possono farlo. E hanno potuto proprio perché sono dei privati che operano su quel terreno normativo finora privo di barriere di contenimento analizzato e descritto da Shoshana Zuboff: decidono in prima persona e autonomamente i propri comportamenti. La contrapposizione “buonsensuale” di un giusto ma astratto dover essere etico e pubblico a uno stato di fatto governato dall’interesse privato – e dettato da opportunismo o interesse politico – non è l’unico nodo che andrebbe sciolto. Mesi più tardi, a commento del bando a tempo indeterminato di Trump da parte di Facebook, una vignetta firmata da Ellekappa coglieva il paradosso presente nell’evidente “scontro” tra autoritarismi: uno dei suoi due personaggi dice, «Lo strano caso di Donald Trump», e l’altro: «Se lo metti al bando è un attentato alla democrazia, se lo fai parlare, pure»[n]Ellekappa, in «la Repubblica», 6 maggio 2021.[/n]. Questa contraddizione centra una delle aporie del sistema che continuiamo a chiamare “democrazia,” che da una parte ammette sia l’ascesa al potere di un demagogo autoritario e non qualificato per il ruolo presidenziale, sia l’acquisizione di un potere pressoché illimitato da parte di un “capitalista” e, dall’altra, ammette nel proprio funzionamento, per assenza di regole, l’effettivo strapotere esercitato da un attore privato ai danni di una persona che in quel momento è ancora la più alta carica dello stato. 

Tuttavia, le implicazioni politiche degli aspetti di principio qui evocati meritano alcune schematiche considerazioni finali. Ripartiamo dal fatto che i censori sono grandi società azionarie possedute e amministrate da privati cittadini. La loro funzione, che – date le dimensioni – il senso comune vorrebbe fosse intesa come servizio pubblico, è secondaria rispetto a quella primaria della ricerca privata di profitto. Sono società nate e cresciute negli Stati Uniti, ma le norme del loro funzionamento non sono state dettate da rigorose leggi federali (come sono le comunicazioni radiofoniche e televisive); hanno raggiunto dimensioni tali da permettere loro di agire come – alla fine – hanno agito contro Trump (e altre figure di minore rilievo) e come potrebbero fare in altri casi futuri. In altri termini, hanno bandito il Presidente degli Stati Uniti, perché di fatto ne avevano il potere. Il che vuol dire che a loro insindacabile giudizio sono in grado di fare quello che vogliono, anche – estremizzando il futuribile – interrompere a piacere canali di comunicazione diventati irrinunciabili per molte centinaia di milioni di persone in ogni parte del mondo. Dalla loro posizione dominante proviene un’immagine di sé come di un potere assoluto. Il fondamento di questa loro idea di potere non è fuori della storia; anzi, sta precisamente nel percorso storico della loro affermazione in quanto aziende e nel contesto storico neoliberista entro cui si sono formati i privilegi di cui godono. A questo aspetto se ne aggiungono almeno altri due molto diversamente connotati, ai fini di quello che cerco di mettere in evidenza. Il primo: il contributo fiscale che questi giganti versano negli Stati Uniti e negli stati del mondo in cui operano è del tutto fuori scala, rispetto alle dimensioni che essi hanno e ai profitti che incamerano. Il secondo è l’assolutismo proprietario: l’azienda che è senza controlli normativi esterni, di cui si è detto, non è disposta ad ammettere la possibilità di subire condizionamenti interni che potrebbero venire da controparti sindacali al loro interno. Tutto questo, fino a ora. Per ora.