Numero 5. Giugno-luglio 2022

L’occhio della scienza e l’arma della critica

Una recensione dell’ultimo volume di Karl Heinz Roth Blinde Passagiere. Die Coronakrise und die Folgen, pubblicato da Antje Kunstmann nel 2022.

Il volume che Karl ha dedicato alla pandemia (503 pagine, di cui 47 di note e 15 di indici) è uno di quei testi che si fa fatica a credere sia stato scritto da una sola persona, avendo al suo interno sia una puntualissima ricostruzione del diffondersi della Sars-CoV-2, sia una assai estesa ed esaustiva analisi del livello di preparazione degli stati e degli apparati pubblici ad un evento catastrofico di massa, a prescindere dalla sua origine, sia una vasta disamina della gestione materiale della crisi pandemica da parte di quegli stessi apparati, sia un attento esame delle ricadute contemporanee di morbo e misure prese per fronteggiarlo sulla popolazione mondiale scomposta per aree geografiche di residenza, gruppi sociali, classi di reddito, sia infine un abbozzo fatto a caldo (il manoscritto, concluso a maggio 2021, fu poi consegnato per la stampa nel luglio successivo – cfr. p. 11) dell’impatto che la crisi, nel suo complesso considerata, avrebbe potuto avere sugli equilibri demografici, economici, sociali e sanitari degli anni ad essa successivi. 

Ovviamente Karl Heinz gli strumenti per condurre in porto una così profonda analisi multifattoriale ce li ha tutti, a partire dal doppio dottorato che possiede, in medicina e in storia, nonché dalla multiforme attività che ha condotto e che tuttora conduce; attività e percorso tanto intellettuale quanto militante che, su queste stesse pagine, viene illustrato, tanto sinteticamente quanto esaustivamente, da Sergio Fontegher Bologna; strumenti uniti sempre a una non comune capacità di osservare la realtà in modo estremamente critico senza però mai farla sembrare la caricatura di se stessa, cogliendo cioè gli aspetti contraddittori e tutt’altro che lineari che le sono costantemente propri.

Una rapida introduzione (pp. 12-20) dà profondità storica all’analisi, portandoci prima di tutto nell’ambiente nativo dei virus, i quali sono definiti appunto “Blinde Passagiere” (letteralmente: “i clandestini”), cioè esseri viventi che allignano nel mondo animale e si spostano servendosi di altre creature e mutando in continuazione, sì da poter eventualmente fare salti di specie, fino a contagiare gli esseri umani. Un fenomeno molto frequente, ma di cui quasi mai ci accorgiamo, venendo quei virus di norma neutralizzati dal nostro sistema immunitario. Non proprio sempre, però, e quando non succede ecco verificarsi la pandemia.

Per brevità, Roth richiama, delle molte pandemie succedutesi nei secoli passati, in particolare due: la prima è la “morte nera”, la peste, dovuta per la verità a un bacillo, la Yersinia Pestis, che, endemico nelle pulci dei roditori selvatici degli altopiani dell’Asia centrale, nel XIV secolo ne seguì la migrazione, causata dal mutamento del clima che inaridì il territorio. Trasmessosi alle pulci del ratto domestico, poi passato ai pidocchi dei vestiti, il morbo giunse in Kirghizistan per diffondersi in seguito nelle aree limitrofe, causandovi in breve 25 milioni di morti. A metà del Trecento sarebbe arrivato in tutta l’Eurasia e nel Nordafrica. È la peste citata da Giovanni Boccaccio nel suo Decamerone, ambientato infatti nel 1348. Avrebbe ucciso un terzo della popolazione europea del tempo, e più o meno la stessa percentuale altrove, contagiando i sani tramite attraverso l’aerosol generato dalla respirazione degli ammalati. Dopo il 1351 la pandemia cessò, non sappiamo ancora bene perché, ma la peste rimase endemica per secoli, generando periodicamente focolai anche estesi.

