Conflitti,  Genere,  Storia e memoria

Fare analisi, costruire conflitto. Intervista a Alisa Del Re

Intervistare Alisa Del Re è cosa facile. Il nostro incontro avviene a Padova, il 4 novembre 2022, nello spazio domestico del suo vivere quotidiano dove mi accoglie e accompagna con la sua piena e elegante corporeità. Fatte le dovute presentazioni dei gatti Ercole e Anteo, ci dirigiamo nel suo studio. «Qui – mi dice – faremo la nostra intervista.» In questo spazio fisico che percepisco come il più intimo e separato della casa, iniziamo a conversare. Il dialogo si fa subito fluido e autentico portandomi dritta, dritta dentro la tensione, la passione del suo percorso di studio, di analisi, di lotta. Un percorso intenso, fatto di esperienze anche molto dure e sofferte a partire da quelle legate alle vicende del 7 aprile 1979. Col passaggio dall’operaismo al femminismo marxista nato negli anni Settanta in seno al collettivo Donne, scuole, università, ospedali di Padova, l’impegno di Alisa Del Re resterà sempre focalizzato sulle donne. Docente di Scienza della Politica dal 1968 al 2013 all’Università di Padova, dove nel 2008 fonda il Centro interdipartimentale di ricerca: studi sulle politiche di genere (CIRSPG), la sua produzione scientifica affronta in modo sistematico questioni inerenti i diritti delle donne, il loro accesso alle risorse e alle strutture di potere, concentrandosi specialmente sui temi della riproduzione sociale, delle politiche familiari, della cittadinanza femminile, dei rapporti tra genere e politica locale.

Rispetto alla tua esperienza, qual è l’eredità politica del Novecento?

Credo ci sia la necessità continua di fare le analisi di quello che sta succedendo. Chi fa politica oggi dovrebbe, come lo si faceva nella seconda metà del Novecento, guardarsi intorno, leggere quali sono le direzioni dei cambiamenti in atto, perché la struttura capitalistico-produttiva e la sua sovrastruttura di comando politico non sono immobili, si adattano continuamente anche alle modificazioni che le lotte comportano. E, quindi, leggere i cambiamenti, avere la capacità di intuire quali sono quelli in atto e su questo costruire analisi, conflitto e prospettive utili per un cambiamento sociale. Questa è la prima cosa di cui in questo periodo sento molto la carenza. Per cui se c’è un’eredità politica che è andata dispersa dal Novecento, per quello che ricordo della mia esperienza politica, è l’incapacità di leggere le mutazioni, forse perché sono diventate troppo rapide. Però non bisogna mai dimenticarsi che nella seconda metà del Novecento noi abbiamo assistito alla distruzione della fabbrica, noi che eravamo operaisti voglio dire, e che probabilmente lo siamo ancora, anche se gli operai sono un’altra cosa, cioè i produttori di beni sono un’altra cosa. Ecco, noi abbiamo visto questa trasformazione epocale, che ha coinvolto tutte le giovani generazioni dell’epoca con la mistificazione enorme di immaginare che sfuggire al padrone significasse autonomizzarsi, fare i padroncini insomma. Parlo del Veneto ma anche dell’Italia, le trasformazioni di questo tipo sono abbastanza generalizzate. Quindi, secondo me, c’è un’incapacità di leggere questi elementi trasformativi importanti – rimando alle letture di operaisti dell’epoca –. Noi le avevamo individuate e per questo siamo stati anche arrestati. Cioè, c’è stato un blocco del pensiero, non solo dell’azione politica più o meno importante, ma proprio della produzione di pensiero con gli arresti dal 1979 all’Ottanta, in tutta Italia. Arresti che non hanno coinvolto solo quattro docenti, ma hanno coinvolto migliaia di persone. Per non parlare del blocco delle lotte, del clima che si era instaurato.

Mi stai dicendo che questa eredità politica andrebbe riletta, ritrovata?

