Conflitti,  Lavori,  Numero 5. Giugno-luglio 2022,  Storia e memoria

Intervista a Gianni Boetto

di Sergio Fontegher Bologna*

* Dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 27 aprile 2022 ho scelto di aggiungere al mio cognome almeno una parte di quello di mia madre, Laura Buffon Fontegher.

Attraverso l’intervista biografica a Gianni Boetto emergono alcune caratteristiche della generazione di militanti cresciuti nel clima del Sessantotto, in un territorio del Veneto che ha dato luogo a un’esperienza politica abbastanza singolare nel panorama italiano. Sia, da un lato, per la radicalità delle sue scelte, sia, d’altro lato, per non aver mai spinto questa radicalità oltre i limiti del buonsenso. In tal modo, laddove in molte altre situazioni la conflittualità degli anni Settanta ha lasciato dietro a sé terra bruciata o un rosario di “conversioni” all’ordine costituito più o meno ai limiti della decenza, oppure una rinuncia totale all’impegno civile, nel Padovano ha potuto continuare a esercitare un ruolo di argine alla devastazione della sinistra. Ha potuto in tal modo, nel nuovo millennio, tornare a essere protagonista della conflittualità propria della società postfordista in settori come quello del mutualismo, della logistica, dell’assistenza ai migranti ecc. Come tale, questa esperienza dimostra anche la durata dell’operaismo, quando viene praticato con una forte aderenza ai bisogni del proletariato di ieri e di oggi, del precariato, del lavoro cognitivo svalutato e supersfruttato. L’intervista è stata raccolta dall’autore a Padova, il 19 gennaio 2022.

Bologna: Quando hai iniziato la tua attività di militante politico?

Boetto: Nel 1967-1968 sono stato coinvolto nelle lotte studentesche degli istituti tecnici a Monselice, nella Bassa padovana, e dal 1969, con l’Autunno caldo inizio a conoscere compagni che avevano dato vita al Comitato Unitario Operai Studenti di Este. Questi compagni avevano iniziato un intervento politico all’Utita di Este, un’azienda di meccanica pesante di medie dimensioni, che però poteva essere ben rappresentativa della realtà operaia di quel tempo. Il Comitato si confronta immediatamente con una realtà di fabbrica che per certi aspetti era molto simile a quella delle grandi fabbriche del Nord, dalle quali si stava diffondendo un formidabile movimento di lotta, anche in vista della scadenza del contratto dei metalmeccanici.

La cosa importante da sottolineare è che, come studenti, il nostro rapporto con la classe operaia non era per niente di carattere “ideologico”, non pensavamo di essere persone appartenenti a una classe diversa che sceglievano, per senso di falsa coscienza, di mettersi al servizio del proletariato. Eravamo consapevoli di essere noi stessi una componente di quella forza lavoro di cui lo sviluppo capitalistico, arrivato a un determinato stadio, aveva bisogno. Quindi una forza lavoro più scolarizzata perché le tecnologie si evolvevano. Se in precedenza il capitale aveva avuto bisogno soprattutto di operai comuni con un grado di scolarizzazione che non superava la scuola dell’obbligo, adesso aveva bisogno di diplomati e di laureati, ma questi sarebbero stati comunque, appena finiti gli studi, assorbiti dall’apparato produttivo e sarebbero stati sfruttati così com’erano sfruttati quelli dell’Utita. Io frequentavo l’Istituto di ragioneria a Monselice perché era la scuola più vicina, senza minimamente pensare che quella disciplina sarebbe stata un possibile sbocco professionale. Ciò che accomunava questa nuova componente studentesca a quella delle nuove generazioni operaie era proprio l’estraneità da un lato al processo formativo e, dall’altro, all’organizzazione capitalistica del lavoro. Quando iniziammo a prendere i primi contatti con l’Utita scoprimmo che in quella fabbrica era forte la Cisnal. La nostra presenza avrebbe potuto incrinare la loro egemonia; nell’estate del 1969 i fascisti decisero di dimostrare che erano ancora loro a comandare, dichiararono uno sciopero e organizzarono un picchetto con vari squadristi arrivati da Padova, di cui facevano parte personaggi come Facchini, che in seguito verrà coinvolto nelle inchieste che riguardavano gli stragisti del neofascismo veneto. Gli operai si trovarono davanti un picchetto di fascisti, rimasero per un po’ incerti, poi decisero di sfondare il picchetto sbarazzandosi definitivamente di coloro che li volevano far restare fuori e passarono dalla nostra parte. L’egemonia Cisnal si concluse lì. L’esperienza delle lotte a Este e Monselice è stata di recente ricostruita nel libro Radici connettive. Il ’68 a Este e nella Bassa padovana (DeriveApprodi, 2021), a cura di Beatrice Andreose. Lì si possono trovare altre testimonianze di persone che sono cresciute con me e che hanno seguito i miei stessi percorsi.

Bologna: Dopo il 1968-1969 qual è stato il tuo percorso? 

