Conflitti,  Lavori,  Sociale

Il potere costituente dei movimenti

L’erosione dei diritti acquisiti dai lavoratori negli anni Settanta è stata la cifra che ha caratterizzato tutta la Seconda Repubblica. Tutti i governi, nessuno escluso, ne hanno rosicchiato una parte per farsi belli con il padronato. Da questa erosione è nato anche il disprezzo per il lavoro intellettuale, causando lo spreco immondo di capitale umano che vediamo nella continua fuga di giovani altamente scolarizzati. La flessibilità era quella del pacchetto Treu, 1996, oggi è gig economy, che forse non è la forma estrema di precariato, ma piuttosto la cancellazione del concetto di lavoro. Cioè di quel qualcosa che definisce un’identità sociale, che rimanda a un progetto di vita, che costituisce il tessuto, il corpo di una società. E quando quel tessuto si slabbra in milioni di individui isolati, senza riferimenti, senza legami, è la metastasi.

Officina Primo Maggio passa dal cartaceo al digitale. Un nuovo percorso dunque, ma rimane quanto si era detto all’inizio: noi non ci occupiamo di lavoro, ma di conflitti sul lavoro e quindi di conflitti tout court, cioè di manifestazioni di consapevolezza, di maturità, di dignità di donne e uomini che lavorano. È un luogo comune che oggi il conflitto, nei termini di un conflitto di classe, sia scomparso. Quelle manifestazioni che per mesi hanno invaso le piazze di Parigi non correvano forse sul filo dei rapporti di produzione? Non sono stati i sindacati e poi i giovani il motore di quella protesta? E le settimane di sciopero con cui la Writers Guild of America ha paralizzato tutto l’apparato del broadcasting, dello streaming, tutto Hollywood, non sono forse un conflitto sulle condizioni di lavoro? A fare un elenco, a metterci i ferrovieri o i portuali tedeschi, i camionisti lituani, senza dimenticare i magazzini della logistica in Italia, non sembra proprio di avere di fronte un paesaggio totalmente pacificato.

«Sì – possono obiettarci – ma intanto alle elezioni vince sempre la destra, in Italia, in Spagna, dappertutto». Certo, perché sono due facce della stessa medaglia. Quando sul terreno della democrazia parlamentare, sul terreno costituzionale, la rappresentanza di una “sinistra”, come tutela dei ceti più deboli, scompare, non rimane che il terreno diretto del rapporto tra capitale e lavoro come unica forma di “pratica politica”. Se da questa conflittualità sociale possa nascere un nuovo progetto politico è questione tutta da discutere.

Questo ci porta però a fare una riflessione sulla valenza della nostra Costituzione, quella nata dalla Resistenza. È in vigore formalmente ma in realtà è stata abrogata nei fatti. Dice per esempio che siamo una repubblica fondata sul lavoro. Ma siamo certi che l’Italia oggi sia uno stato dove il lavoro è un valore fondante? Siamo onesti, sarebbe l’ora di dire: quella Costituzione è un feticcio, noi, più che esserle fedeli, diamo la caccia ai suoi assassini. Una nuova Costituzione sarà possibile scriverla solo quando movimenti di massa come quelli che vediamo in Francia troveranno la forza di imporsi come potere costituente. Tra l’altro, il problema delle libertà civili è stato spostato su un altro terreno, la Costituzione del 1947 era nata per proteggerci dai tiranni criminali, oggi come facciamo a sottrarci alla dittatura del web, all’occhio che scruta ogni nostro messaggio, ogni nostro pensiero?

C’è l’inflazione, ma non c’è la spirale prezzi-salari. I meccanismi tradizionali di riequilibrio sono saltati, perché i sindacati non hanno avuto la forza (o la volontà) di difendere i salari (unico paese avanzato in Europa), perché non ci sono più contratti di lavoro con validità generale (erga omnes), perché in Italia ci si ostina a non introdurre il salario minimo di legge: l’inflazione non può che tradursi in un drammatico peggioramento delle diseguaglianze, se quella generale è all’8%. quella dei beni di prima necessità (alimentari) è al 12%. Aggiungiamo una politica fiscale dell’attuale maggioranza che favorisce i redditi più alti, l’eliminazione del reddito di cittadinanza…

Un altro luogo comune è la contrapposizione tra lotte sindacali e lotte sui diritti civili. I giovani, si dice, sono molto più sensibili alla non discriminazione di genere, di sesso, sono molto più interessati all’ambiente. E allora vale la pena forse ricordare – visto che dentro Officina Primo Maggio c’è anche chi ha la memoria lunga – che la rivolta delle donne del femminismo anni Sessanta e Settanta è andata di pari passo con il protagonismo femminile durante gli scioperi alla Siemens, alla Face Standard, alla Borletti, nell’industria delle confezioni, nelle lavorazioni a domicilio, in migliaia di altre fabbriche. Il cosiddetto operaio-massa era anche donna. E la stessa dinamica si è verificata sul terreno dell’ambiente: sono state le lotte contro la nocività alla Montedison, in centinaia di altre fabbriche, chimiche e non, è stata la difesa operaia della propria integrità fisica, a insegnare a tutti che questo modo di vivere e di produrre porta diritto alla distruzione del nostro habitat. Parlare di contrapposizione tra diritti civili e lotte sindacali dimostra oltretutto una totale incomprensione di qual è la sostanza della nuova composizione di classe. Incomprensione che talvolta si avverte anche nel vasto arcipelago antifascista.

