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Gig work tra passato e futuro

Puoi leggere un altro contributo dell’autore sul tema: Il gig work: lavoro autonomo o dipendente? Fatti privati o destini collettivi?

A ogni epoca i suoi precari, e sempre con gli Stati Uniti a tracciare la linea. Nel “libero mercato del lavoro” creato dalla combinazione di attacco neoliberista e tecnologie digitali, il lavoro precario ha anche cambiato nome: gig work. Ha preso a prestito l’etichetta dal mondo dello spettacolo, dove indica il “numero” che un attore senza compagnia è chiamato a fare se si ha bisogno di lui e per il quale è pagato. Chiamare gig questa modalità di lavoro occasionale, intermittente evoca la leggerezza dei palcoscenici, quasi che montare un armadio o guidare la propria auto per conto di qualcuno fosse come recitare una parte, suonare un pezzo o cantare una canzone. Il gig work è lavoro precario basato su rapporti a tre: le corporation che gestiscono le attività, gli individui che richiedono un servizio occasionale, le persone che prestano la loro opera a chiamata, senza vincoli contrattuali, per un compenso pattuito con l’azienda-piattaforma cui si rivolgono gli utenti tramite una “app” condivisa. Per questo le corporation-piattaforme cui i gig workers fanno capo classificano i prestatori d’opera come “lavoratori autonomi”, self-employed, invece che dipendenti, employed, a cui dovrebbero garantire un salario e tutti i benefits e le coperture assicurative e previdenziali che il rapporto di lavoro regolare porta con sé.
Le aziende eponime del gig work sono nate nella San Francisco dei ricchi: Uber e Lyft, rispettivamente nel 2009 e nel 2012, e prima ancora TaskRabbit nel 2008. Dopo quegli inizi il successo delle “piattaforme” e del loro modello di funzionamento è stato fulmineo. La grande crescita della domanda di gig workers, le cui prestazioni sono poco costose per le aziende e per gli utenti, hanno mutato i rapporti dei lavoratori con le stesse piattaforme. Non senza equivoci e ambiguità: per una parte di loro – in particolare per autisti e corrieri – la frequenza nella ripetizione delle prestazioni per una stessa piattaforma ha finito per ricalcare spesso rapporti di lavoro tradizionali. Ma senza riconoscimento formale: veri e propri mestieri e rapporti di dipendenza, che però avvengono al di fuori delle norme previste dalla legge su paghe, orario, coperture e responsabilità dei datori di lavoro. Le rilevazioni sondaggistiche dicono che sia alle piattaforme, sia agli utenti, sia alla metà dei prestatori d’opera, a ognuno per ragioni sue, il gig work va bene così. Tuttavia, contro la costrizione alla disponibilità pressoché perenne a cui i lavoratori sono chiamati dalle aziende, gli altrettanto perenni rischi, costi e precarietà a proprio carico delle condizioni di lavoro – le altre facce meno simpatiche della flessibilità e dell’autonomia individuale, vera o falsa che sia – l’altra metà dei gig workers ha dato vita a proteste e spinte rivendicative e iniziative per la regolazione legislativa della falsa autonomia dei singoli. I loro comportamenti e la loro condizione lavorativa e sociale sono stati oggetto di indagine da parte di enti e università.
Nel 2014, quando ormai nascevano come funghi le nuove piattaforme che «coniugavano individui sottoccupati con lavori occasionali», la giornalista Sarah Jaffe ne registrava sul Guardian l’intrinseca ambiguità: esse «attingono all’esistente bisogno di un reddito qualsiasi in un’economia sempre più costruita su lavoro a basso salario, o niente lavoro, e rispondono a un desiderio reale di flessibilità presente nei lavoratori.» Jaffe guardava a siti come TaskRabbit, l’antesignana nata per fornire “aiutanti” in grado di svolgere compiti come montare e smontare mobili, fare traslochi, consegne, pulizie e altri lavori domestici. L’obiettivo dichiarato di quella piattaforma, nelle parole del suo amministratore delegato, era «rivoluzionare il mondo del lavoro»; più semplicemente, invece, come emergeva dalle testimonianze sintetizzate dalla giornalista, la sua logica operativa era: frammentare il lavoro, isolare i lavoratori mettendoli uno in competizione con l’altro e pagarli il meno possibile. E Colin Crouch, nel 2019: nella «menzogna che sta al cuore della gig economy […] le aziende piattaforma raccontano ai loro lavoratori che sono imprenditori autonomi mentre in realtà sono “rotelle” subordinate e pesantemente monitorate di una grande macchina per generare profitti.»