La seconda pandemia ricordata è la cosiddetta “spagnola”, generatasi in realtà nel 1918 negli Stati Uniti, nel Kansas, dove era assai diffuso l’allevamento di suini. In questo caso il “clandestino” era un virus del tipo influenzale, uno dei tanti del genere, a cui era riuscito il salto di specie. Inizialmente scambiata dalle autorità per una delle consuete influenze di stagione, anche a causa della tenuità dei sintomi durante la prima ondata, la “spagnola” si sarebbe rapidamente diffusa su entrambe le sponde dell’Atlantico grazie ai trasporti militari statunitensi conseguenti all’intervento di Washington nella Grande guerra, trovando ulteriore alimento nelle rotte marittime percorse dalla flotta britannica, al tempo la maggiore del mondo, che portò il “clandestino” in Africa ed in Asia. A renderlo micidiale fu una mutazione che ne generò una seconda e poi una terza ondata, portando il numero delle vittime a 40/50 milioni (su una popolazione totale di 800 milioni di esseri umani).

In entrambi i casi considerati la diffusione del morbo dipese da diversi fattori: il salto di specie sempre possibile, i mutamenti climatici e ambientali eventualmente intervenuti, la mobilità derivante dal commercio e dai flussi mercantili, nonché da guerre e campagne militari (assai importanti nel caso della peste i movimenti generati dalle spedizioni dell’Orda d’oro mongola; notevole importanza ebbero anche la concentrazione e diffusione della popolazione, le condizioni di vita e di igiene, variabili a seconda della struttura sociale e dell’articolazione in ceti e classi, il presentarsi casuale di fattori autonomi di disagio e stress, quali carestie, cattivi raccolti, esiti di confronti militari prolungati e di successive crisi politico-sociali (caratteristiche queste ultime tipiche del periodo 1918-1920, in cui infuriò la “spagnola”).

A rafforzare questo approccio mi sovvengono alcuni studi che feci in passato sulla diffusione del colera negli Stati sardi di terraferma (Piemonte e Liguria) in età carloalbertina (epidemia del 1837): giunto sia per via di mare (dal porto di Nizza), sia per via di terra (dal Lombardoveneto absburgico), il cholera morbus dilagò seguendo il reticolo stradale del regno e, una volta giunto nei centri urbani, colpì con particolare forza le periferie povere, aggirando invece i centri, dove le case erano in pietra, gli spazi erano più ampi e meno affollati, la promiscuità minore o pressoché nulla.

Un’analisi perciò, quella di Karl, multicausale, in cui diventa prioritario il pesare l’incidenza di ogni elemento se si vuole comprendere la totalità.

Il rischio rappresentato dai coronavirus, famiglia a cui appartiene la Sars-CoV-2, era ben noto (Un evento previsto è il titolo della prima parte del volume, pp. 21-84): ne furono sintomi premonitori le due pandemie, ancorché localizzate, di Sars-CoV(1), manifestatasi in Cina nel 2002/2003 (più nota come l’ “influenza dei polli”), e dieci anni dopo la Mers (Middle east severe respiratory syndrome), che si manifestò nel Vicino Oriente arabo. In entrambi i casi i coronavirus responsabili avevano il loro habitat originario nei pipistrelli, da cui poi erano passati in altri ospiti (nel caso della Mers i dromedari).

Per la Sars-CoV(1), dopo una prima fase in cui le autorità di Pechino cercarono di soffocare la gravità della crisi, esse furono costrette a far ricorso a misure di prevenzione e isolamento; la pandemia fu soffocata, anche a causa dell’elevata mortalità che provocava e ne rendeva quindi più difficoltosa la propagazione, ma costò comunque a Pechino una pesante perdita di credibilità, che sarebbe poi riemersa, aggravata, quasi vent’anni dopo; in Cina comunque la Sars-CoV(1) non sarebbe mai del tutto scomparsa, trasformandosi in una epidemia periodicamente emergente.

Dal canto suo la Mers avrebbe dimostrato una ridotta capacità di estendersi all’apparato respiratorio profondo, finendo col cessare di rappresentare un grave rischio. A emergere in entrambi casi, in seguito alle indagini scientifiche immediatamente condotte, fu una spiccata capacità da parte dei coronavirus coinvolti di mutare le proprie caratteristiche e le proprie modalità d’infezione. Un segnale preoccupante.

Tanto i sistemi sanitari dei singoli stati, quanto le istituzioni sanitarie internazionali erano perciò tutt’altro che ignari di quanto sarebbe potuto accadere, ancorché tale consapevolezza si inserisse in un quadro, delineatosi nell’ultimo trentennio, che tendeva a privilegiare le campagne di vaccinazione di massa rispetto allo sviluppo della medicina preventiva e di base.

