Numero 5. Giugno-luglio 2022,  Sociale

Intervenire nei quartieri milanesi

Sabato 19 febbraio 2022 OPM ha incontrato il Gruppo di lavoro per le periferie – Milano, presso la sede del Sicet (Sindacato inquilini casa e territorio) di via Alessandro Tadino. Per la redazione di OPM erano presenti Emanuele Caon e Mattia Cavani, mentre del Gruppo di lavoro per le periferie erano presenti Alfredo Alietti, Franca Caffa, Gianna Casiraghi, Loris Panzieri, Ermanno Ronda, Luciana Salimbeni. Scopo dell’incontro era conoscere il Gruppo, capire come e perché si è formato, quali gli obiettivi e i metodi di lavoro, quali i risultati e le difficoltà. Tutto questo per comprendere un po’ meglio a che punto sono le lotte e le rivendicazioni per il diritto all’abitare. Della lunga discussione offriamo qui di seguito un resoconto.

Il Gruppo di lavoro per le periferie-Milano, si è costituito nel marzo 2019 per iniziativa di Franca Caffa, con l’adesione di rappresentanti ed esponenti di comitati, persone che hanno abitato o abitano nelle case popolari, operatori sindacali, responsabili istituzionali, docenti universitari, esperti di condizioni diverse di esclusione. 

Il Gruppo si propone come un nuovo soggetto di impegno e di rappresentanza, in cui è assunta l’esperienza che diversi soggetti negli anni hanno accumulato a Milano. In particolare il Gruppo ha intenzione di sviluppare esperienze di impegno dal basso per il cambiamento delle politiche per le periferie che sono state condotte a Milano negli ultimi decenni. Nelle diverse anime del Gruppo si incontrano l’esperienza più che trentennale del Comitato inquilini Molise-Calvairate-Ponti e quella del Sicet [dal 1997 aderente alla Cisl N.d.R.]. 

La nascita del Gruppo si deve alla volontà di fare un passo in avanti rispetto alla frammentazione, anzi, rispetto ai diversi tipi di frammentazione che caratterizzano da alcuni decenni lo scenario dell’impegno dal basso e ostacolano la nascita di percorsi unitari. Dalle dichiarazioni degli intervistati abbiamo tratto la considerazione di alcune necessità, almeno queste: dobbiamo superare la dimensione di quartiere; riuscire a intendere la questione abitativa come un elemento che interroga la città nel suo complesso; riprendere in mano una dimensione sindacale di rappresentanza e di lotta con una nuova attenzione a non farci schiacciare dalle emergenze quotidiane; guardare oltre la città verso una piattaforma o un coordinamento nazionale. 

Franca ci ha parlato dei limiti di un intervento focalizzato solo sul quartiere.

Caffa: ho svolto un impegno di oltre trent’anni sulla città. Lo definisco così perché in questo modo ho inteso il mio lavoro locale sulle tremila case popolari dei quartieri Erp (Edilizia residenziale pubblica) Molise-Calvairate- Ponti. Su questa esperienza, vissuta quotidianamente oltre i limiti degli orari di quanti hanno collaborato con me, dalla mattina alla sera, e spesso anche il sabato, talora la domenica, ho costantemente fondato una visione cittadina, una proposta cittadina di costruzione di unità, sia dei vari soggetti impegnati, sia della popolazione abitante nelle case popolari. In questo modo ho inteso assumere il compito di una battaglia culturale, politica, in contrasto con la frequente tendenza dei vari soggetti, associazioni, comitati, a isolare nella città un malinteso interesse del proprio quartiere, della propria esperienza, e questo non già, come è giusto, per distinguerlo nei suoi tratti peculiari, ma per affermarne in certo modo il primato, soggiacendo alla frammentazione generale dell’impegno […]. Questa frammentazione conviene agli interessi che calano dalle istituzioni con politiche che creano competizione, finalizzate alla divisione. Ho concluso la mia esperienza nel Comitato degli inquilini dei tre vecchi quartieri storici situati a sud est della città, e a marzo del 2019 ha proposto di costituire il Gruppo di lavoro per le periferie. Ne ho parlato come primo passo con Ermanno Ronda [del Sicet N.d.R,] e poi insieme abbiamo fatto una proposta a tutto il giro di compagni e amici, persone con cui abbiamo fatto esperienze comuni sulla questione case popolari e, più in generale, sulla questione casa. Il mio intento è che il Gruppo di lavoro per le periferie lavori per la presa di coscienza della disastrosa sconfitta a cui la parte popolare della società è andata incontro negli ultimi decenni. Mi sono detta: prendiamo in esame anche le nostre politiche dal basso e le nostre derive e cerchiamo la risposta alla domanda: come dobbiamo provare a cambiarle? Quale deve essere il nostro cambiamento? 