Questo tipo di eredità andrebbe, secondo me, recuperata. Non è vero che oggi non si producano letture del presente, dei cambiamenti del presente, però non si coniugano con le lotte, nel senso che non ci sono le lotte. È interessante leggere anche l’ultimo libro di Cristina Morini Vite lavorate che ci spiega come l’estrazione del valore ormai è sulle nostre vite, è sui nostri corpi, che basta vivere per essere produttivi. Però, detto questo, quando torno a casa non è che la vita mi cambi. Non c’è niente che si concretizzi poi in un processo trasformativo che coinvolga iniziative politiche evidenti. Anche “Bifo” (Franco Berardi NdR) sta facendo delle analisi bellissime, leggendo la delusione dei processi capitalistici che i giovani stanno esprimendo. Citava recentemente degli articoli che ci raccontano che il 54% dei giovani americani è depresso, per esempio, oppure che ci sono indagini che rilevano come la gente dia le dimissioni dal lavoro (la Great resignation), o i cinesi con il loro stare sdraiati. Oppure, citava come elemento utile per capire perché oggi le donne non facciano più figli come questa sia la grande diserzione, e «io vi invito tutti a disertare, disertando dal capitalismo.» Uno può disertare quanto vuole, sono una teorica della riproduzione sociale e il lavoro riproduttivo è una delle poche cose da cui non si può disertare, perché sennò la gente muore, i vecchi muoiono, i bambini, i malati muoiono. Questo è: l’incapacità, l’impossibilità di disertare non ci dà la possibilità di un’iniziativa politica…

E quindi?

… Quindi questa eredità del Novecento ci trova orfani, secondo me, non di una comprensione del presente, perché quella c’è, ma del passaggio dalla comprensione all’iniziativa, al fare, all’intervenire, al contrattare. Anche perché non sono una che pensa che bisogna fare la rivoluzione e poi il giorno dopo abbiamo vinto ed è finito tutto. Penso che le cose si devono negoziare nel tempo, e che le vittorie hanno sempre l’amaro di un compromesso. Questa è la mia esperienza. Se penso agli anni Settanta, noi abbiamo avuto delle vittorie straordinarie per quanto riguarda i diritti civili, dal divorzio all’aborto, al diritto di famiglia, ai consultori, cose riformiste e non certo rivoluzionarie. Quindi io sono convinta che qualsiasi iniziativa politica debba poi avere necessariamente delle forme di negoziazione. Più forza hai meglio contratti, ma devi portare a casa qualcosa. Non bastano le grandi analisi, bisogna sempre pensare che dopo una grande analisi bisogna anche tornare a casa. Come diceva Italo Sbrogiò che ho ammirato, apprezzato moltissimo: «Quando porti gli operai in piazza poi devi contrattare, se li porti in piazza loro perdono ore di lavoro e di salario e devono portare a casa qualcosa.» Quando si lotta bisogna sempre portare a casa qualcosa, questa è anche la mia idea. E quindi non bastano le grandi dimostrazioni di potenza, che, peraltro, sono utili, ci mancherebbe. Però non sono sufficienti se poi non quagliano. E questo riguarda anche il movimento femminista. Devo dirlo con grande chiarezza, soprattutto guardando il movimento femminista argentino che si muove su una contrattazione precisa. Hanno avuto il problema sulla legge sull’aborto, e quindi non è che sia facile contrattare, però il loro movimento, che è anche nostro, si muove su una dimensione che è anche contrattuale. In Italia nonostante sia stato un movimento grande e potente – ero alla manifestazione delle 150.000 contro il Congresso delle famiglie, ed è stata una cosa di grande potenza –  adesso mi domando quali possono essere gli sbocchi più concreti. Alcune cose le vedo nelle mie care compagne giovani che si stanno battendo, per esempio, per il riconoscimento delle malattie femminili meno riconosciute, come la vulvodinia. Si stanno battendo con grande capacità, però, secondo me, se noi pensiamo che salvaguardare il corpo dalla violenza, per esempio anche dalla violenza medico-scientifica che non riconosce certe malattie, perché sono di donne… È una cosa legittima, importante, ma non basta. Bisogna comunque continuare a pensare che statisticamente nella riproduzione sociale l’impiego è ancora di donne, è femminile e se non è femminile è femminilizzato, il che è ancora peggio: femminilizzato vuol dire che si richiedono quelle caratteristiche storicamente attribuite alle donne, bontà d’animo, amore, gentilezza, affetto, empatia, tutte cose che si richiedono anche ai maschi se svolgono un lavoro che riguarda la riproduzione sociale. In realtà, riguardano tutti i lavori che richiedono relazione. Ricordiamoci che una persona impiegata all’accoglienza in un albergo può essere anche licenziata se non sorride…

Secondo te il femminismo dovrebbe essere più ancorato a rivendicazioni concrete?

