Internazionale,  Numero 3. Giugno 2021

Salute e ricerca scientifica a Cuba. Intervista a Rosella Franconi

Rosella Franconi: è biologa e si occupa di biotecnologie, negli ultimi anni ha lavorato allo sviluppo di vaccini sperimentali con nuove piattaforme tecnologiche; per quest’ultimo motivo ha avuto modo di conoscere da vicino la ricerca scientifica cubana. L’intervista risale al 22 aprile 2021.

Come sei entrata in contatto con la ricerca scientifica cubana? Quali sono state le tue prime impressioni?

Per spiegarti le mie prime impressioni devo partire dal senso di frustrazione che spesso prova il ricercatore pubblico in Italia. Qualche anno fa, in collaborazione con ricercatori di un altro ente pubblico, abbiamo sviluppato un vaccino terapeutico contro i tumori causati dal papillomavirus umano (Hpv). Abbiamo fatto i test, abbiamo accertato che sugli animali il vaccino funzionava e poi lo abbiamo brevettato, questo era il massimo che potevamo fare. Il successivo sviluppo sarebbe stato fare i trial clinici e trovare un’industria interessata alla produzione. Noi abbiamo fatto mille presentazioni, ma arrivavamo sempre allo stesso punto morto, e cioè l’industria di turno ci chiedeva se avevamo fatto i trial clinici che ovviamente non potevamo aver fatto.

Perché no?

Per fare i test clinici avremmo dovuto trovare qualcuno che mettesse a disposizione qualche milione di euro, impossibile. Questo ha generato un senso di forte impotenza, mi sono chiesta, ma come? Abbiamo fatto i test, abbiamo accertato che sugli animali il vaccino funziona, ora si tratta di verificare se può andare bene per l’essere umano e proprio su questo arriva l’ostacolo del mercato. Io lì ho pensato di aver sbagliato tutto, avrei dovuto fare altro. Per dirti, sarebbe stato più facile e più remunerativo mettersi a sviluppare integratori alimentari. Proprio in quel momento conobbi Cuba. Era il 2004, durante un congresso in Francia incontrai alcuni ricercatori cubani. In seguito ho scoperto che a Cuba non c’è l’industria farmaceutica privata e il brevetto è statale (come quello da noi sviluppato), in questo senso lo intendono come collettivo. A Cuba infatti c’è un’impostazione sociale, ossia la scienza è finalizzata al bene pubblico; si parte sempre dalle esigenze sociali anche per fare ricerca. 

Credo che per mezzo mondo scoprire che Cuba stava approntando un suo vaccino sia stato quasi uno shock. Insomma, è un’isola con undici milioni di abitanti. E poi sono i Paesi sviluppati che producono conoscenza, no? 

Guarda io questo shock (molto positivo!) l’ho avuto anni fa, mi sono proprio chiesta: ma come fanno? Allora insieme ad Angelo Baracca ho ricostruito la storia e il ruolo della ricerca cubana. Tutto inizia con la Rivoluzione. I cubani hanno avuto un intellettuale importantissimo, José Marti (1853-1895), che spiegava che il presupposto per essere liberi è proprio quello di essere colti, nel senso che la conoscenza è un prerequisito fondamentale per rendersi indipendenti. Quindi con la Rivoluzione viene presa di petto la questione culturale, si combatte l’analfabetismo, le caserme vengono trasformate in scuole. Si intuisce che la scuola e la sanità pubbliche sono fondamentali, e si dà enfasi alla ricerca e allo sviluppo scientifico. Pensa che Fidel Castro dirà già nel 1960 che il futuro di Cuba dovrà essere un futuro di uomini (e donne!) di scienza. Il problema è che nel 1962 arriva l’embargo e diventa subito chiaro che Cuba deve essere indipendente, che poi significa che per avere una vera sanità pubblica è necessario dotarsi di una propria industria farmaceutica. 

Quindi l’educazione, la salute, la ricerca vengono messe insieme, coordinate perché siano al servizio dei bisogni del popolo cubano, e attorno a questo progetto si mobilita tutta la società. Nel primo decennio della Rivoluzione sostanzialmente si preparano le basi per costruire un popolo di pensatori e scienziati.

