Genere,  Lavori,  Numero 3. Giugno 2021

Impatto del Covid-19 sul lavoro femminile in Italia. Alcune riflessioni

La categoria di genere ai tempi della pandemia

Se sulla scena pubblica e mediatica il tema donne/lavoro va sempre più acquistando spazio, interesse, attenzione, molto lo si deve agli studi che hanno indagato il mondo del lavoro con un’ottica di genere. Nel muovere da diversi approcci disciplinari – diversi ma unificati dalla condivisione di un medesimo punto di vista: il genere – questi studi hanno prodotto un ricco apparato analitico, generato complesse reti concettuali e interpretative, messo a disposizione una grande mole di dati, conoscenze, narrazioni. Senza questi apporti – è bene sottolinearlo – la nostra sarebbe una riflessione manchevole, incompiuta, non aderente alla realtà. Nel difficile e complicato momento storico che stiamo vivendo, la categoria di genere sta del resto mostrando una volta di più – e forse con rinnovata forza e incisività – di costituire una chiave di lettura fondamentale: per comprendere le diverse problematiche sociali, economiche, culturali generate e/o evidenziate dalla pandemia; per riconoscere la complessità e l’eterogeneità del suo impatto sulla vita delle persone. 

Oggi nel dibattito pubblico, l’aggravarsi delle problematiche dell’occupazione femminile nell’impatto con il Covid-19 ha costituito un potente fattore di ripresa di interesse sul tema donne/lavoro, una ripresa accresciuta e stimolata anche dallo spazio riservato alla parità di genere dal Pnrr. Nel guardare al tema delle diseguaglianze e delle strategie necessarie al loro superamento, in tale dibattito è possibile rintracciare, almeno in parte, il riflesso di analisi fondate su una prospettiva di genere – come per esempio in «Il femminismo dei dati», uscito sul blog ingenere. 

Nell’ambito delle più recenti indagini e riflessioni sul mondo del lavoro declinate sul genere, la prima cosa che possiamo osservare è come queste tendano a ruotare e a incentrarsi su due principali assi tematici. Uno è quello rappresentato dai processi di riorganizzazione del lavoro innescati e/o accelerati dalla pandemia (smart working, telelavoro, lavoro da remoto), sui quali sta sollecitando una diversa interrogazione e problematizzazione in termini di impatto e di ricadute sul lavoro delle donne e degli uomini. Il secondo asse tematico guarda alle problematiche pandemia/disuguaglianze, tema che nella declinazione genere e lavoro viene affrontato a partire dal riconoscimento delle disparità che l’emergenza sanitaria ha effettivamente prodotto e/o rischia di produrre e quelle disparità che non sono state create dall’evento pandemico ma che questo ha semmai esacerbato ed esasperato. 

La lettura del mondo del lavoro con una prospettiva storica e di genere ci consente di fare chiarezza su come l’emergenza sanitaria stia evidenziando gap strutturali e culturali di lungo periodo, in primo luogo riconducibili a nodi, fragilità, ritardi inerenti al mercato del lavoro e al sistema di welfare italiani. Allo stesso tempo, nel provare a valutare l’impatto che la pandemia sta avendo sul lavoro (e sulla vita) delle donne, la prospettiva di genere sta richiamando l’attenzione sulla necessità di mantenere vigile lo sguardo su quelle situazioni in cui la straordinarietà generata dal contesto emergenziale potrebbe trascinarle verso nuovi rischi e pericoli di arretramento. 

Questa specifica forma di sapere costituisce una risorsa culturale fondamentale per un deciso e forte cambio di passo su parità e questioni di genere, un cambio di passo che non può più essere rimandato. Offrire a questo sapere la possibilità di contribuire direttamente al cambiamento rappresenta una sfida, tra le molte che ci attendiamo siano finalmente accolte nel nostro paese. 

