Conflitti,  Lavori,  Numero 3. Giugno 2021,  Sociale

Due libri, un solo autore

I sociologi ci avevano abituato a guardare a fondo la stratificazione sociale, attenti a seguire le complesse frammentazioni e segmentazioni di un tessuto che dall’inizio del postfordismo si è fatto sempre più variegato, facendo saltare completamente la nozione stessa di “classe”. 

Paolo Perulli nel suo libro Nel 2050. Passaggio al nuovo mondo, pubblicato da Il Mulino nel 2021, imprime una forte sterzata a questa tendenza e riprende a parlare per grandi aggregati, la neoplebe da un lato e la classe creativa dall’altro. Concetti che possono suscitare più di una perplessità ma che in realtà funzionano benissimo nella logica della sua argomentazione, che è tutta rivolta a costruire uno scudo contro il populismo, nemico non solo del confronto globale ma soprattutto del sapere. Il populismo esalta l’ignoranza, per mettere “il popolo esperto” ancora più ai margini di quanto già non lo sia. Quello che Perulli chiama la classe creativa non è tanto una fotocopia dell’idealtipo costruito da Florida quanto l’insieme delle persone che attraverso gli studi hanno acquisito competenze specifiche, specialistiche e che sono sottoposte a un continuo processo di svalorizzazione e delegittimazione – basti pensare a certi nostri dibattiti televisivi sul tema Covid dove vengono messi a confronto illustri scienziati con improbabili personaggi (cantanti, gestori di discoteche, blogger) che si permettono di discettare su virus e vaccini e di contestare i pareri dello scienziato. Se uno segue con un po’ d’attenzione la strategia comunicativa della Lega nota immediatamente come essa sia fondata sulla delegittimazione del sapere in quanto tale.

Perulli ha perfettamente ragione, questo odio per il sapere è gemello dell’odio di razza, per contrastarlo necessariamente occorre alzare lo sguardo sul mondo, perché il sapere, la conoscenza o sono universali e universalistici o non esistono. Il punto però è: riesce la classe “esperta” a recuperare la neoplebe quando non è riuscita nemmeno a difendere il proprio potere? Si ripete fino alla noia che viviamo in una knowledge society ma il lavoro intellettuale, tecnico-scientifico, non ha nessun potere reale in questa società. Il pensiero intellettuale questa situazione umiliante se l’è cercata. È da quando ha cominciato ad espellere il pensiero critico dal suo perimetro che non ha fatto altro che perdere terreno. «Il pensiero critico oggi è in un angolo», scrive Perulli a pagina 68:

L’idea che “non c’è alternativa” al mondo attuale è stata propagandata e diffusa al punto da diventare un luogo comune. Anche il pensiero progressista fa parte di questa resa al dato di fatto: globalizzazione inevitabile, mercato intoccabile. Il pensiero critico è invece essenziale per indicare vie nuove alla società, e impedire la distruzione della ragione nelle forme che oggi assumono l’anomia dei mercati e il caos planetario. 

