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Un ciclo di lotte nella scuola neoliberale in Europa

Parte ⅓ del saggio “Processi di soggettivazione nel lavoro educativo. Azioni di massa e conflitto sociale tra Europa e Stati Uniti.”

La ripresa delle attività scolastiche, in Italia come in tutta Europa, è accompagnata da forme di inquietudine e insofferenza che attraversano con modi ed esiti diversi l’intero settore educativo e si riallacciano con cicli di lotte che hanno caratterizzato il 2023.

1. Francia: le mobilitazioni contro la riforma delle pensioni e i lavoratori della scuola

Chi, nei primi mesi del 2023, si fosse dedicato alla lettura degli slogan contenuti negli striscioni e nei cartelli che costellavano le imponenti manifestazioni contro la riforma delle pensioni in Francia non avrebbe faticato a scorgere la costante presenza di lavoratrici e lavoratori del settore educativo. 

L’impressione di un loro attivo protagonismo nella riuscita delle mobilitazioni cresce se si passano in rassegna, nelle cronache dei giornali francesi, le testimonianze raccolte nel vivo dei cortei. A essere spesso intervistati e a rimarcare l’iniquità di una riforma che aumenta gli anni lavorativi sono insegnanti, educatori, assistenti fisici alla disabilità o addetti ai diversi servizi scolastici.

Nelle dichiarazioni riportate, accanto alla severa denuncia di quanto sia usurante il lavoro educativo, c’è spesso una più generale attenzione a porre il problema delle pensioni come una complessiva questione di equità sociale e di solidarietà intergenerazionale, provando a così a capovolgere gli argomenti del discorso liberale basati invece sullo sfacciato ritornello che l’innalzamento dell’età pensionabile sia un favore alle generazioni future.

2. Il settore educativo francese: un comparto combattivo

In Francia il settore dell’educazione pare dunque animato da una tenace combattività delle lavoratrici e dei lavoratori, capaci di mobilitarsi in forme anche molto radicali, soprattutto se si osservano i dati sulla partecipazione agli scioperi. Nel contesto di indizioni generali delle organizzazioni sindacali francesi sono state ben dieci, da gennaio a giugno, le giornate di astensione dal lavoro proclamate per il settore scolastico. Sebbene, come sempre, ci siano stati da subito dissidi tra organizzazioni e ministero dell’educazione per dare conto del reale tasso di adesione, secondo i pur contestati dati ministeriali il picco si è toccato in alcune giornate di sciopero di gennaio e marzo, con un lavoratore su tre in sciopero e picchi a sfiorare il 45% nei colleges (equiparabili ai nostri licei) e nelle scuole del 1er degré (la nostra “scuola media”).

Si potrebbe obiettare che la combattività del settore scolastico francese non sia un dato eccezionale in sé, ma derivi in qualche modo dall’effetto volano determinato dalla stagione di grande mobilitazione che ha attraversato per intero la società d’Oltralpe, trascinando con sé tutti i diversi comparti lavorativi. 

All’interno della mobilitazione contro la riforma pensionistica – e in coerenza con i principi che ispirano il movimento di opposizione a essa – gli insegnanti francesi hanno però avanzato ulteriori rivendicazioni. Tra queste spiccano le richieste di porre un argine al costante aumento del carico lavorativo, alla crescente dequalificazione professionale e alla riduzione degli spazi personali di autonomia didattica. Ulteriori problemi che gravano sulle lavoratrici e i lavoratori del settore sono il progressivo impoverimento delle retribuzioni in relazione al potere d’acquisto e la necessità di stabilizzare e assumere come dipendenti del sistema scolastico quei lavoratori e quelle lavoratrici che svolgono attività di supporto all’azione educativa, pur non essendo docenti, come ad esempio gli AESH (accompagnants d’élèves en situation de handicap) che assistono gli allievi disabili e, in sostegno dei quali, si sono mosse insieme le organizzazioni sindacali. 