Boetto: Sono entrato in Potere operaio assieme ad altri compagni della mia zona, come Lauso Zagato, Gianangelo Gennaro, Antonio Liverani, e ho fatto quell’esperienza sino alla fine, sino al 1973, potendo conoscere meglio la realtà operaia regionale, in particolare quella di Porto Marghera, ma non abbandonando il radicamento nel mio territorio della Bassa padovana. Mi mantenevo giocando a calcio come semiprofessionista, sono arrivato a giocare nella serie D e mi ero iscritto alla facoltà di Lettere a Padova. Guadagnavo bene ed era uno spasso prendere soldi divertendosi e avendo molto tempo a disposizione per la militanza politica. Per dare un’idea, arrivavo a percepire quasi il doppio di uno stipendio operaio. Giocavo come mediano di spinta. 

Bologna: All’Università di Padova, nella Facoltà di Scienze politiche di allora c’era l’Istituto di Dottrina dello Stato diretto da Toni Negri. Ha contato, per voi, l’esistenza di quell’Istituto?

Boetto: Ha contato sicuramente per la nostra cultura politica, per la nostra formazione politica. Ricordo che Negri è venuto da noi qualche volta a parlarci delle trasformazioni dello Stato, per esempio quando in Italia sono state introdotte le Regioni. Leggevamo gli scritti dei docenti di quell’Istituto, di Luciano Ferrari Bravo, di Guido Bianchini, di Alisa Del Re, che ci permettevano di capire meglio i fondamenti del modo di produzione capitalistico e le conseguenti modalità di estrazione di plusvalore dalla forza lavoro, le forme del controllo capitalistico, il rapporto con lo Stato. Potere operaio si era dato una struttura organizzata e nella Bassa padovana avevamo istituito iniziative come le “scuole quadri” per riuscire, oltre che a produrre conflitto, anche a impadronirci di conoscenze teoriche che consentivano di avere una visione strategica delle prospettive. Alcuni compagni delle nostre zone erano particolarmente bravi come “insegnanti”, soprattutto Gianangelo Gennaro, che purtroppo non è più tra noi.

Anche dopo lo scioglimento di Potere operaio i compagni del nostro territorio che avevano cominciato a fare politica insieme sono rimasti uniti e così si è stabilita la continuità militando nei Collettivi politici, che avevano impostato la loro azione su due direttrici: autovalorizzazione e contropotere. In particolare era importante la tematica del contropotere. Noi pensavamo che la possibilità della conquista del potere passasse soprattutto attraverso la pratica della costruzione di istituti del contropotere all’interno dei territori. Eravamo molto diversi da altri movimenti di quegli anni. Pensavamo che fosse molto più importante costruire radicamento sociale nei territori, dove poter esercitare un contropotere rispetto a quello dello Stato. Pensavamo fosse più importante appropriarci di una parte della ricchezza sociale, sia in fabbrica e nei luoghi di lavoro con le rivendicazioni salariali, conducendo lotte capaci di resistere a lungo e quindi trovando forme di lotta che potessero costare il meno possibile ai lavoratori ma fossero in grado di creare seri problemi al padrone, paralizzando la produzione con scioperi articolati, a scacchiera e tante altre forme di lotta che facevano parte del patrimonio del movimento operaio. Manifestazioni meramente dimostrative, scioperi “vacanza” che i sindacati confederali continuavano a propinare agli operai, non ci sembravano metodi efficaci per ottenere risultati concreti. Sul piano della riappropriazione della ricchezza sociale, cominciavamo intanto dall’autoriduzione degli affitti, dei biglietti del trasporto pubblico, delle bollette della luce, fino a organizzare vere e proprie occupazioni di parte del territorio, chiudendo per esempio con barricate e altri ostacoli l’accesso a certe strade per permetterci di prelevare beni di prima necessità dai supermercati per distribuirli poi alle famiglie povere. Avevamo una profonda differenza da gruppi come le Br che avevano teorizzato l’attacco al cuore dello Stato, in quanto lo Stato non aveva e non ha un cuore, ma una infinita articolazione di poteri disseminati nel territorio che andavano contrastati a partire dal radicamento delle lotte. Tutto ciò aveva bisogno di un radicamento forte nel territorio, che contava anche su una complicità diffusa e sull’accettazione delle forme di lotta che venivano messe in atto da parte dei soggetti sociali ai quali facevamo riferimento. Il mantenimento di questo tipo di impostazione politica ci ha consentito di non perdere la nostra identità e abbiamo continuato a esistere anche negli anni della grande repressione, messa in atto a partire dal 7 aprile del 1979, dando prova di una durata e di una continuità fino ai giorni nostri, che sono per certi versi un esempio assolutamente unico nella storia italiana al di fuori della sinistra istituzionale. 

Bologna: Eppure con l’azione della magistratura che ha portato all’inchiesta del “7 aprile” Padova è stata uno dei punti dove la repressione si è esercitata nella maniera più forte.