Roth non manca di sottolineare la positività e l’efficacia di quelle campagne, grazie alle quali milioni di bambini furono sottratti a morbi in precedenza spesso mortali, ma quell’indirizzo, sostenuto e finanziato in larga parte da fondazioni private in un contesto caratterizzato dal ridursi del finanziamento pubblico sia agli apparati sanitari nazionali, sia all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), avrebbe drammaticamente mostrato i propri limiti con l’esplodere della pandemia da Sars-CoV-2.

Se nel frattempo la ricerca scientifica progrediva anche nello studio dei coronavirus, gli stati non avevano cessato di preparare piani di emergenza per la gestione di catastrofi che comportassero morti di massa e interruzioni nelle reti di connessione proprie della normalità moderna.

Portando ad esempio i casi della Repubblica federale tedesca e degli Stati Uniti, Roth mostra come quei piani fossero stati inizialmente costruiti in vista di una possibile guerra nucleare; solo successivamente, mutato il contesto internazionale, le simulazioni hanno cambiato oggetto, prendendo in considerazione proprio una crisi sanitaria di vaste proporzioni.

Non è perciò vero che le istituzioni non fossero concettualmente preparate a una crisi del genere; di punti critici ne erano però rimasti, e vanno individuati in due direzioni: prima di tutto la tendenza alla razionalizzazione e alla “economizzazione” dei sistemi sanitari, combinata alla logica del “just in time” che si stava parallelamente affermando nella più generale sfera produttiva, ha impedito che si facessero sufficienti scorte di quanto appariva necessario per fronteggiare una futura pandemia, dai disinfettanti a ogni tipo di protezione individuale, in secondo luogo il mantenere fermo, come scenario di una possibile catastrofe, una crisi di eccezionale gravità, con l’esigenza conseguente di far fronte a un numero assai alto di decessi e ricoveri e con il conseguente incombere di un collasso dei sistemi sanitari, scenario desunto dalla precedente ipotesi di un possibile conflitto nucleare e ora trasposto a un futuribile evento pandemico, ha indotto le istanze decisionali politiche e sanitarie a dare la priorità a opzioni radicali quali le chiusure e le quarantene di massa, quei provvedimenti divenuti in seguito noti come lockdown, mettendo di conseguenza in secondo piano provvedimenti quali la protezione dei gruppi sociali più a rischio (cioè gli anziani e i residenti stabili in strutture collettive, spesso essi stessi anziani, e la messa a disposizione in grande quantità di mezzi di protezione individuali).

Né le misure di razionalizzazione e di “economizzazione” delle strutture sanitarie, né le ipotesi di pandemia incontrollabile se non con decisioni draconiane hanno portato necessariamente a conseguenze tutte negative, come Karl Heinz analizza in dettaglio, ma le une e le altre si sono rivelate drammaticamente inadatte a fronteggiare una crisi di media gravità quale quella che si è presentata nel tardo autunno 2019 con la Sars-CoV-2.

Circa la sua genesi (a essa ed alla successiva diffusione a 360 gradi del “clandestino” che la veicola è dedicata la seconda parte del libro, pp. 85-154) Roth ritiene essa vada ricondotta al salto di specie fatto dallo specifico coronavirus, come gli altri endemico tra i pipistrelli in molte aree interne della Cina, fattosi poi “clandestino” in altri animali selvatici, come il pangolino, che consolidate abitudini alimentari e antiche prescrizioni mediche tradizionali cinesi consigliano di consumare; egli esclude che si possa essere trattato di un virus manipolato per scopi militari, non foss’altro per il suo tasso di letalità piuttosto basso in rapporto ai numero dei contagiati, di gran lunga minore non solo rispetto a quello della “morte nera”, ma anche in rapporto ai decessi provocati, in un tempo a noi assai più vicino, dalla “spagnola”; molto improbabile, anche se non del tutto impossibile, egli scrive, la possibilità che si tratti di una “chimera”, cioè di un virus manipolato in laboratorio allo scopo di condurre su di esso attività di ricerca. “Chimere” vengono sì create per motivi scientifici, profilattici e terapeutici, cioè per sperimentarvi farmaci in grado di contrastare l’insorgere delle malattie provocate dai virus stessi, ma le precauzioni assai rigide in genere adottate nei laboratori e le stesse caratteristiche della Sars-CoV-2 portano a ritenere assai poco convincente una sua origine artificiale.