La macchina cui Crouch si riferisce è la digital economy sulla quale, dopo la Grande recessione del 2008, gli apologeti riponevano grandi promesse. L’economia digitale, cioè «i miliardi di connessioni online» che quotidianamente mettono in contatto tra loro persone, attività economiche, macchine, dati e processi. Un presente che ha in sé il futuribile prossimo. Secondo Deloitte, «la spina dorsale dell’economia digitale è la iperconnettività, cioè lo stato di crescente interconnessione tra persone, organizzazioni e macchine che proviene da Rete, tecnologia mobile e Internet delle cose. L’economia digitale prende forma e mina alla radice le nozioni convenzionali su come le imprese funzionino e interagiscano e come i consumatori ottengano servizi, informazioni e beni.» Nel 2019, l’Adobe Communication Team definiva l’insieme delle attività «supportate dalla rete e altre digital and communication technologies come un’economia «guidata dai dati, caratterizzata dalla possibilità di raccogliere, usare e analizzare massicce quantità di informazioni al fine di fornire esperienze più significative e personalizzate.» Le nuove tecnologie informatiche hanno reso più accessibili in tempo reale le transazioni e le analisi dei dati: «Lo Internet delle cose, l’intelligenza artificiale e l’automazione fanno sì che i dati economici vengano raccolti e analizzati come transazioni ed eventi. Il che può ridurre gli effetti negativi prodotti dalle oscillazioni nella domanda nella catena delle forniture, mentre fornisce informazioni accurate che potenziano i processi decisionali dei dirigenti» grazie all’accresciuta possibilità di prevedere il futuro e indirizzarlo. E infatti la prassi rapidamente adottata dai dirigenti aziendali è puntare sull’utilizzo del digitale per il raggiungimento degli obiettivi primari delle imprese: l’aumento dei ricavi e dei profitti, l’incremento dell’efficienza operativa, la riduzione dei costi.
Per esplorare il nuovo territorio lo Aspen Institute organizzò nel 2015 un proprio gruppo di ricerca con l’obiettivo di indagare «la promessa delle opportunità e il futuro del lavoro.» Le esigenze e prospettive di dinamicità che la tecnologia offriva al capitale erano messe sulla bilancia con le altrettanto legittime, ma troppo spesso frustrate aspettative di ricompensa economica e sicurezza sociale del lavoro. Nel rapporto finale – pubblicato con un titolo ambizioso: Verso un nuovo capitalismo – la crescente nuova precarizzazione del lavoro e la sua interna contraddittorietà erano presentate come cruciali. Tanto che un anno più tardi lo stesso Istituto e lo storico Institute for Workplace Studies della Cornell University davano vita a un progetto di ricerca e raccolta dati sul passato e il futuro del lavoro, il Gig Data Hub, finalizzato a «fornire informazione ampia e accessibile a chiunque sia interessato a meglio conoscere gli obiettivi e la natura dell’odierno lavoro autonomo (independent) e intermittente (gig).»
Nell’attuale diversificazione dei servizi offerti il gig work si presenta come un’evoluzione del “vecchio” precariato fatto di occupazioni saltuarie e a tempo parziale o limitato in cui è l’azienda che fissa gli orari di lavoro e fornisce i locali e i mezzi di produzione a chi vende la propria forza lavoro. Le differenze rispetto ai vecchi modelli stanno nelle novità rese possibili dalle innovazioni tecnologiche, cui si collegano le trasformazioni nella collocazione del lavoro nella società, la svalutazione delle specificità di mestiere dei singoli e l’estraneità di gran parte del gig work alle vigenti leggi che regolano il mercato del lavoro e impongono oneri a carico delle imprese.