Boetto: È vero, ma non ha colpito a tappeto i Collettivi politici padovani e veneti che sono rimasti relativamente indenni, con pochi arresti tra le loro file. L’operazione del 7 aprile viene pensata e costruita quando aumenta la pressione del Pci perché la magistratura agisca con maggior durezza contro di noi. È dopo l’omicidio di Guido Rossa da parte delle Brigate rosse che anche la Cgil e la Fiom diventano parte attiva della macchina statuale della repressione. Dal 7 aprile del 1979, a seguito delle infamità di Antonio Romito (uno dei testi fondamentali del “teorema Calogero”), ex militante di Potere operaio passato poi tra le file del Pci, viene spiccato anche nei miei confronti un mandato di cattura ma, per un colpo di culo, non mi arrestano e sono costretto alla latitanza per oltre quattro anni. Vengo arrestato a Venezia mentre mi stavo recando a prendere un treno e, a distanza di anni, vengo a scoprire che a riconoscermi è stato un poliziotto – con il quale avevo giocato a calcio alle giovanili – che si trovava sul ponte casualmente in compagnia di due carabinieri in borghese e che, mentre attraversavo il ponte della stazione, mi ha riconosciuto e indicato ai due carabinieri. Questi, senza farsi notare, mi seguono sul treno, entrano nello scompartimento nel quale mi ero accomodato spianando le pistole e immobilizzandomi per verificare se fossi armato o meno. Vengo così arrestato, portato prima nella caserma centrale di Venezia e poi trasferito al carcere di Santa Maria Maggiore. La mia detenzione però non dura a lungo, perché nel frattempo era cambiata la normativa sulla carcerazione preventiva e introdotto l’istituto degli “arresti domiciliari”. Mi faccio sette mesi di carcerazione preventiva al Due Palazzi a Padova, undici mesi di arresti domiciliari e finisco di scontare la pena di tre anni e dieci mesi con l’affidamento in prova al servizio sociale. Tutto sommato mi è andata bene, non mi è toccato il destino di compagni come Zagato o Ferrari Bravo, o molti altri compagni e compagne, che hanno subito anni di carcere e anche di carcere speciale, per vedersi poi riconoscere l’estraneità ai fatti contestati. Dagli arresti domiciliari decido di riscrivermi all’università, alla facoltà di Lettere, riprendendo a fare esami e per poco non mi laureavo. Mi mancava un esame, ma poi per via che era iniziato il processo e che avevo ripreso la militanza politica, stupidamente, ho lasciato l’università senza laurearmi. Dagli inizi del 1985 torno a essere un libero cittadino, riprendo anche a giocare a calcio, ma dal 1987 mi inserisco nella Cooperativa tipografica con altri compagni e compagne, dando vita a un intreccio di cooperazione vera, che durerà fino al 2005 con l’esperienza di “Razzismo Stop” che interviene sulle problematiche dei diritti di cittadinanza e contro il razzismo. A seguito dell’incontro di “Razzismo Stop” con la composizione migrante e con Via Anelli lascio la tipografia e mi dedico a tempo pieno all’Adl fino ai giorni nostri. 

Bologna: In ogni caso, dopo il 7 aprile e dopo il marzo 1980, l’azione dei Collettivi risulta paralizzata.

Boetto: Beh, cambia il clima politico in tutto il paese, c’è la sconfitta alla Fiat nell’ottobre del 1980, che rappresenta non solo per gli operai ma anche per il sindacato, per la Fiom, una specie di via di non ritorno, si spengono non solo i movimenti politici di base ma anche le lotte sindacali in generale; se ci sono, sono lotte difensive. Questo inasprisce la repressione. Nei primi anni Ottanta Padova è una città completamente militarizzata, specie dopo l’operazione repressiva del marzo 1980 con la quale vengono spiccati decine di mandati di cattura che portano in galera molti dei compagni e delle compagne dei Collettivi, costringendone molti/e altri/e alla latitanza a Parigi. 

Bologna: E com’è stato possibile che, mutatis mutandis, quella esperienza sopravviva ancora?

Boetto: Dal marzo del 1980 l’azione politica diventa molto più difficile, ma si apre un nuovo capitolo che è quello contro le basi militari. Pensiamo solo alle iniziative con i pacifisti a Comiso e a molte altre di questo tipo. Fino al 1985 le manifestazioni erano vietate e a Padova ogni volta che cercavi di scendere in piazza interveniva la polizia con cariche e pestaggi. Il risveglio arriva a seguito di un evento traumatico, l’uccisione a sangue freddo di un nostro compagno, Pietro Greco, detto “Pedro”, da parte della Digos, a Trieste nel marzo 1985. Non era armato e non aveva opposto resistenza. Alla manifestazione di protesta che viene organizzata a Padova partecipano circa cinquemila persone. È un segnale che il radicamento sul territorio di certe pratiche politiche ha resistito anche agli anni della militarizzazione e quindi è possibile riprendere un’iniziativa. L’anno successivo si verifica il disastro di Chernobyl. Riprende vigore in tutta Italia il movimento antinucleare e anche noi partecipiamo alle mobilitazioni. Riprendiamo certi contatti interrotti con altre componenti dell’Autonomia, per esempio con quella romana. Riprendiamo a guardarci attorno per capire che trasformazioni sono avvenute nella composizione di classe e ci troviamo di fronte al fenomeno della “fabbrica diffusa”, così caratteristico del Veneto, ci troviamo di fronte a una forza lavoro precarizzata e frammentata. C’era una grossa fabbrica di bambole nella nostra zona, che poteva essere presa come esempio, come modello di fabbrica diffusa. La fabbrica che deteneva il marchio potrà aver avuto trecento dipendenti. Da questa dipendevano una ventina di laboratori artigianali, sparsi sul territorio, ciascuno dei quali poteva avere cinque, tre dipendenti o magari dieci, dai quali a loro volta dipendeva una rete di centocinquanta-duecento-trecento, chissà, lavoranti a domicilio che probabilmente lavoravano in nero. Un mondo radicalmente diverso da quello della “centralità operaia”, andato in fumo a seguito di chiusure, ristrutturazioni e passaggi di proprietà (l’Utita diventata giapponese si chiama Komatsu, le Officine Galileo di Battaglia Terme sono diventate Merlin Gerin). Nel contesto della lotta contro la ristrutturazione alla Magrini Galileo, a partire dal 1984-1985 nasce un percorso anche organizzativo, interamente nuovo per noi, che mette assieme la lotta contro l’uso antioperaio della cassa integrazione con la capacità di utilizzare anche lo strumento giudiziario per le medesime finalità. Tant’è che, grazie alla competenza e l’intuito di un compagno avvocato, viene avviata una vertenza legale che porta a una enorme vittoria sul piano giudiziario. Da questa esperienza di lotta e dall’intreccio con alcune altre esperienze di autorganizzazione nel pubblico impiego (Comune, Agenzia delle entrate e trasporto pubblico) viene dato il via alla costruzione dell’Adl Cobas come nuova forma sindacale che vuole essere punto di riferimento di una nuova composizione di classe. 