D’accordo, ma come si rimette in moto un pensiero critico? Risposta facile: con l’azione collettiva. E qui Perulli ricorda come il concetto di azione collettiva sia stato completamente stravolto dalle teorie olsoniane che hanno ridotto l’azione collettiva a un fenomeno puramente economico, di difesa corporativa degli interessi. Il pensiero critico rinasce quando «movimenti di protesta e saperi specializzati, domanda di cambiamento e soluzioni tecnico-scientifiche all’altezza dell’epoca» si incontrano. C’è però da fare un passaggio molto difficile ed è quello di recuperare una dimensione locale, come dimensione di specificità e concretezza, per evitare che il globale diventi solo lo spazio della delocalizzazione ovvero del non rispetto delle regole e in primo luogo dei diritti umani. Il ragionamento di Perulli non è diverso da chi ha concepito quella Legge sulle catene di fornitura (LsKG) che il Parlamento tedesco ha appena approvato e che accolla all’impresa committente o capofila la responsabilità del rispetto delle regole in tutta la catena di appalti e subappalti (per cui un lavoro minorile utilizzato in Perù nella prima lavorazione del litio destinato alle batterie in uso dalle auto elettriche Volkswagen può essere portato in una causa civile davanti a una corte tedesca). Pensata come strumento per incoraggiare il re-shoring questa norma entrerà in vigore solo nel 2023. Avrà effetto? Forse in termini di “accorciamento” delle catene di fornitura ne avrà di più l’aumento dei costi di trasporto. La re-internalizzazione è un aspetto limitato, si dirà, oggi le dimensioni del cambiamento sono enormemente più vaste, a cominciare dalla transizione energetica, sulla quale Perulli chiude il suo scritto in termini di speranza. A me sembra che il problema sia lo stesso. Non si tratta di capire qual è la via maestra perché possa esserci un “ritorno alla ragione”, si tratta di capire se le misure che vengono prese in funzione di “rimediare” alcuni guasti che minacciano la sopravvivenza della specie contengono o meno in sé degli elementi che possano far finire la storia in maniera diversa dalla semplice restaurazione degli attuali assetti di potere. È chiaro che la transizione energetica è prima di tutto un colossale business ma per farla marciare il capitalismo ha bisogno di rilegittimare certi valori che l’umanità può prendere in mano e rivoltarglieli contro. Allo stesso modo non si possono evocare i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici pensando di farla franca, coniugando greenwashing con socialwashing. Perulli nelle ultime pagine dà per scontato che «la svolta valoriale» sia già avvenuta, anche nelle convenzioni internazionali (del trade, per esempio). Pur essendo meno ottimisti di lui non possiamo nasconderci che quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi non può essere liquidato come il solito trasformismo capitalista, qui si apre un nuovo terreno di gioco, in questa scommessa il capitalismo accetta una piccola dose di rischio. Proprio per questo il populismo e l’estremismo di destra gli servono, sono un’assicurazione contro quel rischio.

Nelle ultime pagine del libro, parlando di distruzione della razionalità, Perulli accenna al problema della finanziarizzazione dell’economia e dell’indebitamento, temi ai quali ha dedicato un lavoro più impegnativo di quello che abbiamo appena segnalato: Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, pubblicato da La nave di Teseo nel 2020. Le prime cento pagine del libro sono dedicate a una rassegna delle principali teorie sulla crisi del capitalismo e sulla formazione di quell’ideologia del successo imprenditoriale che ha acquistato le caratteristiche di una vera e propria «religione sociale», cioè di una credenza, di una fiducia illimitata in un sistema che si pensa infallibile. Le due teorie, quella dell’inevitabile crollo e quella della «non pensabilità» di un crollo sono cresciute assieme. È curioso per esempio, come annota Perulli, che la teoria dell’etica protestante di Weber ai giorni nostri si sia trasformata in credenza, per cui al progredire del pensiero unico neoliberale, ha corrisposto un revival della chiesa evangelica non solo negli Stati Uniti ma soprattutto in Cina dove i protestanti sono ormai ottanta milioni. Uno dei punti di riferimento in questa rassegna non può che essere Karl Polany e la sua idea del denaro come istituzione. La finanza è un’istituzione sui generis perché a differenza dello Stato non si regge su un sistema di leggi, non dispone di una costituzione, bensì di costumi, di pratiche e proprio per questo è al tempo stesso inafferrabile e non regolabile, dunque più forte dello Stato. Lo Stato non è in grado di tenerla sotto controllo, specialmente oggi che la massa di capitali della finanza mondiale supera largamente il Pil mondiale. La finanza non solo non è riconducibile a un controllo da parte degli Stati ma essa stessa controlla gli Stati con il meccanismo dell’indebitamento.

Il problema del debito sovrano oggi, con il cosiddetto Recovery plan, ritorna in primo piano, lo Stato italiano sotto la guida di un ex banchiere centrale si sta accollando altri cento miliardi di debito, mentre – Perulli lo ricorda nell’altro libro – «in pochi anni la percentuale di mutui e debiti finanziari delle famiglie italiane incide per il 90% del reddito disponibile». Il debito ormai è incistato nella vita quotidiana degli individui tanto da dar luogo a una vera e propria antropologia dell’«uomo indebitato», per dirla con Lazzarato, che riprende alcune delle acutissime riflessioni di Benjamin sul rapporto tra “debito” e “colpa” (Schuld in tedesco per l’uno e per l’altra). 