Le figure su cui si è costruita l’immagine-tipo del nuovo lavoratore “autonomo” e flessibile sono stati gli autisti (drivers) a chiamata di Uber e subito dopo di Lyft, le due aziende che ancora oggi dominano e si dividono il loro mercato specifico. Non c’è dubbio che sia attraente la convenienza di ricevere un colpo di telefono invece di sbattersi per cercare un lavoro qualsiasi, la possibilità di sommare gigs a un altro lavoro più o meno stabile per aumentare il proprio reddito, il privilegio di poter decidere se si è disponibile o no e per quanto tempo. La momentanea prestazione ha luogo con mezzi propri e altrove rispetto alla sede dell’azienda che gestisce il sistema ed è messa in moto dalla chiamata della piattaforma. Poi il guidatore di Uber e simili – rimanendo al tipo originale – si siederà al volante della propria auto, pagandone di tasca sua assicurazione, carburante e usura, per portare qualcuno da un luogo all’altro della città. Per altri la prestazione sarà diversa – i fattorini useranno la bici e i traslocatori il furgone, mentre i dog-sitter vanno a piedi… – ma la triangolazione tra piattaforma, utente e prestatore d’opera è sempre la stessa.
La pratica del gig work si è estesa quasi subito ad altre piattaforme e altri settori di attività. Quando ancora ci si stupiva della rapidità con cui la gig economy si stava espandendo, la si illustrava elencando i nuovi “autonomi”: lavoratori del piccolo commercio, fattorini vari e addetti alla spesa e alle consegne, uomini di fatica e donne delle pulizie, cuochi, domestici e badanti, babysitter e dog-sitter, fino a includere – già alla metà del decennio 2010-20 – anche appartenenti al «mondo delle professioni specialistiche: infermieri e medici, insegnanti, programmatori, giornalisti, esperti del marketing e…sì, anche avvocati.» Così scriveva la studiosa californiana Orly Lobel nel 2016 in una relazione all’Università di San Diego il cui oggetto era proprio il problema giuridico della classificazione dei nuovi prestatori d’opera. Infatti, anche se sono evidenti le diversità di fatto tra la prestazione di un autonomo reale (self-employed o independent contractor, o freelancer) e quella di un falso autonomo o di un dipendente (employee), la questione della classificazione si offre a una varietà di interpretazioni e soprattutto di interessi in gioco, di costi e di benefici per le piattaforme e per gli stessi gig workers.
Questi ultimi, oggi, sono milioni. Nel 2018, prima della pandemia, Gallup stimava che il 36 per cento di tutti i lavoratori negli Stati Uniti – circa 57 milioni di persone – erano gig workers. Le sue stime erano inclusive e abbracciavano tutti quelli che sommavano secondi o terzi lavori alla loro occupazione primaria, «dai lavoratori delle piattaforme (come Uber o TaskRabbit) agli autonomi freelance, agli infermieri a contratto, ai tempi parziali.» Nel 2021, in una ottica più restrittiva, il Pew Research Center restringeva al 16 per cento la quota di donne e uomini «che hanno guadagnato denaro tramite una piattaforma gig online in almeno una delle seguenti attività: guida per una app che procura le corse “tassistiche”; acquisto o consegna della spesa per conto di terzi; svolgimento di servizi domestici come pulizie della casa, sistemazione dei mobili, ritiro della roba in lavanderia; consegna di cibi per conto di ristoranti o di negozi prenotata tramite app; impiego del veicolo personale per la consegna di pacchi richiesta tramite app o siti come Amazon Flex; altri servizi di natura analoga a quelli elencati.»