Diversamente da quello che era successo negli anni Settanta, quando l’“autonomia operaia” non aveva bisogno di strutturarsi sindacalmente, in quanto vi era un uso operaio dei consigli di fabbrica e dei sindacati stessi, con il modificarsi delle normative sulla rappresentanza diventava necessario dotarsi anche di una struttura formale per dare continuità all’“altro movimento operaio”.

Bologna: La vostra caratterizzazione attuale però dipende in gran parte dalla vostra presenza nei magazzini della logistica e della Gdo, dove la componente maggioritaria è data da forza lavoro immigrata. Come siete arrivati a svolgere questo ruolo?

Boetto: A partire dall’inizio degli anni Novanta, incontriamo ulteriori importanti cambiamenti nell’organizzazione capitalistica del lavoro e nella composizione di classe: siamo in presenza di un modello di fabbrica diffusa, dove il costo del lavoro si abbassava sempre più grazie all’introduzione di sempre nuove forme di precarietà; quel modello aveva bisogno di forza lavoro che non solo costasse poco ma non avesse nemmeno diritti, aveva bisogno di schiavi. E arrivano le ondate migratorie. Noi ci mobilitiamo subito per trovare alloggi decenti, per l’ottenimento di permessi di soggiorno senza ricatti. Costituiamo l’Associazione “Razzismo Stop” che produce un percorso di lotta a partire dalla fine degli anni Ottanta, che parte da Padova e si estende a tutto il Veneto. Si occupano decine di appartamenti e si organizzano mobilitazioni per rivendicare diritti di cittadinanza. Nel frattempo si occupano in tutto il Veneto centri sociali che esprimono la necessità di costruire spazi liberi dalla mercificazione del cosiddetto “tempo libero”. A Padova nasce il caso “Via Anelli”, un agglomerato di sei palazzine con tre miniappartamenti costruito negli anni Settanta al solo scopo speculativo per alloggiare studenti fuori sede dell’Università. Ma poco alla volta inizia il degrado, la popolazione studentesca è sostituita da “borderline” che spesso occupano i locali abusivamente, da prostitute e da qualche immigrato. Ma nel tempo cresce enormemente la presenza di immigrati che non trovano alloggio in altre parti della città. Comincia a formarsi la leggenda di Via Anelli come centro dello spaccio e della prostituzione, luogo infetto che andava isolato e segregato dal resto, tanto che a un sindaco di sinistra ex Pci, con l’appoggio di Rifondazione comunista, venne l’idea di costruire una recinzione alta tre metri. La notizia divenne presto un caso internazionale. Ma prima dello scoppio del caso internazionale con la costruzione del muro dal valore puramente simbolico – separare i buoni dai cattivi – cominciammo a fare inchiesta scoprendo che in realtà, nell’arco di alcuni anni, tra la fine degli anni Novanta e i primi del nuovo millennio, il 90% degli abitanti di quegli stabili erano migranti, costretti ad andare a vivere in Via Anelli soprattutto perché in città non venivano affittate case agli immigrati e quindi Via Anelli era diventata l’unica possibilità di trovare un alloggio. Era l’altra faccia della fabbrica diffusa, la faccia nascosta del Veneto ricco e sazio dei distretti industriali. Quella degli intermediari di manodopera, dei caporali, che procuravano alle aziende forza lavoro immigrata, li mettevano a dormire anche in dieci in un appartamento e prelevavano dalla loro busta paga un affitto di due/trecento euro a testa per cui una sola camera fruttava ai caporali anche due/tre mila euro al mese. Così siamo venuti a contatto con situazioni lavorative ben peggiori di quelle delle lavoranti a domicilio della produzione delle bambole. C’erano anche delle ex prostitute nigeriane, che erano riuscite a sottrarsi alle maman e che dalla schiavitù del sesso erano passate alla schiavitù del lavoro. Questo – tra cassaintegrati, licenziati, lavoratori e lavoratrici in nero, working poor, gente ricattata e ridotta praticamente in schiavitù – è il contesto sociale in cui Adl Cobas, Associazione difesa dei lavoratori diventata poi Associazione diritti dei lavoratori – Cobas, compie un enorme salto di qualità e di quantità, passando dalla presenza storica in alcune aziende metalmeccaniche e nel pubblico impiego a una nuova composizione di classe composta prevalentemente da migranti occupati nella logistica, nelle pulizie e nella selezione dei rifiuti. Dall’inchiesta e dalla lotta per lo smantellamento del ghetto effettuate in Via Anelli, si consolidano contatti con lavoratori inseriti nel mondo della logistica che ci pongono il problema di intervenire sindacalmente per cambiare una situazione di super sfruttamento inaccettabile. Qui ci capita di entrare in contatto precisamente con un gruppo di marocchini che lavoravano in un magazzino di Gls. Così ci raccontano delle loro condizioni di sfruttamento: erano costretti a indossare una casacca con un numero stampato davanti e dietro, che veniva facilmente inquadrato dalle telecamere di sorveglianza, lavoravano a chiamata, per orari decisi di volta in volta. Ogni giorno ricevevano sul cellulare una chiamata nella quale venivano informati se dovevano recarsi al lavoro e, se sì, a che ora. Quando ci hanno fatto vedere le loro buste paga ci siamo accorti che li stavano fregando su tutto, la metà della prestazione veniva conteggiata come trasferta, quindi non soggetta a contributi; gli istituti contrattuali, ferie, tredicesima, quattordicesima, Tfr, ecc. venivano inseriti in una “paga conglobata” e pagati in forma ridotta; nessun diritto al pagamento delle integrazioni per i giorni di malattia e infortunio; nessun riconoscimento del lavoro notturno o di quello straordinario. La sola cosa chiara che veniva comunicata ai lavoratori era la retribuzione netta. Il responsabile della cooperativa comunicava l’importo del netto che si aggirava sui quaranta/cinquanta euro al giorno, tutto compreso. Tutti i lavoratori che operavano all’interno di Gls, a loro insaputa, erano stati assunti come soci di cooperative, costretti anche a versare una quota sociale che arrivava fino a cinquecento euro. Scopriamo così come viene usata dal punto di vista capitalistico una forma societaria, nata in origine con nobili scopi, ma che aveva finito per diventare lo strumento principale per cancellare ogni diritto previsto dalle normative vigenti in materia di lavoro subordinato. Sono gli statuti delle cooperative che possono derogare dalla legge 300/70 e dai Contratti nazionali. 