Del tutto comprensibile, invece, ritiene Roth, che tesi del genere si siano diffuse in settori non proprio limitati dell’opinione pubblica, arrivando a coinvolgere anche gruppi sia pur marginali di specialisti medici ed intrecciandosi con le opzioni contrarie ai vaccini ed alle vaccinazioni, opzioni che esistono da quando si dispone dei vaccini stessi, in un contesto in cui non parevano esistere mezzi di difesa dalla pandemia che non fossero l’interruzione radicale di ogni contatto con i propri simili, con tutto l’accumularsi di tensione a cui il miscuglio di paura e interdizioni prescritte dall’alto ha dato origine.

Se il focolaio originario va ricondotto all’area, intensamente popolata e fortemente interconnessa, di Wuhan, in Cina, Karl Heinz non ritiene peregrina l’ipotesi che un secondo e largamente autonomo cluster infettivo si sia sviluppato, negli stessi mesi del tardo 2019, nel Norditalia, in quelle aree della Bergamasca e dell’alta Lombardia in cui subito dopo la pandemia sarebbe esplosa cagionando disastri. La cosa sarebbe confermata dalle differenze genetiche rilevabili e rilevate tra il “clandestino” delle valli bergamasche ed il suo omologo di Wuhan.

Comunque sia, se nel caso italiano il ritardo nella rilevazione dei contagi, al netto degli effetti sicuramente negativi dell’aziendalizzazione spinta della sanità lombarda e dei timori iniziali delle istanze decisionali locali e nazionali per gli effetti a cascata di chiusure tanto rigide, sebbene territorialmente limitate, quanto immediate, le autorità sanitarie e politiche cinesi parvero in una prima fase ripercorrere la strada delle ammissioni tardive e solo parziali già intrapresa, con gravi conseguenze diciotto anni prima, salvo poi svoltare bruscamente verso provvedimenti draconiani che combinavano chiusure estese e tracciamenti obbligatori di massa, ma nel frattempo la pandemia si era estesa a pressoché tutto il pianeta: nel XXI secolo i “clandestini” potevano spostarsi a velocità infinitamente maggiore che nel XIV, e molto superiore anche rispetto a cent’anni prima. La circolazione, che che nel primo caso aveva richiesto anni e nel secondo mesi, era ormai questione di settimane.

Le due sezioni successive dell’opera (pp. 155-224 e pp. 225-296) sono dedicate alle caratteristiche specifiche della pandemia e alle contromisure prese da stati e istituzioni sanitarie sovranazionali; sono pagine talmente ricche di riferimenti puntuali sia di natura tecnico-scientifica, in particolare su terapie ipotizzate ed utilizzate e sui diversi vaccini sviluppati, verificati e poi, qualora efficaci, effettivamente impiegati, sia di impronta sociologico-statistica, in specifico sulle modalità di calcolo dei tassi di mortalità e letalità in diversi degli Stati colpiti dalla pandemia, da renderne pressoché impossibile la sintesi; val però la pena di soffermarsi sul terzo paragrafo, dedicato ad Uno sguardo critico sulla statistica riguardante contagiati, guariti e deceduti, e sulla Comparazione storica con altre pandemie contenuta nel paragrafo quarto, che è opportuno considerare assieme: il paragone tra la letalità delle ondate influenzali verificatesi nel XX secolo e nel primo scorcio del XXI a partire dalla “spagnola” del 1918-20 fino alle due prime ondate di Sars-CoV-2 del 2020-2021 mostra due dati molto significativi: nel primo caso il tasso di letalità (percentuale dei deceduti sui contagiati) fu tra il 7 ed il 10%; con l’influenza detta “asiatica” (1957-1958) fu tra le 0,3 ed il 2,2%; con la pandemia “Hong Kong” (1968-1970) fu dello 0,1-0,3%; con l’ultima pandemia influenzale pre Covid (2017-2018) si attestò sullo 0,3%; nelle due prime ondate di Sars-CoV-2 raggiunse lo 0,5-0,8% (cfr. tabella alla p. 218, e il testo precedente e seguente). Va da sé che gli intervalli anche cospicui considerati dipendano dai dati disponibili, la cui forbice tra massimi e minimi è particolarmente ampia per l’ “asiatica”.

In altri termini, la pandemia attualmente in corso è parecchio più grave di quelle influenzali che l’han preceduta (con la possibile eccezione dell’ “asiatica” se si considerano il dato minimo per i contagiati e il dato massimo per le vittime),  ma parecchio meno letale della “spagnola”.