I primi a essere investiti dall’onda anomala della nuova precarietà del lavoro nell’economia digitale sono stati i territori bassi e già malsicuri del lavoro manuale: maschi e femmine in un quasi equilibrio; in prevalenza latinoamericani, seguiti da neri e asiatici e, a distanza, bianchi; soprattutto giovani compresi tra i 18 e i 29 anni appartenenti alla lower class. Poi l’onda è arrivata alle terre alte delle professioni, come si è detto. «Molti professionisti,» scriveva Forbes nel 2022 con intenti rassicuranti, «continuano ora a offrire gli stessi servizi che offrivano dal posto di lavoro regolare, salvo che ora lavorano per sé stessi.» Ma l’onda che è arrivata ai professionisti aveva perso buona parte della sua forza distruttiva; cavalcarla, per loro, è stato meno arduo che per tanti altri. E naturalmente non sono loro le prime figure sociali che vengono in mente quando si pensa ai gig workers. La pandemia ha ulteriormente alterato il quadro sociale generale, privando del lavoro milioni di persone e approfondendo le disuguaglianze. A molti degli occupati stabili venne offerto-imposto il telelavoro. Nell’autunno 2021 Gallup rilevava che quasi metà degli occupati a tempo pieno era in home work e che la percentuale delle giornate così lavorate è schizzata dal 5 al 60 per cento all’inizio della pandemia (è scesa poi progressivamente, stabilizzandosi intorno al 25 per cento nel 2022). Invece gli occupati nei “lavori necessari”, stabili o meno, dovevano restare al lavoro nei servizi e trasporti pubblici, negli ospedali, nei supermercati (spesso contagiandosi, come hanno detto le statistiche). E nel 2020-21 i redditi dei part-time, precari e saltuari diminuivano o crollavano.
I due terzi dei white collar stabili lavoravano da casa e nove su dieci di loro non solo prevedevano che il telelavoro sarebbe continuato nei mesi futuri, ma esprimevano la speranza che quell’arrangiamento lavorativo, grazie a cui la riduzione delle spese fuori casa equivalevano a un aumento di paga, fosse prolungato nel tempo a venire. E mentre una quota di lavoratori si dichiarava intenzionata a dimettersi dal posto di lavoro se gli si fosse richiesto di rientrare stabilmente in sede, molti altri erano a favore della soluzione ibrida, con parte del tempo di lavoro in sede, parte a distanza. Questo non era gig work, ma in un modo o nell’altro, l’allontanamento forzato dal lavoro e dai luoghi di lavoro apriva ulteriori spazi di legittimazione anche per l’idea base e la pratica del gig work: dalla parte dei lavoratori, prospettive di utilizzo flessibile del proprio tempo e di “liberazione” dal posto di lavoro vincolato agli orari fissi e ai controlli gerarchici, disagi, costi e tempi morti del pendolarismo; dalla parte degli imprenditori, l’opportunità di avere prestazioni lavorative a basso prezzo perché sgravate ora del carico delle responsabilità aziendali, dei costi di assicurazioni e pensioni e di manutenzione degli impianti. Le differenze sono significative. La grande maggioranza degli oltre venti milioni di licenziati, sospesi o non utilizzati nel biennio della pandemia apparteneva alla fasce sociali più basse, i cui redditi di partenza erano al di sotto o poco al di sopra della linea della povertà. Molte persone e famiglie furono salvate dai sussidi straordinari istituiti dalle amministrazioni Trump e Biden a partire dal marzo 2020 (Cares Act e Rescue Act, per 5,1 miliardi di dollari complessivi) e dalle poche forme di gig work praticabili nella socialità ristretta. Ma su un altro piano, l’espansione del telelavoro e dei consumi online spianò la strada della “uberizzazione” delle nuove tipologie occupazionali diverse dal guidare un auto o fare una consegna.
Poi, ai primi segni che il peggio si stava allontanando (prima ancora della vera e propria ripresa economica), nel mondo del lavoro avvenne l’inatteso: il passaggio dalla sofferenza all’insofferenza. Il primo scatto di reazione fu la vasta sollevazione sociale seguita all’omicidio poliziesco di George Floyd del maggio 2021, poi vennero la crescita di conflittualità nel lavoro, che nell’autunno dello stesso anno fu salutata con l’etichetta mediatica di Striketober, ottobre degli scioperi, e i milioni di abbandoni dei “vecchi” posti di lavoro – la Great resignation – da parte di persone che speravano di trovare qualcosa di meglio retribuito nel dopo recessione, o che intendevano mettersi in proprio e diventare freelancer, o ancora che pensavano al gig work come a una opportunità per rispondere, almeno nell’immediato, ai propri bisogni elementari. Nel 2020, secondo Gallup (che citava il Ministero del Lavoro), il 48 per cento degli americani adulti – la percentuale più bassa dal 1983 – erano occupati a tempo pieno e poco più della metà di loro era in cerca di un altro posto di lavoro.