Bologna: In sostanza questi lavoratori sono soggetti a un triplo sfruttamento: quello esercitato dall’organizzazione del lavoro, quello esercitato dagli intermediari di mano d’opera e quello esercitato dalla cooperativa stessa di cui sono soci.

Boetto: Cominciammo a muoverci nella giungla delle cooperative di produzione-lavoro. Cominciammo a conoscere i meccanismi della cessazione dell’appalto a seguito di un nuovo bando, per cui un gruppo di lavoratori si trovava non solo di punto in bianco senza lavoro ma perdeva anche tutti i diritti maturati nell’anno o negli anni (di solito non più di due) in cui aveva lavorato e perdeva anche i soldi dell’iscrizione alla cooperativa per diventare socio, con canoni che in alcuni casi arrivavano anche sui duemila euro e più. La figura giuridica del socio-lavoratore sembrava fatta apposta per sottrarre alla persona tutti i diritti che la nostra legislazione riconosce a chi instaura un rapporto di prestazione lavorativa.

Così, nel 2004, con la Gls inizia la nostra attività di difesa dei diritti dei lavoratori all’interno in particolar modo della logistica. E da quella prima iniziativa di lotta in Gls si sviluppa un movimento a livello nazionale che determina uno stravolgimento dei rapporti di forza con enormi conquiste da parte dei lavoratori in questo comparto, che diventa sempre più centrale nel processo di accumulazione capitalistica. 

Bologna: Avete la sensazione di essere riusciti a cambiare le cose?