Nel campo della fisica Cuba ha avuto l’appoggio dell’Urss, lì andavano a formarsi gli studenti cubani; però l’Unione Sovietica era arretrata nel campo delle biotecnologie. Anche in questo caso i cubani sono originali, perché senza farsi troppi problemi iniziano a collaborare con altre nazioni, infatti tanti ricercatori andranno a studiare e a formarsi in Paesi come la Francia, l’Italia ecc. cioè nel campo avversario, quello del blocco capitalista.

Cuba quindi entra fin da subito nel settore delle biotecnologie grazie a un’intuizione di Fidel sull’interferone, che all’epoca era considerato una molecola antitumorale. Fidel prende contatto con Kari Cantell, colui che in Finlandia aveva sviluppato il modo di produrlo, e gli chiede di poter mandare lì un gruppo di ricercatori cubani. In soli due mesi i cubani riusciranno a riprodurre autonomamente il processo per la sintesi dell’interferone (era il 1981); in quel periodo a Cuba ci fu un’epidemia di dengue emorragica. I medici decidono di applicare questa molecola per controllare l’epidemia, mentre tutto il mondo la stava usando contro il cancro. Iniziarono successivamente a produrre interferone ricombinante con le tecniche dell’ingegneria genetica, e intorno a questa molecola i cubani fanno palestra, sia come farmaco sia come occasione di mettere in piedi un’impresa di Stato ad alta tecnologia. E mentre nel mondo le biotecnologie sono nate come occasione per fare profitto, a Cuba sono un modello alternativo. Ancora oggi i ricercatori cubani lavorano a ciclo chiuso, cioè il ricercatore ha l’idea, sviluppa la molecola e poi la si produce, anche a fini di esportazione.

Fammi un esempio concreto di come funziona l’intero ciclo.

Prendiamo il caso di un vaccino, innanzitutto si decide che tipo di vaccino sviluppare, lo si sperimenta per verificare che sugli animali funziona, poi bisogna produrlo su larga scala per fare i trial clinici con l’approvazione degli enti regolatori cubani. Prima però si brevettano le molecole, pure all’estero, mica solo a Cuba, questo per difendere le invenzioni cubane. Poi c’è la fase di esportazione, ma solo se le dosi non servono a Cuba. Perché per Cuba il mercato è quello esterno, non quello interno. Queste fasi negli ultimi anni sono state organizzate in una struttura superiore che è quella di BioCubaFarma, l’industria di Stato ad alta tecnologia, che è l’unione di istituti di ricerca (per esempio, il Centro di ingegneria genetica e biotecnologie, Cigb, con il suo impianto di produzione interna) e industria farmaceutica. Questa struttura è quella che cura tutti i rapporti commerciali con l’estero. Cuba punta quindi a sviluppare un’industria di Stato ad alta tecnologia anche con appoggi esterni, insomma poi ci sono le fabbriche pure in Cina e Vietnam. 

Tu mi descrivi un sistema molto coeso, gestito dallo Stato, in cui si studiano i bisogni, si stabiliscono degli obiettivi e poi si perseguono. La popolazione però alla fine ha veramente accesso a una sanità di qualità?

Ti do un po’ di numeri. Tieni a mente che Cuba ha una popolazione di undici milioni di abitanti. Dall’inizio della pandemia al 21 aprile 2021, se noi prendiamo i casi di Covid-19 confermati Cuba aveva 95.000 casi, l’Italia 3.891.000; i morti: Cuba 538, l’Italia 117.633. Guardiamo il tasso di mortalità, su 100 infetti l’Italia ha cinque volte più morti di Cuba. Oppure a Cuba i morti sono 4,75 su 100.000 abitanti contro i nostri 195,09, quindi abbiamo circa quarantuno volte i morti di Cuba. 

Come lo spieghi?

Per i dati che ti ho citato ancora non si vedevano gli effetti del vaccino, quindi lasciamo stare questo discorso, anche se in Italia non abbiamo pensato ad altro. Constatiamo che Cuba è tra i Paesi che meglio hanno difeso la popolazione, questo perché Cuba ha un medico ogni 122 abitanti, noi ne abbiamo uno ogni 1.132 abitanti. 