Certo la gente deve tornare a casa con qualcosa in tasca. Deve poi essere una cosa che riguarda tutte. Io sono una vecchia signora, se vado a vedere le rivendicazioni delle compagne sono tutte rivendicazioni per donne giovani. Detto proprio così. Le donne anziane sono molte e non c’è, per esempio, un discorso che riguardi la solitudine, il reddito. Lo sappiamo e lo sapevamo già negli anni Settanta che le pensioni delle donne erano meno alte di quelle degli uomini. Andiamo a vedere come sono adesso e come vivono le donne anziane. Che poi, insomma, ci sono le anziane e le grandi anziane, e allora lì ci sono le patologie. Parliamo di consultori e le case di riposo? Nessuno interviene sulle case di riposo, perché poi tanto prima o poi muoiono. Se vogliamo una vita migliore, e lo vogliamo per tutti, interveniamo sulle condizioni che considero riproduttive di tutti, di ciascuno, di bambini, di vecchi, di malati, e di chi è sano. Tutti abbiamo bisogno di essere in qualche maniera riprodotti, perché da soli non ce la facciamo. Interveniamo allora su questo che è sostanzialmente la qualità della vita, e andiamo a analizzare i cambiamenti.

Tra questi, quelli della riproduzione e che investono il lavoro delle donne a te stanno particolarmente a cuore …

Il mutamento della femminilizzazione del lavoro ha una base materiale che non è presa in conto, non lo sono le caratteristiche del lavoro “storicamente attribuito alle donne”: non si chiede solo l’amore, la gratuità, e tutte queste cose qui, ma anche la precarietà, i bassi salari. Quando hai un contratto di lavoro e sei una domestica hai un salario bassissimo. Il contratto migliore per le domestiche credo sia quello della Cgil, che prevede nove euro l’ora. Nove euro l’ora, ma ci rendiamo conto cosa vuol dire, e sappiamo che sono privilegiate quelle che hanno un contratto. Negli ospedali, le donne delle pulizie fanno lavoro riproduttivo. Se si fermano un ospedale non va avanti, ma non va avanti nemmeno una banca, una università. E come funzionano le donne delle pulizie degli ospedali? Sono esternalizzate, vengono prese dalle cooperative, che le pagano come vogliono loro e quando vogliono loro. Non ci sono pagamenti contrattualizzati, perché le cooperative sono piccole, e difficilmente c’è il sindacato che interviene, qualche volta lo fa il sindacato di base. Questo è lavoro riproduttivo e sono donne, ci sarà anche qualche uomo, ma insomma principalmente sono donne. Saliamo di grado, le infermiere, andiamo a vedere la qualità del lavoro richiesto a infermiere e infermieri e i salari corrispondenti. Questa è riproduzione sociale. Il lavoro gratuito domestico c’è sempre, qualche volta diviso con il compagno o con qualcuno, o sennò salariato poco con un’altra donna, con la traduzione della donna di casa che diventa padrona della vita di un’altra. L’esperienza di molte di noi, che sono anziane e quindi hanno avuto mamme anziane, è l’esperienza delle badanti. Noi sappiamo che quando hai la badante in casa tu diventi praticamente padrona della sua vita perché sta lì ventiquattr’ore su ventiquattro, ha un’ora e mezza di libertà al giorno, e poi un giorno e mezzo alla settimana, che è peggio di stare in galera. Sperano che la persona anziana dorma di notte, così dormi anche tu, perché se non dorme non vivi. L’unica è stata Rossana Rossanda che quando il suo compagno Karol Kewes Karol era diventato cieco ha preso tre badanti, tre per otto ventiquattro. Ma una famiglia normale può prendere tre badanti? Chi può? Tanto che Rossana per pagare le badanti ha dovuto poi vendere casa sua. Stavo dicendo, diventi padrona di una vita altrui e in più c’è il fatto che gestisci non solo un rapporto affettivo, perché se non lo gestisci non riesci nemmeno a portarlo avanti, ma gestisci anche la morte di una persona. E gestisci una serie di morti, in Romania questo lo chiamano “sindrome Italia”. Si chiama così perché dopo sette, otto morti tornano a casa psicologicamente distrutte. Queste sono cose che stanno nella nostra realtà quotidiana, che sono materiali, che riguardano i cambiamenti delle nostre vite. Ricordo che negli anni Settanta, le donne di servizio che c’erano, oltre alle sarde e alle venete, erano le filippine le prime che venivano da fuori. Ci sono gli studi diretti da Sabrina Marchetti su quattro zone di immigrazione di domestiche verso l’Europa. All’interno di questa ampia ricerca si evince che negli anni Settanta il gruppo del “salario al lavoro domestico” (di cui non ho fatto parte) non ha mai preso in considerazione le lavoratrici domestiche salariate.