L’immagine della “mamma italiana”. Uno stereotipo tanto radicato quanto disatteso

Risale a dieci anni fa la pubblicazione di Italiane. Biografia del Novecento di Perry Willson, studiosa di storia delle donne e di genere presso la University of Dundee (Scozia). È un libro che desidero ricordare perché contiene un’indicazione di prospettiva a mio avviso importante: quella che per guardare alle trasformazioni dei ruoli e delle vite delle donne nel nostro paese è necessario non perdere mai di vista il ruolo giocato da un’immagine fortemente standardizzata e condivisa della figura della madre italiana. Lo stereotipo in questione è quello di una madre forte e generosa, che ama incondizionatamente i propri figli, sempre pronta a sacrificarsi per loro. Uno stereotipo potente e persistente, tanto radicato nella nostra società quanto disatteso nella realtà quotidiana della vita delle donne italiane. Messa su un piedistallo, celebrata per le sue virtù, la “mamma italiana” è stata e continua a essere una madre molto poco aiutata dallo Stato. Il persistere di marcati squilibri nella distribuzione familiare dei compiti domestici e di cura, nella conciliazione tra tempi di vita e di lavoro sono problemi che da tempo rientrano nell’ordinarietà delle esistenze femminili. Che l’Italia non sia un Paese per madri lavoratrici, per riprendere il titolo di un articolo di Chiara Saraceno, non è quindi certamente una novità. 

L’Italia si presenta come un Paese nel complesso ancora piuttosto riluttante ad abbattere uno dei principali cardini su cui si è storicamente retta la società patriarcale, la divisione sessuale del lavoro. Tra i diversi dati che attestano questa persistenza, vorrei richiamare l’attenzione su quelli contenuti nel report Conciliazione tra lavoro e famiglia dell’Istat inerenti alla percentuale di donne che nel nostro paese non hanno mai lavorato per occuparsi dei figli. A emergere rispetto a Ue-28 per l’anno 2018 è un’incidenza tutt’altro che trascurabile e sensibilmente più alta di quella riscontrabile in altri Stati europei – in Italia pari all’11,1 % a fronte del 3,7 % nel complesso dei paesi dell’Unione. Un dato che, collegato al fenomeno delle dimissioni volontarie delle lavoratrici madri con figli nei primi tre anni di vita, appare sintomatico delle difficoltà che molte donne continuano a incontrare nel far coesistere nelle proprie vite esperienza materna ed esperienza di lavoro. Secondi i dati contenuti nel Rapporto 2020 dell’Ispettorato nazionale del lavoro, le donne che nel 2019 hanno volontariamente interrotto il rapporto di lavoro sono state 37.611, nella grande maggioranza di nazionalità italiana, mentre gli uomini 13.947, con un’incidenza sul totale rispettivamente del 73% e del 27%. Occorre precisare come il dato numerico registrato dall’Ispettorato sia un dato di non facile interpretazione, che va valutato in relazione alle informazioni che la normativa prevede siano fornite in caso di dimissioni da parte di genitori con figli sino ai tre anni (nel caso dei padri solo per quelli che hanno “sostituito” la donna nel congedo di maternità), ovvero avvenute nel periodo compreso tra il primo anno di vita del figlio, nel quale vige il divieto di licenziamento, e nei due anni successivi, durante i quali cessa il divieto ma perdurano problematiche legate alla cura e alla gestione dei figli (per un approfondimento si veda «Due cose sulle dimissioni volontarie»). 

Tuttavia ciò che fin da una prima lettura dei dati appare allarmante è il trend ininterrottamente negativo assunto dal fenomeno in poco meno di dieci anni. I dati numerici registrati dall’Ispettorato del lavoro nel periodo 2011-2019 indicano infatti un costante aumento di dimissioni volontarie, che dai 17.175 casi per le donne e i 506 per gli uomini registrati nel 2011 salgono nel 2019 ai già ricordati 37.611 per le prime e 13.947 per i secondi. Sono dati che confermano una volta di più come la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro costituisca nel nostro paese un’area di forte criticità, in particolare per i genitori con bambini piccoli. La scelta di fare un figlio rappresenta per le donne italiane una scelta particolarmente difficile e che continua a portare con sé rischi anche molto alti, dal ritornare al rimanere a casa, dall’uscita dal mercato del lavoro all’isolamento. I dati sulle nascite del resto parlano chiaro, mostrandoci un andamento della natalità annua che dal secondo dopoguerra in poi è contraddistinta da fasi di prolungata e forte pendenza negativa. Un trend di lungo periodo che negli ultimi sette anni, dopo qualche debole segnale di ripresa nel decennio a cavallo del secolo, è andato assestandosi in direzione di un costante e rapido peggioramento fino a registrare nel 2019 il tasso più basso dall’Unità d’Italia, record ulteriormente superato un anno dopo per effetto dell’impatto del Covid-19 sui progetti familiari ed esistenziali delle persone (si veda «Scenari sugli effetti demografici di Covid-19: il fronte della natalità»). L’andamento demografico italiano costituisce il fenomeno che forse ci mostra con maggior evidenza una delle più marcate contraddizioni della nostra società: nel paese della “mamma italiana” nascono pochissimi bambini, e la denatalità rappresenta un’emergenza. 