Il Sistema sanitario cubano si basa su tre livelli amministrativi e tre di servizio: nazionale, provinciale, municipale. Il livello di base, quello municipale, è costituito da consultori con medici e infermieri attivi 24h/24h che provvedono a circa l’80% dei problemi di salute. Poi al secondo livello abbiamo gli ospedali provinciali che coprono il 15% dei problemi di salute, quindi il loro bacino d’utenza è di qualche migliaio di persone. Avere una buona medicina del territorio significa che ci sono gli ambulatori che in qualsiasi ora del giorno ti accolgono con i loro medici e i loro infermieri. Inoltre, l’infermiere viene dalla comunità, si tratta di una persona che conosce la gente ed è il riferimento per tutti. Aggiungici pure che il medico vive spesso sopra l’ambulatorio. Inoltre, i medici fanno regolarmente visite a casa dei pazienti.

Durante la pandemia 28.000 studenti e studentesse di medicina hanno visitato la popolazione nelle case per capire se stava bene e se c’erano casi da segnalare. Quando riscontravano pazienti con episodi di febbre o infezioni respiratorie li segnalavano, li ricoveravano e poi iniziava subito il tracciamento. Insomma questo insieme di medici, infermieri, studenti ha il compito di sostenere un sistema di vigilanza attiva, la prevenzione è possibile proprio perché la medicina del territorio funziona.

Di nuovo vorrei tornare sul ruolo dello Stato. La medicina del territorio è efficiente, ma rispetto al piano locale che ruolo ha lo Stato?

Lo Stato è presente e organizzato, i medici sono stati avvisati e coordinati quando a Cuba ancora non c’era stato ancora il primo caso di Covid-19. I medici specialisti per ogni provincia sono stati selezionati e formati perché poi tornassero sul territorio a formare gli altri medici. Penso a come invece è andata da noi la comunicazione; io, che pure sono del campo, ho davvero dovuto faticare perché all’inizio non si capiva nulla. A Cuba invece anche la comunicazione è stata gestita con rigore, poi certo i cubani stessi sono un popolo abituato alle epidemie. La stessa BioCubaFarma si è riconvertita a produrre mascherine e a riparare ventilatori, c’è stato uno sforzo collettivo di riorganizzazione. Gli stessi dirigenti sono stati mandati negli ambulatori di base per supportare il territorio. 

In Italia fino a un certo punto sembrava che nessuno sapesse quel che si doveva fare, infatti arrivavano tantissime informazioni contrastanti. Cuba ha avuto gli stessi problemi?

A difesa dell’Italia potremmo dire che nemmeno l’Oms è riuscita a dare delle linee guida chiare. Cuba però ha avuto sicuramente un approccio originale. Innanzitutto l’industria biofarmaceutica cubana ha fatto sì che tutti farmaci di base fossero garantiti, infatti ha puntato a prevenire l’infezione nelle categorie deboli, per farlo sono stati distribuiti agli anziani e alle persone più sensibili degli integratori ad attività immunostimolante. Sappiamo che per contrastare il Covid-19 è fondamentale il buon funzionamento del sistema immunitario, qui Cuba si è giocata la sua grande esperienza. Cuba infatti ha un vaccino terapeutico contro il tumore al polmone che è basato proprio su l’immunoterapia, i cubani sono stati tra i primi a sviluppare questo approccio, e cioè di attivare la risposta immunitaria dell’organismo contro i tumori e contro le malattie infettive. 

Tornando al Covid-19, al di là della prevenzione, Cuba ha provato a utilizzare sostanze antivirali, somministrandole nella prima fase dell’infezione, qui ritorna in gioco l’interferone. Se l’infezione nel paziente proseguiva, i medici utilizzavano degli anticorpi, sempre di produzione nazionale. Non l’ho detto prima, ma tutto ciò si capisce meglio se si pensa che Cuba ha ricevuto diverse medaglie d’oro per i suoi prodotti farmaceutici, una l’ha presa nel 2015 per l’anticorpo monoclonale utilizzato nel trattamento della psoriasi che è una malattia autoimmune. Questo anticorpo è stato utilizzato anche per la tempesta di citochine che si ha nel Covid-19. Ci sarebbero poi tante altre molecole da citare, ma questo esempio è utile per riuscire a capire come è stata impostata la prevenzione. Si è lavorato molto sia sui meccanismi di contorno all’infezione del virus, sia nello stimolo della risposta del sistema immunitario, questa doppia azione ha sicuramente ridotto molto la mortalità. 

Veniamo ora ai vaccini.