Il lavoro riproduttivo non diventa una questione politica e questo con il Covid si è visto molto bene. Il femminismo dovrebbe, a tuo avviso, fare di più, essere più concreto, ma c’è anche un problema di rappresentanza politica…

Ma sai sul problema della rappresentanza politica proprio in questo momento lasciamo perdere… Per quanto riguarda il femminismo, ho letto forse un po’ superficialmente, dovrò forse leggere con più attenzione, il testo dell’assemblea nazionale di Non Una di Meno tenutasi la settimana scorsa [29-30 ottobre 2022 NdR], ma quello che mi pare di capire è che non c’è niente sul lavoro. Qui se non si ritrova il discorso sul lavoro, cioè su precarietà, mancanza di lavoro, su quello che vogliamo… Perché quando si parla di lavoro riproduttivo si parla di lavoro, non si parla di sentimenti. Lavoro, lavoro, punto. E quindi salari. E quindi rapporti di forza. E quindi messa in valore di un lavoro che invece di fatto è svalorizzato perché attribuito a donne, o comunque attribuito a donne perché svalorizzato. Entrambe le cose.

Quello che dici implica organizzazione, e non è facile.

Il problema dell’organizzazione è complicato, questo lo so. Non è facile pensare a organizzare delle lotte quando il lavoro riproduttivo ci riguarda tutti e tutte, e siamo tutte disperse. Quindi l’unica cosa che ci viene in mente è manifestare in piazza. Il reddito di autodeterminazione è un bellissimo obiettivo, certo. Ne ho sentito parlare ormai da anni, ma non ho capito a chi lo si chiede, non ho capito quand’è che ci si impunta, beh, adesso lo vogliamo, ne vogliamo un po’. Va benissimo, io sono d’accordo, e allora? Allora se pensiamo che il reddito di autodeterminazione funzionerebbe, perché pensiamo al reddito di cittadinanza, tutto sommato allargandolo e risistemandolo potrebbe essere un reddito di autodeterminazione, incondizionato, quello di cittadinanza è condizionato. Ma qualora ci fosse, se facessimo questo discorso sul lavoro, e non solo sul reddito… Se ci rendessimo conto che è un lavoro, da un lato incommensurabile ma dall’altro anche ineliminabile: incommensurabile per cui va bene il reddito, ma ineliminabile per cui chi lo fa? Allora, se entrassimo in quest’ordine di idee, cioè che è ineliminabile, potremmo andare a vedere se ci sono anche misure di welfare, quindi servizi, sanità, istruzione, tutte queste cose qui. Allora se noi chiediamo queste cose, vuol dire andare a vedere che la gente che lavora negli ospedali abbia un reddito, un salario sufficiente a vivere bene. Se noi cominciassimo a pensare a un salario adeguato per questi lavori, probabilmente riusciremmo a contrattare un cambiamento nella concezione generale del lavoro riproduttivo. Ma lo stesso discorso vale per le scuole, l’istruzione, dall’asilo nido all’università. Cominciare cioè a pensare che ci sono dei posti dove si può ancora organizzare il lavoro, dove non è così disperso. Comunque se noi pensassimo a dei cambiamenti radicali in queste colonne del welfare – sanità e istruzione –, perché non possiamo pensare che siano nostre? Nella scuola sono tutte donne – a parte i posti apicali nell’università, ma anche lo stipendio dei cattedratici sta diventando “banale”, e mi sa che diventeranno tutte donne anche lì –, negli ospedali sono tutte donne. Possiamo allora immaginare – e colleghiamo un riformismo sensato alle necessità, per esempio, delle persone anziane, alla gente che vive nei quartieri –  una sanità incentrata non solo nella cura delle malattie nell’ospedale, ma anche una sanità territoriale che consenta di pensare alla salute non solo come momento di cura della malattia ma anche come capacità di organizzare meglio la vita, di avere cure anche psicologiche. Quindi come cure di tipo territoriale, in un certo quartiere le malattie possono essere diverse da quelle di un altro, la gente, se triste, deve poter andare in un posto per sentirsi un po’ meglio, non basta il bar…   