3. Regno Unito: la scuola contro Sunak

In questo senso le rivendicazioni degli insegnanti francesi assomigliano molto a quelle dei loro colleghi britannici che, dall’inizio del 2023, hanno messo in atto un muscolare braccio di ferro con Downing Street, indicendo ben sette giornate di sciopero.
Al centro della mobilitazione vi era soprattutto un’urgente questione salariale. Il governo conservatore di Rishi Sunak ha proposto di aumentare le retribuzioni di poco più del 4%. La proposta è stata respinta al mittente dagli insegnanti e dal resto del personale della scuola. Per reggere il passo dell’inflazione serviva ben altro e le scuole sono entrate nuovamente in stato di agitazione nel mese di giugno. Era previsto un nuovo ciclo di scioperi da indire a partire dall’autunno 2023, ma la nuova proposta del governo di incrementare le retribuzioni del 6,5% ha indotto i principali sindacati della scuola a congelare la mobilitazioni e tornare a trattare.

La piattaforma di negoziazione, tuttavia, non pone sul tavolo solo le questioni salariali, ma segnala anche la necessità di contrastare un “workload” – un carico di lavoro – non più sostenibile. Le criticità della scuola britannica sono numerose: troppi alunni per classe, una mole poco sostenibile di pratiche burocratiche da sbrigare, un crescente disagio sociale degli allievi di cui farsi carico, una costante ansia per la valutazione di sistema basata su test standardizzati a livello nazionale.

4. Romania: gli insegnanti bloccano il paese

Pur in un contesto politico-sociale molto diverso, tra maggio e giugno 2023, anche in uno dei più poveri tra i paesi dell’Unione Europea – la Romania – è andata in scena una potente dimostrazione di forza da parte degli insegnanti.
In questo caso la rivendicazione era soprattutto incentrata sulla questione salariale: i dipendenti del settore scolastico rumeni sono tra i meno pagati dell’intera UE, con una retribuzione mensile media che si aggira attorno ai 600 euro.

Gli scioperi sono iniziati a maggio e hanno paralizzato il paese con decine di migliaia di manifestanti in tutte le principali città. Dopo tre settimane di blocco delle lezioni, la mobilitazione degli insegnanti e dell’intero comparto educativo ha costretto il governo di Bucarest – una “grande coalizione” che tiene insieme forze di destra liberale e i social-democratici – a concedere un aumento salariale immediato del 25% e a impegnare maggiori fondi del bilancio statale per finanziare il settore dell’educazione. Lo sciopero degli insegnanti, conclusosi il 12 giugno 2023, si è intrecciato anche con una crisi di governo che ha visto la sostituzione del primo ministro liberale Nicolae Ciucă con il social-democratico Marcel Ciolacu.

Ci sono state tuttavia frange più radicali che hanno respinto l’accordo, bollandolo come un compromesso al ribasso accettato dalle burocrazie sindacali: nel distretto rumeno di Suceava circa 3.000 insegnanti hanno continuato a protestare e, appoggiato da una più piccola organizzazione sindacale, lo sciopero è continuato.

5. Le riforme neoliberali dei sistemi scolastici

Ci si potrebbe domandare se esista un nesso tra il peggioramento delle condizioni di lavoro all’interno delle istituzioni scolastiche – tratto comune delle diverse lotte sin qui presentate – e la generale crisi educativa che – come segnala addirittura la Banca Mondiale – si manifesta in tutti i paesi sviluppati sotto forma di crescita della dispersione scolastica, disagio giovanile precoce, analfabetismo funzionale. Nei fatti sembrerebbe essere del tutto in crisi il ruolo della scuola come “ascensore sociale”.

Se osserviamo la questione in ottica storica possiamo osservare che il punto di contatto tra i due fenomeni si colloca negli anni in cui è iniziata la trasformazione dei sistemi di istruzione nazionali in strumenti al servizio del mercato e delle imprese private.