I vaccini (o meglio, finché non approvati, sarebbe meglio dire: candidati vaccinali) sono stati sviluppati da due istituti, uno è l’Istituto Finlay che, storicamente, si occupa di vaccini tradizionali. Però collaborando con il centro di immunologia molecolare (Cim) ha fatto anche vaccini ricombinanti di nuova generazione, si è arrivati così allo sviluppo dei vaccini contro il Covid-19, si chiamano Soberana. Il Soberana II è in fase avanzata (fase 3). L’altro istituto è il Cigb, già citato in precedenza, che ha sviluppato i due candidati Abdala e Mambisa, di cui il primo anche in fase 3. Questi candidati vaccinali sono presenti sul sito dell’Organizzazione Mondiale della salute (Oms).

In modo più generale possiamo dire che Cuba sta approntando vaccini proteici, piattaforme che utilizza da decine di anni e che sono già state impiegate per altri vaccini. Sono quindi tecnologie collaudate, a differenza di quelle impiegate per alcuni dei vaccini attualmente disponibili contro il Covid-19, che sono utilizzate su larga scala per la prima volta. Un vaccino proteico è quello che sta alla base di tutti i vaccini moderni, per esempio il vaccino per il papillomavirus umano o quello contro l’epatite B si basano su tecnologie di questo tipo e sono vaccini a subunità proteica. Inoltre, Cuba ha riconvertito parte dei suoi impianti per produrre vaccini contro il Covid-19, si tratta di impianti di produzione statale del Cim, che fa parte anch’esso di BioCubaFarma e messi a disposizione dell’istituto Finlay. Si tratta quindi un complesso incastro di strutture e competenze differenti che collaborano tra di loro.

Senti, da decenni ci raccontano che l’intervento statale è troppo costoso e poco efficiente. Eppure, Cuba sembra dimostrare che lo Stato può darsi un ruolo di pianificazione, progettazione e coordinamento, impiegando risorse in modo virtuoso, che anzi forse è meno dispendioso delle logiche competitive del privato.

In Italia, in piena pandemia, lo Stato ha deciso di regalare i soldi all’industria: infatti anche se si parla di vaccino italiano nei fatti l’Italia ha regalato ottanta milioni alla Reithera che è un’impresa di biotecnologie svizzera, anche se con una sede in Lazio [successivamente il finanziamento è stato bloccato dalla Corte dei Conti, N.d.R.]. E per di più per sviluppare un vaccino basato su un adenovirus, la stessa tecnologia di Astrazeneca. Tutto ciò mentre i ricercatori pubblici non hanno avuto accesso a un singolo bando per sviluppare un vaccino contro il Covid-19. Questo dovrebbe farci arrabbiare, perché i ricercatori pubblici avrebbero potuto fare quello che hanno fatto Moderna o BioNTech o altro, saremmo stati benissimo capaci di sviluppare candidati vaccinali. Lo Stato avrebbe potuto sostenere un sistema pubblico di ricerca e poi semmai andare a negoziare con il privato la fase di produzione. Io mi chiedo a cosa serva la ricerca pubblica, forse tengono i ricercatori, così, per giocare. Perché ora che il gioco si è fatto serio lo Stato non ci ha chiesto nulla, ha completamente scavalcato i suoi ricercatori. Certo è molto più semplice appaltare all’esterno, ma quando faccio il paragone con Cuba, che appunto è un Paese piccolo e povero, non posso fare a meno di sentire che in Italia i ricercatori non hanno nessun ruolo sociale.

Voglio anche citare alcuni riconoscimenti ottenuti da Cuba, servono a contraddire la classica correlazione diretta tra Pil e indicatori di salute. Save the Children nel 2010 definì Cuba il miglior Paese dove essere madre; nel 2015 l’Oms nominò Cuba come esempio, primo Paese al mondo ad aver eliminato la trasmissione di Hiv e sifilide tra madre e figlio con farmaci prodotti a Cuba. Nel febbraio 2019 Bloomberg ha incluso Cuba tra i trenta Paesi più sani al mondo, più in alto di tutta l’America Latina, ma anche degli Stati Uniti e la lista potrebbe continuare. Cuba è proprio la dimostrazione del fatto che non servono risorse enormi, si tratta piuttosto di usarle bene.