Altrove abbiamo messo in evidenza come il risveglio di combattività nei luoghi di lavoro – lontana da quella dei momenti alti, e tuttavia rottura della «calma piatta» dei primi anni Dieci – e l’abbandono del posto di lavoro sgradito si possano vedere come due facce della stessa insofferenza. Altri segnali, abbiamo sottolineato, puntavano nella stessa direzione: l’aumento, rilevato dai sondaggi nel 2022, degli atteggiamenti favorevoli nei confronti dei sindacati e di disponibilità a farne parte, se e quando fossero presenti nei luoghi di lavoro; l’aumento delle richieste di autorizzazione a votare per introdurre l’organizzazione sindacale nelle aziende; la crescita delle denunce per azioni antisindacali contro le imprese, della militanza di base e dei tentativi di organizzazione sindacale e parasindacale o solidaristica contro l’assolutismo imprenditoriale. A tutti questi segni di un ritorno di reattività – inevitabilmente priva di “grandi” progetti, ma tanto più significativa quanto più inattesa – ha risposto l’amministrazione Biden, rifinanziando il National Labor Relations Board (Nlrb) e cercando di far approvare il Protecting the Right to Organize Act (Pro), finalizzato a eliminare le strettoie antisindacali del passato e rendere più facile la sindacalizzazione dei luoghi di lavoro.
In parallelo con la nuova combattività collettiva, mentre tornavano a crescere domanda e offerta di lavoro, venivano messi sempre più in discussione anche il rapporto individuale con il gig work e la contraddizione tra autonomia (largamente falsa) e dipendenza (in gran parte vera, e sottopagata) su cui si reggono l’esistenza e il funzionamento del “libero mercato del lavoro”. Tra i giovani delle minoranze, che costituiscono il 70 per cento di gig workers, il tasso di disoccupazione è più alto (per i neri è doppio rispetto ai bianchi) e il fatto che sia naturale, entro certi limiti, che prendano quello che trovano nel mercato del lavoro, non esclude insofferenze e malcontenti per come sono trattati. È più che probabile che il gig work nei servizi poveri sia più facile da trovare o anche, soggettivamente, sia preferito rispetto al “vecchio” modello di lavoro precario da dipendente, stretto entro i confini rigidi di muri, orari, salari, norme. Per molti di questi giovani la precarietà è condizione normale di vita: il quasi mezzo secolo in cui essi sono nati e cresciuti è quello della sconfitta del più grande ciclo di lotte operaie della storia statunitense (1966-75) e della indocile «nuova razza operaia» uscita dalla stagione dei movimenti. Due generazioni. Se un qualsiasi progetto di ricomposizione è rimasto fuori portata per i tanti che rimanevano a lavorare fianco a fianco, come si può pensare che venga fuori dalle solitudini dei gig workers? Era dunque inevitabile che quei giovani prendessero per buone le promesse del gig work, e che le loro scelte avvenissero nel contesto di questo capitalismo e dell’ideologia dominante dell’individualismo, presentatigli entrambi come garanti di un modello di vita, lavoro e relazioni sociali gratificante, rispettoso dell‘autonomia personale e paradigma certo del “futuro del lavoro”.
Non è mancato chi ha denunciato le trappole del vecchio e nuovo precariato del lavoro nella temp economy e nella digital economy neoliberiste, né chi ha cercato di dirimere a livello istituzionale l’equivoco tra self-employed e employee; ma ad avere la meglio sono stati finora i più numerosi apologeti mediatici del gig work senza distinzioni. Senza la vittoria politica e culturale sul mondo del lavoro e la distruzione delle collettività operaie degli scorsi decenni, di cui le “vecchie” precarietà sono prova, le reazioni e resistenze nei confronti delle nuove precarietà dell’economia digitale sarebbero state maggiori e più pronte. Invece è solo ora che molti tra i gig workers sono entrati in agitazione: dopo avere vissuto l’inganno sulla propria pelle, e anche grazie agli esempi venuti dai lavoratori in subbuglio in tanti luoghi di lavoro di tutti i settori. È di questo che diamo conto nel saggio presente qui a fianco.

 

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