Per questo forse sarebbe opportuna anche una chiarificazione all’interno di questo arcipelago, perché, se non si capisce la mentalità e la condizione di coloro che sono nati al di fuori del perimetro del diritto del lavoro, non sarà mai possibile una lotta anticapitalista nell’era della globalizzazione. E per capire di cosa stiamo parlando basta ricordare quanti pregiudizi ancora si portano dietro certe componenti, che vorrebbero essere anticapitaliste, sul lavoro autonomo. Dopo vent’anni che esiste un’associazione come Acta con i suoi addentellati internazionali, ancora c’è qualcuno che fa difficoltà a capire la condizione dei lavoratori della conoscenza, ai quali il termine “precariato” sta molto stretto, perché il loro problema è il valore di mercato delle competenze non l’instabilità occupazionale. Basta vedere come i traduttori di Acta hanno affrontato il caso “Open to Meraviglia” in rapporto al problema delle nuove tecnologie rispetto a illustri esponenti della cultura che ci hanno visto solo un caso di buono o cattivo gusto.

Iniziamo dunque la nostra nuova vita digitale insistendo sulla nostra specificità. Che è quella, lo ribadiamo, di voler essere un supporto, di volere dare voce a coloro che sono nati fuori dal perimetro del diritto del lavoro, a coloro cui non è dato godere di diritti nel rapporto di lavoro, un rapporto concepito oggi come atto unilaterale di magnanimità del capitale (si pensi al welfare aziendale). «Non sei contento che ti do del lavoro? E ti pago pure. Cosa vuoi di più?» Dare voce a coloro che non sono nella condizione materiale di servirsi delle tutele che il diritto del lavoro prevede (chi ricorre al giudice per un credito di 300 euro? Magari per difendere un posto di lavoro a tempo indeterminato vale la pena, ma per i compensi non pagati di un lavoretto chi si può permettere un avvocato?).

Un’altra battaglia è urgente sul terreno che, per comodità, chiameremo del “revisionismo storico”. Non è possibile giocare sempre e solo di rimessa! Rintuzzare, contestualizzare, correggere, ristabilire la verità…sempre in difesa. Ieri sulle foibe, oggi su via Rasella, domani sulle colonie, dopodomani…. Non sarebbe il caso di dire invece: «Questo è l’evento storico con cui chiamiamo tutti a confrontarsi? Questa è la nostra giornata del ricordo o della memoria o di che diavolo volete…». È il 10 giugno 1940, entrata in guerra dell’Italia. L’Italia è entrata in guerra aggredendo un paese storicamente fratello, poi ha aggredito l’Egitto, la Jugoslavia, l’Albania, la Grecia, la Russia…Tutti paesi che non le portavano alcuna minaccia, che non le contestavano nemmeno il possesso delle colonie. Italia paese aggressore. Ma a fianco di chi? Per dare manforte a chi? A uno dei peggiori criminali della storia. Per dare manforte a costui Mussolini e il fascismo hanno mandato alla morte duecentomila italiani. Fossero caduti per una nobile causa, per difendere la patria, no, sono stati sacrificati per proteggere le spalle di un infame assassino! Invece di mettere tutti con le spalle al muro su questi fatti incontestabili, siamo ancora lì che dobbiamo difendere Eric Gobetti sulle foibe. Anche la memoria della Shoah ci siamo fatti soffiare da sotto il naso. Non è una dimostrazione d’insipienza?

Siamo convinti che anche la battaglia sulla memoria è più efficace immergendosi nei movimenti di protesta e di lotta, facendo tesoro delle loro invenzioni, sapendo cogliere il potere costituente dei loro messaggi. Perché in tutti i momenti di rivolta contro i “rapporti di produzione” c’è sempre un messaggio profondo, che va alla radice delle cose, un messaggio implicito che noi dobbiamo saper cogliere e restituire ai movimenti come nuova carica per andare avanti. Composizione sociale e politica di classe che diventano general intellect. Secondo la tradizione operaista, che ricorda a tutti che l’antifascismo o è anticapitalismo o non è.

In coerenza con queste premesse apriamo la nuova fase di Opm con due contributi di Bruno Cartosio sulla gig economy e con un’intervista a Alisa Del Re, donna che, anche lei, ha lunga memoria ed è stata testimone di almeno mezzo secolo di soggettività femminile dentro la società, dentro la politica, dentro la ricerca e dentro il lavoro.