Riuscire a pensare anche a queste cose è puro riformismo del quotidiano. Non mi illudo che qui ci sia un cambiamento di potere, è una riforma con qualche esplosione qua e là di lotta che bisogna prendere in conto come necessità, se vogliamo cambiare le cose, se vogliamo esistere anche politicamente, oltre a cambiare le nostre vite, perché io credo che chiunque di noi si sia messo in qualsiasi momento della sua vita a lottare lo ha fatto possibilmente per sé.

Con il Covid, il lavoro riproduttivo ha avuto una visibilità forse senza precedenti, che non sembra  aver portato a dei cambiamenti di rilievo…

È vero quello che dici, durante il Covid sono emersi i lavori essenziali, tra gli altri la cura. Solo che è emerso come cura non come lavoro e quindi la cosa diventava da apprezzare, valorizzare, riconoscere e così via, ma trattarlo come lavoro non era nell’ordine delle cose. Il femminismo da questo punto di vista ha fatto due operazioni da discutere: la prima, non so in ordine di tempo, è quella delle donne della differenza, quelle di Roma soprattutto, che si chiamano “le donne del mercoledì”, un gruppo con Maria Luisa Boccia, Ida Dominijanni e altre, che rivendicano dicendo: «noi siamo la cura» a questo punto rovesciamo questa cosa che ci viene attribuita come destino, come fatto biologico, quella di curare amorevolmente, prendiamola come professionalità e quindi ci prendiamo cura degli altri, del mondo eccetera, e vi spieghiamo noi come funziona. E questo è il primo elemento da mettere in discussione. La seconda operazione è quella di Non Una Di Meno, che mette all’ordine del giorno «Sciopero da lavoro produttivo e da lavoro riproduttivo». Dopo di che si accorge che non si può scioperare dal lavoro riproduttivo. Il che viene ripreso da Veronica Gago dicendo: noi abbiamo posto questo all’ordine del giorno e ci siamo rese conto e abbiamo reso conto a tutti che il lavoro riproduttivo è talmente pervasivo e necessario che addirittura non si riesce a scioperare. Ovviamente detto questo e “svelato” questo, poi non cambia nulla, e io insisto sempre che bisogna tornare a casa alla sera con qualcosa.

Resta il fatto che con l’emergenza sanitaria è aumentata la consapevolezza sulla centralità, sulla fatica e sulle responsabilità della cura.

Per quanto riguarda l’emersione del lavoro di cura, dei lavori essenziali, che è apparsa in tutti i giornali, è stata una bella emersione di cui tutti si sono congratulati e poi hanno guardato da un’altra parte. Perché? Probabilmente perché non c’è stato tempo, voglia, capacità, forse non era il periodo giusto, per organizzare un cambiamento radicale. Tutti ci siamo accorti che esiste il lavoro di cura. Dal punto di vista politico anche chi ne aveva colto l’essenzialità non ha saputo cogliere il momento.

Oggi tutto torna come prima. Perché? Per la semplice ragione che c’è una distorsione dello sguardo che ci impedisce in questo momento di cogliere queste cose, c’è la crisi economica, le bollette, la guerra. Si va a Roma per la pace, cosa vuoi fare, stai lì a parlare della cura, questi muoiono!

Consapevolezza, ecco cosa è venuto fuori dal Covid: una consapevolezza che questo lavoro non è solo il discorso di quattro femministe degli anni Settanta che dicevano c’è il lavoro domestico, quindi bisogna dargli un salario. No, è qualcosa di essenziale, di fondamentale, e di cui tutti abbiamo bisogno. Oh finalmente ce ne accorgiamo! Punto. Però c’è la guerra. Però ci sono le bollette. Però il lavoro è sempre meno. Però c’è la crisi. Però c’è l’inflazione, c’è un insieme di cose…Quindi riprendere il discorso sui lavori essenziali implica un lavoro notevole, che, insisto, deve avere una base materiale. Non basta un discorso che dica che esistono i lavori essenziali, la centralità della cura, deve avere una base materiale di organizzazione di lotta.