Ti segnalo questi riconoscimenti anche per spiegarti che non sono invasata di Cuba, ma ci sono proprio dei dati oggettivi in grado di testimoniare il livello raggiunto dall’isola. Queste sono informazioni che sarebbe importante far conoscere alle persone, perché farsi un’idea meno artefatta di Cuba può essere uno stimolo per rivedere il nostro sistema, credo che la pandemia ce ne abbia mostrato le fragilità. Non si tratta infatti solo di riuscire a vaccinare tutta la popolazione, questa dovrebbe essere un’occasione per ripensare la nostra società, per recuperare la riforma del Sistema sanitario del 1978. 

Cuba è ben inserita in un sistema di scambi commerciali sud-sud, e lo fa soprattutto attraverso i farmaci. Come mai questa scelta? Anche alla luce del fatto che le principali case farmaceutiche mondiali sembrano poco interessate a direzionare la loro ricerca scientifica verso le urgenze dei Paesi meno ricchi, ci dicono infatti che quel mercato non è redditizio; in questo modo tante malattie restano senza una cura.

Penso che Cuba prima faccia le cose per sé e poi le venda. Per esempio, una delle cose più avanzate che hanno, un farmaco per il piede diabetico, prima ci curano i cubani poi lo vendono anche all’esterno. Anche a guardare il listino di BioCubaFarma si vede che partono dalle loro esigenze e non dal mercato. Va detto che nei Paesi ricchi non si muore più tanto per malattie infettive; abbiamo imparato a controllare l’Aids, ma non ci interessiamo più alla malaria o alla tubercolosi, sono malattie che non sembra ci riguardino. Invece Cuba ci deve fare i conti; per esempio, per l’Hiv produce i suoi biosimilari, quindi degli inibitori con cui per prima al mondo è riuscita a bloccare la trasmissione madre/figlio. Prodotti come questi in alcuni Paesi – penso a tanti stati africani – sono utilissimi, anche perché Cuba fa profitti ma direi in modo etico, vende a prezzi calmierati.

Mi dici qualcosa a proposito delle brigate mediche cubane? Tutta propaganda?

Cuba ha sviluppato la sua politica estera e parte della sua diplomazia attraverso la cooperazione medica con Paesi in via di sviluppo. Le missioni mediche internazionali sono attuate sulla base dell’art. 16 della nuova Costituzione dedicato alle relazioni internazionali basate su principi antimperialisti e in funzione dell’interesse del popolo; nella lettera g) si afferma l’impegno di Cuba nella difesa dei diritti umani. Cuba invia medici in tutto il mondo, negli ultimi 47 anni sono stati sviluppati diversi programmi. Tra questi ricordo almeno l’Operación Milagro, che ha assistito 600.000 persone con problemi di vista provenienti da 30 Paesi tra Caraibi, America Latina e Africa; tutto gratis. Un altro pilastro fondamentale della cooperazione è rappresentato dalla scuola latino americana di medicina (Escuela Latino Americana de Medicina, Elam) in cui si sono formati finora 35.000 medici provenienti da Paesi di tutto il mondo. Il patto poi è questo, che chi va a formarsi in questa scuola per diventare medico deve tornare nel proprio Paese povero a fare attività. Questa operazione è sotto attacco da tempo da parte degli Stati Uniti (e non solo), basti ricordare i tre milioni di dollari stanziati dall’agenzia dello sviluppo internazionale (la cosiddetta Usaid, US agency for international development) e destinati a progetti contro le brigate mediche di Cuba all’estero, si tratta di campagne facilmente riconoscibili come false e denigratorie. Ricordiamoci che i medici cubani sono venuti l’anno scorso in Italia, dalle testimonianze emerge l’aiuto e l’umanità che hanno portato, anche perché sapevano come affrontare una pandemia. Alcuni di loro infatti avevano lavorato in Africa contro l’ebola. Teniamo a mente che, alle regioni interessate (Piemonte e Lombardia) sono costati pochissimo, praticamente solo le spese di vitto e alloggio (circa 50 euro al giorno). Poi chiaramente è la loro diplomazia, Cuba esporta sia farmaci sia servizi medici. Per esempio Cuba dava medici al Venezuela in cambio del petrolio, ma non ne farei uno scandalo, diciamo che è un po’ il loro capitale, capitale umano però. Dopotutto non esportano bombe.