Dati questi che, se globalmente considerati, avrebbero consigliato strategie di intervento preventivo presumibilmente diverse da quelle realmente adottate, esaminate in dettaglio queste ultime nella parte quarta: Le contromisure (pp. 225-296): si sarebbe verificato il prevalere delle chiusure, ancorché con modalità assai diverse da quelle utilizzate in Cina, di fatto a scapito di modalità mirate quali quelle poc’anzi citate (protezione dei gruppi di cui era emersa la particolare vulnerabilità di fronte al virus: anziani e residenti in collettività strutturate, e messa a disposizione immediata e su grande scala di mezzi di protezione individuale, come mascherine e disinfettanti).

Ovviamente, viste da un lato la propensione della Sars-CoV-2 a contagiare in modo particolare gli anziani e a procurar loro danni assai gravi all’apparato respiratorio, dall’altro la concentrazione di persone con tali caratteristiche in strutture comunitarie, oltre a fattori di altro genere inerenti la struttura delle diverse società, gli effetti della pandemia furono parecchio diversi a seconda della struttura demografica dei diversi paesi colpiti, molto forti nell’area transatlantica e comunque nel Nord del globo, minori altrove, come ad esempio in Africa.

Accanto alla drammatica carenza di dispositivi di protezione individuale, che, quando disponibili e usati spontaneamente dalla popolazione, furono effettivamente in grado di attenuare il contagio, carenza dovuta alla già citata politica del “just in time” la quale presuppone il cronometrico funzionamento di catene logistiche lunghe, messe in questo caso in difficoltà dalle chiusure di grandi spazi urbani, industriali e portuali, con l’ovvia necessità di riconvertire in tempi rapidi linee produttive pensate per tutt’altro, giocò un ruolo sicuramente negativo l’aspettativa, da parte delle autorità statali ed internazionali, di una pandemia assai più catastrofica di quella, pur assai incisiva, che era in corso.

Come già si era verificato in occasione della crisi del 1929, previsioni sbagliate da parte delle istituzioni chiave (in quel caso le banche centrali) avrebbero finito col determinare reazioni che aggravarono, invece di attenuare, lo stato delle cose.

Furono infatti scenari come quelli che erano stati oggetto delle simulazioni prima ricordate, rielaborati in modelli matematici che ipotizzavano contemporaneamente un numero di casi gravi assai più alto di quanto poi sarebbe accaduto e il contemporaneo collasso dei sistemi sanitari, con il conseguente aumento di decessi di sofferenti per altre cause, decessi dovuti in questo caso alla mancanza di cure, a far prendere la strada delle chiusure di massa, dando così spazio al coagularsi di proteste di varia natura e diversamente motivate, dalla necessità, nei paesi più poveri, di procurarsi il necessario per  vivere nonostante il lockdown, al rifiuto, da parte di settori della popolazione nei paesi ricchi, di accettare limitazioni al modo di vita abituale.

Si poteva far di meglio? Forse sì, anche se a determinare le decisioni che furono prese non ci fu alcun piano preordinato, ma il comporsi di tendenze di lungo periodo, previsioni poi rivelatesi fallaci, timori in sé non infondati, lacune preesistenti che solo l’erompere della crisi avrebbe reso evidenti.

Proprio sulle chiusure (i lockdown) si concentra la quinta parte del libro (pp. 297-348), esaminandone, nei particolari, radici e conseguenze, le une e le altre qui già in precedenza riassunte.

Di notevole interesse per una comprensione del nostro presente, la sesta ed ultima parte (pp. 349-440), dedicata alle Conseguenze della crisi; a partire dalla considerazione che non fu la crisi pandemica a stroncare un ciclo economico in ascesa, come da molti è stato sostenuto, quanto piuttosto essa rappresentò un fattore di rapida accelerazione di un ristagno già in corso dal 2018, a dimostrazione di quanto fragile e gracile fosse stata la ripresa dopo la crisi economica e finanziaria del 2007-2008 (p. 407 e ss.).

Ovviamente il catalizzatore, inaspettato per quanto, lo si è visto, non inatteso, rappresentato dalla pandemia influenzò significativamente le risposte sia delle istituzioni, sia della sfera economica, produttiva e finanziaria, sia della società in toto; ne sarebbe scaturito un riassetto sia delle catene del valore, sia del mercato mondiale, sia delle modalità di erogazione della forza-lavoro (cosiddetto smart working là dove era possibile), sia della propensione degli stati a servirsi della leva della spesa pubblica, mandando (non sappiamo ancora se definitivamente o solo temporaneamente) in soffitta le politiche di pareggio del bilancio e di controllo del deficit pubblico.