L’impatto del Covid-19 sul lavoro femminile ha mostrato come le donne siano molto più esposte ai rischi sociali generati da crisi di questo tipo. Con l’affacciarsi oggi di nuove crisi e emergenze credi le donne corrano dei rischi aggiuntivi?

Lo scenario in cui siamo non è solo quello post Covid, con tutte le cose che ha il post Covid, ma è lo scenario di una guerra che implica una ristrutturazione capitalistica non da poco. I libri di Maurizio Lazzarato sono chiarissimi in merito. Sappiamo che il capitale ha bisogno di distruggere per ricostruirsi, per ricomporre il valore. C’è una guerra che non è solo per dei confini, mi pare che si stia incancrenendo [a inizio novembre 2022N.d.R.]. Una guerra in cui il negoziato dovrebbe essere la fine più plausibile, tutto il mondo è allertato ma non si capisce perché non siano tutti lì a cercare di negoziare. Nessuno sta negoziando, nessuno vuole negoziare, bisogna distruggere un po’ di più per poi ricostruire e tenere gli stati non in guerra in tensione con la minaccia della guerra atomica, perché c’è anche questo. Perché niente cambi. Perché tanto arriva l’atomica, cosa vuoi cambiare i rapporti tra i sessi e cose così. Quindi c’è una situazione internazionale che è drammatica, ma chiara. Sappiamo benissimo che questa è la forma che serve al capitale per rigenerarsi, basta seguire le geografie delle guerre, l’ultima è qui perché dobbiamo stare sotto controllo. C’è una contemporanea crisi finanziaria, che porta inflazione, causata dalla guerra ma incentivata anche dai capitali finanziari perché le bollette non sono il frutto della guerra ma sono il frutto delle rinegoziazioni di Amsterdam, mi pare che ormai la cosa sia chiara. Dentro questo quadro cosa sta succedendo? Questo a me fa veramente paura: per evitare o per fare in modo che non ci siano rivendicazioni, richieste di cambiamento, richieste di riconoscimento – per esempio, di quel lavoro gratuito fatto o prestato, o richieste di aumenti salariali da parte di chi lavora in maniera precaria o poco salariata – succede che c’è una esplosione delle destre. Ho veramente l’impressione che tutti temano che il patto sociale non tenga, e che la gente proprio non ne possa più, e che tutte queste iniziative servano da contenimento alla paura di un’esplosione che, in realtà, però non c’è.  Probabilmente è una strategia preventiva, che non mi fa pensare proprio a niente di buono. Il che significherà probabilmente per le donne la riproposizione di un modello o riproduttivo, stai a casa, fai figli, oppure competitivo, quelle che vincono sono brave perché si battono come gli uomini e per questo sono apprezzabili. Non è una cosa che mi entusiasmi, nel senso che vedo poche vie di uscita – guardo alle giovani, perché qui se non ci pensano loro… Non si tratta di costruire delle teorie, le teorie le abbiamo, sono le pratiche che mancano. Discuto con le ragazze, più o meno giovani, abbiamo analisi fantastiche, siamo bravissime, dopo di che? È il dopo che mi manca.

L. Chistè, A. Del Re, E. Forti, Oltre il lavoro domestico. Il lavoro delle donne tra produzione e riproduzione, Ombre Corte, Verona 2020;

A Del Re, Il lavoro di riproduzione e il mercato, in B. Busi (a cura di) Separate in casa, Ediesse, Roma 2020, pp. 37-59;

Idem, Produrre in assenza di corpi, in Aa.Vv. L’enigma del valore, dei corpi perduti, dei corpi ritrovati, 2020, in effimerma.org, pp. 31-42, https://effimera.org/ebook-lenigma-del-valore-a-cura-di-cristina-morini/;

Idem, Cura e riproduzione sociale, in C. Giorgi (a cura di) Welfare. Attualità e prospettive, Carocci, Roma 2022, pp.201-215;

Intervista di Anna Curcio ad Alisa Del Re, «Dare un’altra direzione. Oltre il lavoro domestico, oltre la pandemia», in Machina-deriveapprodi.com, 18 dicembre 2020 https://www.machina-deriveapprodi.com/post/dare-un-altra-direzione.