Boetto: C’è un abisso tra le condizioni di lavoro e la situazione generale che c’erano in quegli anni e le condizioni attuali. Sono intervenute trasformazioni positive frutto delle lotte dei lavoratori, sebbene non in tutto il mondo dei corrieri e della logistica, ma – volendo quantificare – nel 50-60% delle aziende, tra cui i principali soggetti: Tnt, che nel frattempo è stata acquisita da Fedex, Brt, Gls, Sda, Dhl, Geodis, e altri grossi operatori anche della Grande distribuzione. Allora c’erano condizioni di estremo sfruttamento. Come sempre, il capitale ha sempre avuto grandi capacità di capire dove è possibile estrarre facilmente valore aggiunto dallo sfruttamento di una forza lavoro proveniente da paesi extracomunitari. Quando, all’inizio del nuovo millennio, siamo arrivati in Gls, Tnt ma anche in Bartolini o Sda, la forza lavoro era per il 90% straniera. Erano persone che non conoscevano le leggi; prendevano quaranta euro al giorno, che lavorassero giorno o notte, sabato o domenica, straordinario o meno. Per dividere gli operai, c’era chi prendeva quaranta euro, chi quarantacinque, chi cinquanta euro tutto compreso, non c’erano assegni familiari, detrazioni, ecc. Tutto questo si intrecciava con il tipo di rapporto di lavoro, che utilizzava cooperative che gestivano i magazzini in appalto. Queste cooperative erano grosse società e alcune di loro poi sono state indagate anche grazie al nostro lavoro di denuncia. Una di queste gestiva quasi tutti i magazzini di Tnt e Bartolini sul territorio nazionale e aveva migliaia di soci. Peraltro alcune di queste cooperative avevano a capo ex funzionari sindacali, quindi c’era un intreccio tra sindacati confederali e aziende. Quando noi, nel 2008-2009, avevamo già iniziato a dire “basta con la mafia delle cooperative”, la Cgil di Padova ci rispondeva invece che era fondamentale incentivare la forma cooperativa e la partecipazione dei soci lavoratori alla vita delle cooperative, mentre tale partecipazione era del tutto impossibile, visto che il rapporto di lavoro era sicuramente di tipo subordinato. La forma giuridica della cooperativa era strumentale perché tutto un insieme di istituti che rientrano nel contratto nazionale – l’orario di lavoro, la malattia, le ferie, la tredicesima e la quattordicesima, eccetera – erano applicati in deroga e quindi venivano trattati dai regolamenti interni, sempre a discapito dei lavoratori. 

Bologna: Ti ricordi qualche passaggio del vostro percorso di mobilitazione particolarmente importante?

Boetto: Una delle prime lotte durissime è stata nel 2008 alla Tnt di Limena, poco fuori Padova: l’azienda voleva usare, come avevano fatto spesso, il cambio di appalto da una cooperativa all’altra per azzerare il Tfr, le ferie maturate, i contributi, etc., per poi ripartire con una nuova società, con l’accordo della Cgil. Una società che in realtà era sempre quella e cambiava semplicemente il nome per ripartire da zero, con una truffa anche ai danni dello Stato e dell’Inps. Si sono trovati per la prima volta con una risposta durissima da parte dei lavoratori, che hanno presidiato per quasi un mese lo stabilimento. Abbiamo fatto i picchetti, e i lavoratori si sono incatenati ai cancelli. Alla fine siamo riusciti a mantenere alcuni diritti, alcune condizioni e a fare un accordo anche migliorativo rispetto a quello che c’era. Prima ancora, in un magazzino Gls, dove c’erano lavoratori, come abbiamo già detto, che giravano nel magazzino con delle casacche coi numeri davanti e dietro, abbiamo scioperato per far togliere le casacche numerate.

Da quel momento abbiamo cominciato a impostare con sistematicità queste rivendicazioni, queste piattaforme di lotta, che prima son partite all’interno di ogni singolo magazzino, poi si sono estese, grazie al rapporto che si è creato quando abbiamo scoperto che in Emilia-Romagna e in Lombardia il Si Cobas, i nostri “cugini”, avevano avuto lo stesso percorso. Nel momento in cui abbiamo creato l’intreccio con il Si Cobas, abbiamo scoperto la potenzialità che c’era a livello nazionale, soprattutto rispetto ai corrieri. Una chiave per comprendere le conquiste di questi anni è stata il fatto che con il Si Cobas abbiamo dato vita a degli scioperi/blocchi dei magazzini in contemporanea, anche di cinque-sei-sette magazzini dello stesso corriere: a Milano, Verona, Padova, Treviso, Bologna, Piacenza, Modena. Se blocchi per una notte sei-sette magazzini il danno che fai è enorme. A quel punto sono stati costretti a sedersi al tavolo con noi e a firmare accordi. Una battaglia fondamentale è stata quella per l’agibilità sindacale. All’inizio e fino al 2012-2013 non avevamo nessun riconoscimento: il diritto all’assemblea retribuita all’interno del posto di lavoro, ad avere le rappresentanze sindacali aziendali (Rsa), ai permessi sindacali per i delegati. In seguito, negli accordi sindacali da noi sottoscritti, abbiamo inserito questi punti, in particolar modo con quelle aziende che fanno riferimento a Fedit (Federazione italiana trasportatori), che sono le principali (Tnt, Bartolini, Gls, Sda) e alcune altre anche inferiori. Come sempre al livello capitalistico c’è anche molto pragmatismo: quando hanno capito che non avere rapporti con noi significava perdere milioni di euro e che la rappresentanza che davano i sindacati confederali era irrisoria hanno dovuto scendere a patti e riconoscerci venendo a trattare con noi. Adesso quando c’è qualche problema o uno sciopero i responsabili, anche ai massimi livelli, ci chiamano direttamente per gestire le situazioni di conflittualità.

Il primo accordo nazionale con Fedit l’abbiamo firmato nel 2016, cancellando di fatto la figura del socio lavoratore, nel senso che anche laddove c’era il socio lavoratore abbiamo cancellato tutti gli aspetti di deroga al rapporto di lavoro subordinato, equiparando quindi le condizioni del socio lavoratore a quelle di un lavoratore subordinato. 

I risultati nelle aziende dei corrieri e della logistica si sono poi allargati anche alla filiera della grande distribuzione, in Emilia-Romagna, in Lombardia e anche qui in Veneto, dove le lotte e le vertenze hanno raggiunto, per esempio, i magazzini dei supermercati Alí, della catena Tigotà, di Aspiag (Despar, Interspar, ecc.) Maxi D, Unicomm (supermercati A&O, ecc.).