Non si porrà mai abbastanza l’accento su quanto gli stereotipi di genere contribuiscano a creare e a sostenere disuguaglianze. Riconoscere la loro funzione, capire le ragioni della loro forza e persistenza significa svelare processi che hanno il potere di influenzare i destini delle persone, di plasmarne le identità. Se insisto sull’immagine della madre italiana, su quella ambigua figura, per dirla con le parole di Lea Melandri, sospesa tra sacralità e determinismo biologico, è perché credo rappresenti uno degli stereotipi nazionali per eccellenza. Uno stereotipo funzionale al permanere di politiche tese a legittimare la divisione sessuale del lavoro, politiche che anziché investire in infrastrutture sociali preferiscono sostenere un welfare di tipo familiare di cui la donna è l’asse portante. Sovraccarico di lavoro domestico ed eccesso di responsabilizzazione verso la cura dei propri familiari sono questioni che da decenni penalizzano la vita delle donne italiane, pregiudicando la possibilità di crescita demografica, economica e sociale del nostro paese. 

La cura della casa e della famiglia ai tempi del Coronavirus. Quando a cambiare è la visibilità del lavoro femminile 

Ma che cosa è accaduto al lavoro delle donne nell’impatto con la pandemia? Per provare a rispondere a questa domanda dovremmo forse prima chiederci cosa sia accaduto nelle famiglie italiane. Se guardiamo al contesto familiare, possiamo constatare come l’emergenza sanitaria ne abbia profondamente scompaginato la vita, i tempi, le abitudini, l’organizzazione. La pandemia ha avuto la forza di ridefinire lo spazio domestico trasformandolo da luogo della sfera intima e privata in luogo dove far convergere le nostre attività extradomestiche. La casa, grazie agli strumenti tecnologici (per chi li possiede), è divenuta lo spazio in cui mantenere i contatti con le diverse sfere della vita (lavorativa, scolastica, sociale, fisica, culturale). Tutto ciò ha attivato nelle famiglie processi complessi, mutevoli, in continua trasformazione, riconducibili a una molteplicità di percorsi ed esperienze, tanto da rendere qualsiasi riflessione che voglia provare a valutarli provvisoria, incerta. Al contempo va osservato come la ricerca abbia saputo rispondere con grande prontezza e dinamismo alle esigenze di approfondimento poste da un evento tanto dirompente come quello pandemico, il più dirompente per i nati dopo la Seconda guerra mondiale, offrendo moltissimi spunti e stimoli di riflessione. Per quanto concerne l’ambito familiare, ciò è avvenuto in particolare in occasione di indagini condotte da gruppi di ricerca diversi su campioni indipendenti, volte a far luce sulle famiglie italiane nella situazione di straordinaria convergenza spazio-temporale delle attività creatasi durante il periodo del primo lockdown. Nel mettere a disposizione dati di recente rilevazione, analizzati nell’incrocio con quelli pre-pandemici e nel confronto con quelli dei Paesi Ue (natalità, istruzione, occupazione, ore dedicate al lavoro retribuito e a quello domestico e di cura), questi studi consentono di ri-misurare e di ri-problematizzare il tema delle disuguaglianze di genere nell’impatto con l’evento pandemico. 