Perulli prosegue il suo ragionamento analizzando le tre crisi del 1929, del 1973 e del 2008, dicendosi convinto che «la prossima crisi sarà una crisi da debito privato, come e più di quella precedente e altrettanto sarà una crisi da sregolazione». Dopo l’ultima crisi, quella del 2008, nessuno strumento è stato messo in atto dalle istituzioni internazionali per evitare che essa possa ripetersi. Può riscoppiare da un momento all’altro a seguito dell’incredibile rialzo dei titoli dopo il Covid oppure a causa delle criptovalute oppure per colpa degli investitori freelance o per altro ancora. «Ma quello che non è stato previsto è il sommarsi di crisi finanziaria del debito e di catastrofe ambientale, qualcosa che non è ancora mai avvenuto e rispetto a cui il mondo è immobile, totalmente impreparato». In realtà a ben vedere il concetto di crisi associato a quello di crack finanziario è un concetto puerile, la crisi è la normalità, quella per cui ai resti del vecchio contratto sociale non si è sostituita nessuna nuova forma di contratto e la finanza può continuare il suo percorso nella più totale imperscrutabilità, «i dati relativi alle banche, in particolare le banche d’affari e d’investimento, e l’intera attività di erogazione e di emissione sono avvolti da un’impenetrabile cortina informativa». Lo stesso senso di completa perdita di controllo e d’orientamento ci viene dal mondo virtuale del web, dove sembra che ci sia stata concessa la connettività totale in cambio di una perdita completa dell’autonomia. Forse una via d’uscita non esiste ma almeno si può provare a praticare strategie di resistenza («puntare a beni open source, open access, servizi sanitari e sociali gratuiti e universali, beni comuni verso cui si orienterà la società di domani»). Dopo aver dedicato un capitolo a una rassegna di autori che hanno tentato di «riformare il capitalismo» fino ad arrivare alla forma moderna di «socialismo di mercato» che in Cina riproduce tutte le contraddizioni del capitalismo neoliberale (ivi compreso l’insostenibile indebitamento delle famiglie), Perulli prova a individuare quelle che sono le possibili «linee di frattura», la prima è tra «economia ed ecologia», la seconda è tra «flussi e insediamenti, tra migrazioni e habitat», la terza è tra «divisione del lavoro e bisogni sociali», la quarta tra «competizione e sopravvivenza», la quinta è tra economia e politica, tra «irresponsabilità economica e responsabilità ecumenica». Che cosa sono queste linee di frattura? Sono le faglie dove la società capitalistica entra in contraddizione con se stessa, ammette di aver creato meccanismi autodistruttivi. In effetti ci sono parecchi segnali in questo senso, il capitalismo è entrato in una fase in cui «cerca di rimediare»: la transizione energetica è l’esempio più eclatante soprattutto se la si considera in tutti i suoi aspetti, non ultimo quello finanziario degli Esg principles (environment, social, governance).

Credo che i meriti principali dei due testi di Paolo Perulli siano questi: da un lato di averci fornito una rivisitazione originale della letteratura che problematizza la società del capitale, dall’altro di aver colto un passaggio d’epoca: il capitalismo, incapace di riforma, cerca il rimedio e questo cambiamento di rotta non è una pagliacciata, va preso sul serio, è un nuovo terreno di gioco. Lui conclude dicendo «stavolta il capitalismo non ce la farà, stavolta le forze distruttive che ha messo in moto avranno la meglio sulla sua capacità di trasformismo, la faglia si sta staccando». Vedremo se la sua profezia si avvererà o meno, quello che ci hanno fatto capire i suoi testi è che siamo entrati in una fase dove l’apocalittico non appartiene più alla sfera del pensiero metaforico, ma alla sfera del quotidiano.

Bibliografia

P. Perulli, Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, La nave di Teseo, Milano 2020.

P. Perulli, Nel 2050. Passaggio al nuovo mondo, il Mulino, Bologna 2021.