Bologna: Adesso pensate di proseguire su questa strada già tracciata, che ha dato i suoi frutti, oppure ci sono le condizioni per fare un salto di qualità?

Boetto: Inizialmente, non abbiamo fatto altro che far applicare il contratto collettivo nazionale, che era stato firmato da Cgil, Cisl e Uil, che poi però non era rispettato. Abbiamo avuto un ruolo di ripristino della legalità. Oltre a far applicare il contratto, abbiamo fatto denunce sul caporalato, tanto che a Padova c’è stata, per esempio, una grossa inchiesta a seguito della quale, nel 2017, è stato arrestato il responsabile del magazzino Gottardo Spa di una cooperativa che movimentava le merci per Tigotà. 

Il livello di conflittualità attuale si è spostato su un piano diverso rispetto a com’era pochi anni fa. Negli ultimi due anni, dopo avere ottenuto importantissimi obiettivi – come il riconoscimento pieno dell’orario di lavoro, degli istituti contrattuali, dell’integrazione per malattia e infortunio, di scatti automatici nel passaggio di livello – abbiamo ottenuto in tutti questi magazzini la possibilità di avere anche un premio di risultato. In generale ci siamo posti il problema di ottenere aumenti salariali che però non andassero a incidere sull’imponibile fiscale. Abbiamo quindi rivendicato e ottenuto sette euro di buono pasto che oggi, in molti magazzini sono diventati otto e che equivalgono a un aumento netto in busta paga di centosessanta euro mensili. Quello che si è prodotto, frutto di una infinità di scioperi, manifestazioni davanti ai cancelli, anche con cariche della polizia, denunce, arresti, ha prodotto un cambiamento importante e ci ha portato a elaborare piattaforme nazionali legate al rinnovo del contratto nazionale. Con queste piattaforme abbiamo introdotto principi di egualitarismo che oggi sono stati per lo più abbandonati, abbiamo ottenuto l’automatismo dei passaggi di livello, dal sesto al quarto, al di là della mansione che uno svolge. Questo perché si tratta di un lavoro talmente standardizzato che non richiede particolari capacità per imparare le varie mansioni presenti in un magazzino. 

Nel frattempo anche il mondo della logistica è cambiato. Sono entrati nuovi soggetti, in particolare Amazon, anche se la sua influenza su questo settore è ancora limitata. Ci sono stati processi di concentrazione del capitale, per esempio Tnt, che prima era olandese, adesso è diventata Fedex, che è una multinazionale statunitense e ha internalizzato i lavoratori presenti nei principali hub con lo scopo di cancellare i diritti sindacali conquistati; Brt è stata acquistata dai francesi. Alcune di queste enormi multinazionali hanno anche una partecipazione pubblica, come nel caso di Sda, che è controllata dalle Poste italiane. Stanno avanzando, anche se lentamente, alcuni processi di automazione e robotizzazione che pongono problemi dal punto di vista sindacale. C’è la questione nuova dei rider e ci sono i tentativi delle catene di supermercati di organizzarsi per consegnare direttamente a domicilio la spesa.

Alcune aziende hanno risposto alla sindacalizzazione dei lavoratori tentando di utilizzare il caporalato. Il meccanismo è questo: le aziende hanno un rapporto con un caporale, che può essere indiano, bengalese, marocchino, ecc., che fa arrivare in Italia un certo numero di persone in cambio di varie migliaia di euro e garantisce il fatto che queste persone siano inserite all’interno di un posto di lavoro – il che presuppone ovviamente un accordo con le aziende che usufruiscono di questa forza lavoro – creando quindi un rapporto di fidelizzazione con loro, che dipendono interamente dal caporale. Il caporale garantisce anche la casa e poi li ricatta sul posto di lavoro, impedendo loro di organizzarsi. Un elemento interessante è che nelle cooperative legate a Legacoop abbiamo riscontrato esserci molteplici casi di caporalato e le relazioni sindacali sono molto più difficili. Poi, sicuramente, il mondo della logistica è attraversato da grosse infiltrazioni mafiose e recenti inchieste della magistratura hanno fatto emergere probabilmente solo la punta di un iceberg. Inoltre, le aziende cercano sempre di impedire i legami tra le diverse categorie di lavoratori, per esempio tra facchini e driver. Questi legami sono complicati anche dal fatto che tra i driver ci sono tanti italiani e tanti dell’Est Europa, anche perché ci vuole la patente per guidare, mentre nei magazzini i facchini sono in prevalenza originari del Marocco o di altri paesi arabi, del Bangladesh, dell’India, del Pakistan. 

Bologna: Comunque, da quanto hai detto finora risulta evidente che c’è stato anche un forte cambiamento di mentalità in questi lavoratori i quali, sentendosi finalmente sostenuti da un’organizzazione, hanno dimostrato una disponibilità al conflitto sorprendente.