L’impressione generale che se ne ricava è che la pandemia abbia sostanzialmente riconfermato squilibri (e stereotipi) di genere, a riprova del loro profondo radicamento nel nostro paese. L’indagine di Daniela Del Boca et al., condotta tra aprile e maggio 2020 su un campione rappresentativo di 1.250 donne occupate, rileva come durante il lockdown vi sia stato un aumento dell’impegno familiare sia per gli uomini che per le donne. Il dato emerso dall’indagine su cui porre l’accento non è tuttavia questo, bensì quello che evidenzia come tale incremento abbia riguardato molto di più i soggetti femminili, tanto da creare quella condizione di sovraccarico di lavoro domestico e di cura in cui, già nel primo mese di lockdown, Linda Laura Sabbadini, intervistata da Agenzia Dire, individuava una delle situazioni di maggior criticità create dall’emergenza sanitaria. In buona sostanza, se prima della pandemia le donne italiane dedicavano più ore al lavoro familiare rispetto ai loro partner, nel periodo del “Io resto a casa” al carico di lavoro ordinario si è aggiunto quello prodotto dalla straordinarietà creata della situazione emergenziale: riorganizzazione della casa e dei tempi di vita e di lavoro, aumento del lavoro domestico – più pasti, più pulizie, più attenzione all’igiene. A tali mansioni si sono aggiunti compiti straordinari di supporto e assistenza ai figli nei periodi di didattica a distanza e di sospensione delle loro attività fuori casa, ai quali si sono accompagnati sforzi di cura psicologica a bambini/e e adolescenti disorientati, spaventati, stressati dagli effetti della pandemia sulle loro vite. 

A confermare come il periodo di confinamento non abbia prodotto dei significativi cambiamenti nella distribuzione del lavoro familiare vi è l’indagine, promossa nell’ambito del progetto Counting Women’s Work, condotta da un gruppo di ricerca della Sapienza Università di Roma su un campione di 1.040 persone formato da uomini e donne di livello socio economico medio-alto. Nel misurare tempi di lavoro retribuito e tempi dedicati alla cura della casa e dei figli in un arco di tempo più lungo del lockdown (fino a giugno 2020), l’indagine evidenzia come il ritorno alla “normalità” abbia sostanzialmente ripristinato le condizioni precedenti: un carico di lavoro familiare di poco ridotto per le donne, una marcata diminuzione dell’impegno maschile nei compiti domestici e di cura. Nella condizione di straordinarietà creatasi con l’emergenza Coronavirus, gli stereotipi di genere sembrano dunque trovare conferma. Non solo. L’evoluzione della crisi sanitaria lascia intravedere scenari che potrebbero anche preludere a un loro processo di rivitalizzazione, sia come conseguenza del prolungamento del lavoro da casa, sia per le maggiori difficoltà che le donne in cerca di lavoro o che lo hanno perso (99.000 nel 2020 contro 2.000 uomini) potrebbero incontrare nell’accedere e/o rientrare nel mercato occupazionale. 

Come è noto, nel contesto di grave emergenza sanitaria creatosi nel marzo dello scorso anno, laddove le mansioni lo permettevano vi è stato un progressivo trasferimento dell’attività lavorativa nello spazio domestico. Un fenomeno nuovo per molti lavoratori e lavoratrici, spesso indicato con il termine smart working pur senza esserlo quasi mai stato veramente, che secondo i dati contenuti nel rapporto «Demografia e Covid-19» lo scorso anno ha interessato una quota di occupati e occupate che da valori nel 2019 inferiori al 5% è passata nel primo trimestre 2020 all’8,1% salendo nel secondo a più del 19%. Tra i dati di maggior rilievo sul piano delle differenze di genere vi è quello che indica percentuali significativamente più alte tra le donne con almeno un figlio tra 0 e 14 anni. 

Di particolare interesse sul piano delle implicazioni di genere derivanti dalle misure di contenimento pandemico, tra le quali rientrano appunto anche i trasferimenti delle attività di lavoro a casa, è il sondaggio condotto dopo il 4 maggio dall’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) nell’ambito del Gender Policies Report 2020, ovvero nel periodo della cosiddetta fase 2, caratterizzata dalla ripresa dell’attività produttiva e lavorativa ma anche dalla riorganizzazione dei tempi di vita e lavoro. Realizzata tra giugno e luglio 2020, l’indagine evidenzia come dopo il lockdown gli uomini siano stati i primi a rientrare al lavoro sia nel caso di lavoro dipendente che autonomo. Segnala anche come alcune donne abbiano continuato a lavorare a casa per motivi non riconducibili a normative o specifiche richieste del datore di lavoro bensì in virtù di accordi avvenuti in ambito familiare, nella grande maggioranza riguardanti coppie con figli. Nell’evidenziare il carattere non neutrale del processo di transizione dalla fase 1 alla fase 2, l’indagine stimola a problematizzare diversamente il lavoro femminile a distanza, in particolare in relazione al rischio che possa divenire una strategia di sostegno alla vita familiare. 