Difficile dire, al momento in cui il manoscritto fu dato alle stampe e tanto più oggi, dopo aver vissuto eventi che Karl non poteva ovviamente prevedere come il presentarsi sulla scena di ulteriori varianti, sebbene previste come possibili, della Sars-CoV-2, la conseguente “terza ondata”, le nuove defaillance cinesi cagionate dai deficit della loro politica sanitaria, dall’efficacia opinabile dei loro vaccini, dalle rinnovate scelte di lockdown rigidissimi e molto estesi, e infine il sovrapporsi inaspettato della guerra nell’Europa centrorientale, quale sarà l’assetto del mondo che ne scaturirà.

Nelle pagine conclusive del lavoro Roth, dopo aver ripreso la prospettiva comparativistica di lungo periodo da cui si era inizialmente mosso, richiamando le conseguenze di lungo-medio periodo provocate dalle epidemie del passato, fa presente che

Le crisi pandemiche non hanno mai segnato punti di svolta indipendenti nella storia economica, ma hanno solo rafforzato tendenze di sviluppo già emerse. In secondo luogo, alla fine di tutte le pandemie gravi si sono verificati periodi di depressione più lunghi, con cali talvolta considerevoli della produzione economica. [… D’altro canto] è caratteristico che nella fase di stagnazione successiva alla crisi pandemica sia emerso un nuovo impulso all’innovazione, che dopo qualche tempo è stato ampiamente accettato e ha messo in moto il successivo ciclo di investimenti. Studi recenti sulle conseguenze economiche dell’ “influenza spagnola” del 1918-1920 hanno confermato questi effetti a medio termine. Il periodo di stagnazione degli anni Venti fu in larga misura una conseguenza della pandemia influenzale, a prescindere dagli effetti della Prima guerra mondiale, così come il protezionismo che l’accompagnò. Allo stesso tempo, si intensificò l’impulso all’innovazione tecnologica: tra tutti, fu proprio nelle grandi città statunitensi in cui si praticarono i lockdowns più lunghi e duri che tecnici e scienziati presentarono il maggior numero di richieste di brevetti negli anni successivi (p. 437).

E, proprio in chiusura, Karlo afferma che:

Non è chiaro quando – e se – l’economia mondiale si indirizzerà verso una ripresa duratura. Le sue prospettive sono rese oscure da una crisi sistemica, le cui componenti – pandemie, distruzione continua della natura, catastrofe climatica e mercificazione dei beni comuni – quasi nessuno nega più. È urgente un cambio di strategia. Le lotte sociali dei prossimi anni determineranno se tale cambiamento potrà essere attuato (p. 439).

Su questa conclusione non si può che convenire. Ovviamente, come già più volte sottolineato, Blinde Passagiere contiene ben di più di quanto io non sia riuscito a riassumere in queste righe; bisogna augurarsi una pronta traduzione del volume, magari in una versione ampliata dall’autore che giunga sino ai primi mesi di questo 2022.

Vorrei limitarmi a sottolineare, comunque, l’efficacia del metodo seguito da Karl: i contesti vengono sempre esaminati nella loro complessità, i fattori dei mutamenti e i processi che ne scaturiscono costantemente messi in relazione gli uni con gli altri, le contraddizione sviscerate e il loro potenziale dar vita a conflitti puntualmente colto; non vi è spazio alcuno per complottismi, indignazioni, presunti burattinai o decisori occulti, paccottiglia tutta, quest’ultima, negli ultimi tempi ampiamente – e sciaguratamente – circolante nel lessico e nei discorsi di quella che una volta si definiva la sinistra di matrice e radici nel movimento dei lavoratori per conto terzi.

Karl Heinz Roth ci dà, in questo modo, un’indicazione preziosa, coerente del resto con tutto il suo percorso di studio e militanza politica, di come si debba praticare il pensiero critico: con il massimo rigore ed il massimo di competenze. Lo studioso militante, cioè lo studioso che cerca di leggere la realtà al fine di trasformarla deve essere più bravo e più acuto di chi si limiti il mondo soltanto a contemplarlo. È, del resto, la lezione di Karl Marx.