Questo processo – incentrato sull’assunto che i percorsi di istruzione dovrebbero avere come unico scopo la “valorizzazione del capitale umano” – ha le radici politiche e teoriche negli anni Ottanta di Reagan e della Thatcher, ma si delinea nelle sue dinamiche essenziali in Europa solo negli anni Novanta. 

È a partire da quell’epoca che tutti i principali paesi europei hanno varato le proprie riforme della scuola e dell’università, sulla spinta del libro bianco del 1995 sull’educazione a cura di Édith Cresson e Pàdraig Flynn. Nelle pagine di quel testo si leggeva: «L’investimento nelle risorse immateriali e la valorizzazione delle risorse umane incrementeranno la competitività globale, svilupperanno l’occupazione e permetteranno di salvaguardare le realizzazioni sociali».

Stanno qui anche i fondamenti di quella “ideologia del merito” nel campo dell’istruzione, il cui scopo non è più accompagnare nella crescita personale e culturale i futuri cittadini, ma addestrare alla flessibilità e alla competitività a vantaggio del mercato del lavoro. Una volta diventata dogma, la teoria del “capitale umano”, con i suoi corollari dell’apprendimento per competenze e della misurazione del merito, travolge sia le vite degli studenti – già pensati come futuri lavoratori – sia quelle dei docenti responsabili della loro formazione, che vedono trasformato il proprio orizzonte professionale. 

Laddove questo processo è più avanzato le organizzazioni sindacali della scuola da tempo denunciano sindromi da burn-out derivanti dallo stress accumulato per la necessità di raggiungere i risultati prefissati nei test di valutazione. Nella primavera del 2023, nel pieno del ciclo di scioperi del personale scolastico britannico, un’inchiesta sul Guardian ha posto l’accento su almeno dieci casi di decesso di insegnanti tra le cui con-cause sembrava esserci, secondo le indagini, lo stress accumulato per le ispezioni del Dipartimento Ofsted (Office for Standards in Education, Children’s Services and Skills), l’equivalente britannico di ciò che in Italia è l’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione).

Tra fine anni Novanta e primi anni Duemila, mentre si stava strutturando il sistema Ocse-Pisa per la valutazione internazionale degli apprendimenti, i principali paesi europei istituirono agenzie valutative nazionali, o adattarono quelle già esistenti, affinché misurassero con parametri comparabili tra loro i risultati scolastici degli allievi e l’efficienza delle scuole. Ciò avvenne, come immaginabile, adottando modelli di gestione e strutture operative tipici delle imprese private. L’idea di fondo – non diversamente da quanto stava accadendo per altri servizi pubblici come la sanità o i trasporti – era che la scuola dovesse assomigliare quanto più possibile alle aziende private.

L’impatto che questi cambiamenti ebbero sulla dimensione lavorativa degli insegnanti si manifestò lentamente, anche a causa della difficoltà strutturale di modificare in poco tempo pratiche operative, tradizioni consolidate e abitudini in istituzioni ramificate e capillarmente diffuse come quelle scolastiche. A distanza di due decenni, mentre il processo di trasformazione è ancora in corso, si può tuttavia affermare che i suoi esiti sono ormai quasi irreversibili.

Letture consigliate

Adams, R., ‘United front’ of teachers could launch the biggest strikes in a decade in England.

Brancaccio, F. , Vercellone, C., Crisi e riforma del sistema pensionistico e della sécurité sociale in Francia attraverso il prisma del comune e del salario socializzato. Una prospettiva storica e teorica

Farcaş, B., Romania: working class take lesson from teachers’ general strike.

Fazackerley, A., Revealed: stress of Ofsted inspections cited as factor in deaths of 10 teachers. 

Herrera-Sosa, K. , Hoftijzer, M., Gortazar, L., Ruiz, M., Education in the EU: Diverging Learning Opportunities? An analysis of a decade and a half of skills using the Programme for International Student Assessment (PISA) in the European Union, World Bank Library, 2018