In questo quadro si colloca l’impegno di un gruppo di economiste femministe dell’Università di Valencia che nel rivendicare una regolamentazione di genere per il telelavoro ha evidenziato come questa tipologia di lavoro debba non solo fondarsi su una più agile e flessibile organizzazione spazio-temporale, ma debba anche avere un carattere spontaneo e reversibile, così da evitare nuovi rischi di discriminazione per le donne, come nel caso del lavoro part-time. Per quanto riguarda il lavoro a tempo parziale credo utile richiamare l’attenzione su come rappresenti una tipologia contrattuale ancora piuttosto diffusa nei paesi europei: i dati Eurostat 2019 registrano una percentuale del 29,9% di lavoratrici part-time (8,4% per i lavoratori) nel complesso dei paesi Ue-27, tra i quali l’Italia si colloca al sesto posto, con percentuali del 32,9% per le donne, e dell’8,2% per gli uomini. 

L’analisi di quanto avvenuto durante il primo lockdown e nella fase immediatamente successiva non sembra dunque registrare cambiamenti di portata significativa sul piano della conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. Tuttavia vi sono anche alcune novità rilevanti e che richiedono particolare attenzione. Per prima cosa va osservato come l’emergenza sanitaria abbia contribuito a rendere riconoscibile ciò che l’ottica di genere ha da molto tempo messo in discussione e ridefinito: la distinzione tra pubblico e privato, tra lavoro produttivo e riproduttivo. Per quanto riguarda la prima, le misure adottate per il contenimento della pandemia hanno creato una situazione di vero e proprio sconfinamento, la sfera intima e privata è stata invasa dalla sfera lavorativa ed extradomestica e viceversa, rispetto alla seconda hanno portato alla luce il rimosso del lavoro domestico e di cura non retribuito. Nell’esasperare il carico di lavoro familiare femminile, nell’inasprire gli squilibri nella distribuzione del tempo dedicato da uomini e donne al lavoro retribuito e non, la pandemia ha reso intollerabile quella fatica fisica e psicologica, subdola e imprendibile, che le difficoltà di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro da tempo hanno portato nelle esistenze femminili. Non c’è quindi da stupirsi se, come messo in luce dalla già citata indagine condotta dalla Sapienza Università di Roma, le sensazioni associate al lavoro di cura che donne e uomini hanno provato durante il primo lockdown siano state molto diverse: un aumento di stress e stanchezza per le prime, un aumento del sentirsi utili per i secondi. 

Se nell’attuale momento storico vogliamo cercare una trasformazione di segno positivo sul versante donne/lavoro, credo questa possa essere al momento individuata nella visibilità inedita, forte, pervasiva acquisita dal lavoro domestico e di cura. Un lavoro spesso confuso con l’amore materno e il suo mitico senso del sacrificio ma che ai tempi della pandemia sta mostrandosi per ciò che effettivamente è: un lavoro non retribuito. Le sue contraddizioni, i suoi nodi irrisolti rimbalzano di continuo sulla scena pubblica e mediatica. E in ciò possiamo scorgere un momento di snodo nella storia delle italiane, non ancora nel segno di un cambiamento strutturale ma che potrebbe preluderlo. La creazione di servizi educativi e scolastici per l’infanzia di qualità, accessibili a tutti, ben distribuiti sull’intero territorio italiano è una delle sfide che ci si attende siano a breve affrontate. 

Donne tra lavoro e non lavoro. Uno sguardo di genere al mercato occupazionale in Italia e in Europa

Nei paesi dell’Unione europea il mercato del lavoro ha cominciato a essere significativamente influenzato dalla crisi innescata dalla pandemia nel secondo trimestre 2020. Tra gli Stati membri dell’Unione europea, nel quarto trimestre 2020, l’Italia assieme alla Spagna e alla Grecia è tra i paesi che hanno registrato più elevati rallentamenti nel mercato del lavoro. Le persone con domanda di occupazione insoddisfatta in questi Stati hanno superato il 20% della forza lavoro: il 25,1% in Spagna, il 23,5% in Grecia e il 21,9% in Italia. Questi paesi hanno anche registrato i maggiori divari di genere osservati nel periodo di inattività: in Grecia il 29,6% per le donne contro il 18,4% per gli uomini , in Spagna il 30,4% per le donne contro il 20,4% per gli uomini, in Italia il 26,5% per le donne contro il 18,3% per gli uomini.