Boetto: Per comprendere come si è potuta creare questa conflittualità, bisogna considerare una combinazione di fattori. Anzitutto, ci sono le caratteristiche della composizione tecnica del lavoro. Da quando la logistica è diventata un settore strategico dal punto di vista capitalistico e si sono create le figure che hanno un ruolo centrale nei magazzini, queste hanno delle caratteristiche che assomigliano alla figura dell’operaio-massa degli anni Sessanta e Settanta, perché svolgono mansioni ripetitive come accadeva alla catena di montaggio e i lavoratori si trovano concentrati in numeri anche grossi, certo non come alla Fiat di tanti anni fa che contava cinquantamila operai in un solo stabilimento, ma magazzini in cui trovi cinquanta, cento, a volte cinquecento lavoratori sono abbastanza diffusi. Il lavoratore della logistica si è reso conto che fa un lavoro uguale agli altri suoi compagni di lavoro, con mansioni molto simili, e questo ha fatto sì di pensare in modo collettivo e che unendosi era possibile creare una grande forza. 

Questa forza lavoro era sì terrorizzata all’inizio, ma poi si è resa conto della possibilità di lottare, hanno capito che mettendosi insieme si potevano conquistare risultati importanti. Noi, pur non essendo certo perfetti dal punto di vista organizzativo, abbiamo garantito una struttura sindacale che ha consentito di mantenere in piedi le lotte e di avere un certo tipo di “professionalità”, chiamiamola così, che ci ha consentito anche di fornire tutte quelle informazioni tecniche fondamentali per leggere un contratto, interpretare una busta paga, districarsi tra le infinite normative, per non farsi fregare nelle trattative, e per saper scrivere accordi che, oltre a portare a risultati concreti, siano anche ben costruiti formalmente. Tutto questo non è stato frutto di scuole quadri per sindacalisti, ma si è dato in un percorso progressivo di affiancamento delle lotte.

Oltre alle parti padronali, ci siamo trovati anche ad avere a che fare con sindacati che avevano spesso un rapporto ambiguo con le controparti o agivano più sul terreno dei favori individuali che delle lotte collettive, e per questo non erano credibili. Abbiamo conquistato la fiducia dei lavoratori perché, attraverso le lotte che abbiamo proposto e le battaglie vinte è cambiata la loro vita: prima lavoravano a quaranta-cinquanta euro a notte, senza integrazione per malattia e infortunio, ecc., dopo le lotte invece hanno avuto un contratto regolare, con i contributi versati, gli assegni familiari tutte le maggiorazioni per lavoro notturno o straordinario, ferie retribuite ecc. 

Bologna: Immagino che avete avuto dei problemi di comunicazione non indifferenti con questa base sociale.

Boetto: Abbiamo fatto un quantitativo enorme di assemblee, con alcuni lavoratori come interpreti. È stato sempre molto complicato. Basti pensare a quanto sia stato complicato e difficile spiegare a lavoratori di una infinità di nazionalità diverse, che non capiscono bene l’italiano, i meccanismi fiscali, il fatto che nel momento in cui hai una busta paga regolare prendi più soldi ma paghi più tasse, la differenza tra imponibile contributivo e fiscale, i meccanismi di conguaglio, il 730. Ora ci sono molti nostri delegati che sono diventati anche bravi a leggere le buste paga e a dare spiegazioni.

Oggi in Veneto abbiamo circa cinquemila iscritti nella logistica e nei corrieri e duecento Rsa (Rappresentanti sindacali aziendali) con una presenza anche in Emilia-Romagna, Lombardia, Toscana, Piemonte e Marche. Abbiamo ormai una struttura ramificata di delegati sindacali, che sono l’ossatura del lavoro sindacale che facciamo.

Bologna: E nel futuro? Come la vedi?

Boetto: Oggi cerchiamo anche di stare dentro le realtà sociali, di avere rapporti con altri movimenti, di partecipare a tutte le iniziative, dai movimenti femministi di “Non una di meno” alle manifestazioni antirazziste, sulla casa e sull’ambiente. Abbiamo partecipato alle ultime manifestazioni dei Fridays for Future con i nostri delegati, perché siamo convinti che la questione ambientale riguardi tutti, che uno faccia il facchino, l’insegnante o lo studente. Per questo abbiamo inserito nella nostra piattaforma le richieste di aumentare le fonti di energia rinnovabile, per esempio i pannelli solari per alimentare i magazzini, incentivi per l’uso di mezzi elettrici per le consegne, ecc., oltre al fatto che, ovviamente, bisognerebbe ridurre l’orario di lavoro. Abbiamo partecipato a tutte le manifestazioni antirazziste che ci sono state, vista anche la composizione dei nostri iscritti. Solo da un intreccio virtuoso tra questi movimenti può venire fuori anche un modello diverso di società. 

Dal punto di vista sindacale, cerchiamo di considerare che c’è anche una dimensione europea. Per esempio, abbiamo avuto contatti con lavoratori organizzati di Amazon provenienti da altri paesi, come Stati Uniti e Polonia, che hanno incontrato i nostri delegati del magazzino di Vigonza, in provincia di Padova. Dobbiamo sviluppare sempre più una rete europea che abbia un peso nel rapporto con altre forme sindacali presenti in Francia, Spagna, Germania.

BibliografiaRadici connettive. Il ’68 a Este e nella Bassa padovana, a cura di B. Andreose, DeriveApprodi, Roma 2021.