I dati destagionalizzati sui tassi di disoccupazione nel periodo compreso tra marzo 2020 e marzo 2021 forniti da Eurostat registrano nel complesso dei Paesi dell’Unione percentuali totali dal 6,4% al 7,3%, secondo la distribuzione per sesso un aumento per gli uomini dal 6,2% al 7 %, un tasso superiore per le donne che passa dal 6,6 % al 7,7%. Dal confronto tra gli Stati membri, emerge un peggioramento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro anche in paesi con bassi indici di disoccupazione femminile nel periodo prepandemico. Esemplare il caso della Germania, dove, secondo i dati contenuti nel Rapporto Openpolis Occupazione 2020, tra il 2008 e il 2017 si riscontra il maggior tasso di crescita dell’occupazione femminile tra i Paesi Ue del G7 (dal 67,8% al 75,2%), registrando in dieci anni ben 7,4 punti di differenza; nello stesso periodo l’Italia rileva un incremento di soli 2 punti (dal 50,6 % al 52,5 %), decisamente insufficiente per un paese con tassi di crescita molto al di sotto dell’obiettivo del 60% fissato dalla Strategia di Lisbona per il 2010. Secondo i dati Eurostat, la Germania passa da un tasso di disoccupazione femminile del 3,5% nel marzo 2020, percentuale peraltro inferiore a quella maschile (4 %), al 4,6 % nel marzo 2021, stabile rispetto a febbraio (per gli uomini 4,4%). 

Le cose sembrano andare un po’ meglio nei Paesi Ue con bassi tassi prepandemici di disoccupazione femminile e dove alle donne sono garantiti maggiori servizi per l’infanzia. In Francia nel marzo 2021 il tasso di disoccupazione femminile si presenta in controtendenza rispetto al dato registrato nel complesso dei Paesi Ue, mostrando un andamento di decrescita che la vede passare dal 7,5% al 7,3% (per gli uomini dal 7,4% all’8,4%). Nei Paesi Bassi il tasso di disoccupazione femminile presenta una crescita contenuta e passa dal 2,9% al 3,6 %. Questo però non avviene ovunque. Basterà al riguardo richiamare il caso della Svezia che nel 2017, secondo il già richiamato Rapporto Openpolis, è tra i membri dell’Ue con il più alto tasso di occupazione femminile (79,8%), ma che nel periodo pandemico risulta interessato da un sensibile aumento del tasso di disoccupazione tra le donne che dal 7,4% nel marzo 2020 sale nel marzo successivo al 9,3%, mantenendosi stabile rispetto a febbraio. 

Le situazioni più critiche si sono verificate tuttavia dove il mercato del lavoro femminile presentava significative debolezze già prima della pandemia. Così in Spagna, dove il tasso di disoccupazione tra le donne passa dal 16% al 17,4 % tra marzo 2020 e 2021, e anche in Italia cresce dall’8,2 all’11,4%, in aumento dall’11,3% di febbraio (dati provvisori). Nel confronto con i tassi di disoccupazione femminile presenti negli altri Paesi Ue, questi dati mostrano indici sensibilmente maggiori: il nostro Paese si colloca dopo la Spagna (segnaliamo che per la Grecia sono disponibili i dati per marzo e dicembre 2020, pari a 18,6 e 19,5%, mentre non lo sono per il periodo gennaio-marzo 2021). Il dato sulla disoccupazione femminile in Italia acquista ancor più significato se collegato al tasso di crescita dell’occupazione femminile, che dopo aver sfiorato nel dicembre 2019 il 50%, nel 2020 scende al 48,6 %. Un tasso molto basso se confrontato con il dato medio Ue-27 pari al 63%, e ancora molto distante dall’obiettivo della Strategia di Lisbona, pari al 60%.

Rivolgendo nuovamente lo sguardo allo scenario internazionale, l’impatto della pandemia sull’occupazione ci mostra una generale tendenza a produrre una significativa perdita di posti di lavoro tra le donne. Si tratta di uno scenario diverso rispetto a quello della crisi del 2008, che al contrario danneggiò molto di più il lavoro degli uomini investendo settori produttivi con una più forte presenza maschile come quello edilizio e manifatturiero. Da più parti si è evidenziato che la crisi pandemica ha colpito molto di più l’occupazione femminile, perché concentrata in settori relativamente stabili nei cicli economici tipici fortemente influenzati dalle misure di chiusura e di distanziamento sociale, quali commercio al dettaglio, ristorazione, turismo, cultura, servizi domestici. La pandemia ha avuto, inoltre, uno specifico impatto sull’occupazione femminile anche per aver portato molte lavoratrici in prima linea nella lotta contro il Coronavirus. Basterà dire che nel 2019 il 76% dei quarantanove milioni di persone impiegate nel servizio sanitario nei paesi Ue sono donne, come lo sono l’82% delle persone addette alle casse nei servizi commerciali, l’86% di quelle impiegate nei lavori dedicati alla cura della persona nel campo sanitario, il 95% di quelle impiegate nei lavori domestici e assistenziali. 

Il forte impatto che la crisi pandemica ha avuto sull’occupazione femminile trova una delle sue principali cause nella diversa distribuzione di uomini e donne nel mercato del lavoro, una distribuzione che nelle eccezionali circostanze storiche createsi con l’emergenza sanitaria Covid-19 ha visto le donne sovrarappresentate tanto nei settori in prima linea nella lotta contro il Coronavirus, quanto in quelli più colpiti dalla recessione innescata dalle misure di contenimento. L’Italia è stato il primo Paese europeo a essere colpito dall’emergenza sanitaria e ad aver adottato il confinamento e il distanziamento sociale. All’indomani della pubblicazione dei dati Istat sull’occupazione italiana per il mese di aprile 2020, Francesca Bettio e Paola Villa evidenziavano come la recessione innescata dalle misure di contenimento pandemico stesse avendo effetti negativi molto di più tra le donne che tra gli uomini. Effetti che, come previsto dalle due autrici, sono perdurati nei mesi successivi sia in termini di perdita di posti di lavoro che di impatto differenziato tra settori produttivi, e quindi tra uomini e donne. In un contesto come quello italiano, dove il vero e grande problema dell’occupazione femminile risiede nella scarsità di lavoro, la prospettiva di genere ha portato l’attenzione sulla necessità di riequilibrare l’occupazione favorendo l’accesso e l’inclusione delle donne in quei comparti che continuano a essere appannaggio pressoché esclusivo degli uomini. Sono i settori al centro del processo di greening – agricoltura, edilizia, public utility e trasporti, con una partecipazione tradizionalmente prevalentemente maschile. Come evidenziato dal Manifesto di Donne per la Salvezza/Half of it, basterà dire che nell’ambito del settore delle costruzioni per il 92,4% delle assunzioni sono preferiti i maschi (rispetto al 1,4% di femmine e al 6,2% di indifferente), o guardare a settori come quello dei trasporti e della logistica dove pure si registrano marcate differenze di genere. Per quanto concerne il rapporto tra disparità occupazionale e livelli di istruzione femminile, la prospettiva di genere ha, inoltre, prestato particolare attenzione al permanere di un marcato svantaggio femminile nelle lauree tecnico-scientifiche, le cosiddette lauree Stem (Scienze, tecnologie, ingegneria e matematica), tra le quali si registra un 37,3% di maschi contro un 16,3% di femmine, che sul totale dei laureati/e rappresentano, nel 2019, il 22,6% contro il 16,8% degli uomini. 

Il grande impatto che l’attuale recessione sta avendo sul lavoro delle donne è un fenomeno che nei Paesi dell’Unione europea presenta andamenti e tratti comuni, tanto sul piano delle cause che degli effetti. Ma come per qualsiasi grande crisi, è un impatto che va misurato tenendo conto anche delle specificità nazionali. In Italia il mercato del lavoro presentava già prima della pandemia marcate diseguaglianze sul piano dell’accesso e della permanenza delle donne, e qui dunque si rendono necessarie misure alquanto efficaci e tempestive. Misure che contrastino le disparità di genere nel mondo produttivo e che incrementino l’occupazione femminile in tutti quei settori che più si espanderanno e ai quali saranno destinati il grosso delle risorse dei fondi del Next Generation Eu, a partire dai lavori cosiddetti green e digitali. Affrontare questi nodi rappresenta per l’Italia un’opportunità storica e insieme una necessità, l’opportunità di superare il gap occupazionale con l’Europa, la necessità di scongiurare che le conseguenze sociali, economiche e demografiche derivanti dall’impatto della recessione sul lavoro femminile sopravvivano alla pandemia. 

(maggio 2021)

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