A questo scopo, con la mia esperienza di inquilina di una casa popolare, do il mio contributo al Gruppo. A seguito di uno sfratto nel 1976 ho avuto in assegnazione un alloggio di 33 m2 (abitabili) nel quartiere Calvairate, costruito nel 1929. Ha la mia età. Le case Erp non si chiamano “case”, non si chiamano “appartamenti”, nella lingua propria delle istituzioni preposte alle politiche della casa si chiamano “alloggi”. In proposito possiamo chiedere lumi alla linguistica. Perché “alloggi”? Ebbene, con un accenno possiamo richiamarne la semantica: il termine “alloggio” è connotato da un significato di ordine deteriore. Mi sono dunque trasferita con il mio bambino di 8 anni nell’alloggio che mi era stato assegnato e le vicine di casa al mio arrivo mi hanno salutata così: «Lei è venuta ad abitare nella scala delle puttane e dei barboni». È stata la scala da cui è partita l’iniziativa del riscatto, con la costituzione del Comitato degli inquilini. Data questa mia esperienza, ho maturato un convincimento che mi porta a dire a chi ha funzione di rappresentanza o di ricerca: che cosa sai tu dell’alloggiare in un quartiere Erp di degrado e di esclusione? In profondo, ognuno conosce la casa in cui abita o quelle in cui ha abitato, con la sua famiglia o in solitudine. E questo attiene alla funzione politica e sindacale della rappresentanza, alla funzione della ricerca, oggi, alle loro grandi inadeguatezze, attiene a chi la svolge, come e a quale distanza dalla realtà. 

Il mio pensiero va ad Antonio Tosi, docente di Sociologia urbana al Politecnico di Milano, che per oltre vent’anni ci è stato vicino e da ultimo ha fatto parte del Gruppo, dalla sua costituzione. È morto il 10 luglio 2021, a 83 anni. Non un solo necrologio espresso dall’Accademia cita la sua partecipazione al Gruppo. È nella nostra memoria. Al tempo stesso richiamo le responsabilità dell’Università, e in particolare del Politecnico, in larga misura responsabile di un lavoro definito “ricerca”, che ricerca non è, perché la ricerca per definizione è disinteressata. Abbiamo bisogno di un’inchiesta: quale università, quale Politecnico di Milano, quale ricerca, quale didattica, quali interessi dominanti, quali nicchie di resistenza. 

Nonostante l’intervento sulla casa debba essere saldamente ancorato ai contesti di vita quotidiana, Alfredo Alietti ci ha spiegato che l’interlocutore non può essere solo l’amministrazione comunale o regionale, ma deve coinvolgere anche il livello nazionale e si pone quindi un problema ampio di rappresentanza.

Alietti: Un altro problema che abbiamo messo al centro è quello della rappresentanza. Non c’è una piattaforma nazionale sulla questione abitativa, in Italia abbiamo tante iniziative e tante esperienze di intervento e lotta sulla casa, ma non c’è una vera piattaforma nazionale. Abbiamo buoni interventi locali e per il resto alcune nicchie ecologiche che non si parlano. Così manca la forza per una rivendicazione sulla casa di respiro più ampio.

La volontà di ricomposizione ci è sembrata tanto più significativa quanto più dai racconti del Gruppo è emersa una conoscenza profonda di come si vive nelle case popolari e nel singolo quartiere. Il Gruppo, poi, continua a parlare di periferie: dal punto di vista dei nostri interlocutori e interlocutrici infatti le politiche dell’amministrazione cittadina tendono a oscurare il degrado, le difficoltà, l’ingiustizia che segnano il vivere quotidiano in numerosi quartieri di case popolari con nuove definizioni edulcoranti, mentre sono necessarie scelte politiche diverse. Gianna Casiraghi e Luciana Salimbeni, abitanti delle case popolari, ci hanno raccontato i tanti aspetti del degrado e la sensazione di abbandono di chi vive nelle periferie, i loro racconti partono da esperienze personali, ma tracciano parabole generali, mentre Loris Panzieri ha parlato della sua esperienza, che, maturata negli anni in cui è stato educatore per il Comune, continua nell’impegno ininterrotto della relazione con persone in gravi difficoltà e nell’interesse per le connesse problematiche generali. 

Casiraghi: Ho visto il degrado avanzare soprattutto da quando Aler [Azienda lombarda di edilizia residenziale; N.d.R.] ha chiuso le portinerie. Questo ha fatto saltare il rispetto delle regole del vivere comune. Si è disgregato quel senso di comunità che si aveva nel vivere nelle case popolari. Ma il degrado è cominciato lì, nel 1979, quando è stato tolto il servizio di custodia.

Panzieri: A Milano troppe persone la casa non ce l’hanno e quindi occupano, se possono. Situazioni precarie e viene spesso a mancare la cura per una situazione che non sentono loro, manca quindi l’attenzione e l’amore per il contesto in cui si vive. Vengono occupate persino le cantine. Appartamenti con porte d’ingresso murate con lastre metalliche, appartamenti sfitti, degrado, mancanza di controllo e di aiuto. Ricordo un campo di sfollati per la guerra civile in Somalia. Le abitazioni erano capanne di paglia e plastica. Non un pezzetto di plastica fuori posto, non una sola immondizia visibile. Sfollati, precari, ma forti del clan, del prosieguo del loro modo di vivere. Nei quartieri di case popolari, al contrario, mancano una logica e un lavoro sulla convivenza di problematiche differenti e contrapposte. Per esempio a causa degli sgomberi dei campi rom, sgomberi selvaggi e continui, tranne gli assegnatari che hanno scelto di vivere in una casa, molti rom hanno occupato appartamenti popolari perché cacciati da campi dove avevano deciso di vivere. Il loro inserimento nei complessi di case popolari non è una scelta ma una necessità, con tutto quello che questo comporta. Conosco gente che ha subito più sgomberi degli anni che ha. Spesso occupano malamente, con rabbia. Sono situazioni complesse e non si vede una strategia condivisibile da parte dell’Ente locale e i suoi servizi sociali. 

Salimbeni: A Molise-Calvairate abbiamo 500 alloggi sfitti, ristrutturati e non assegnati. Abbiamo chiesto all’Aler perché, ma non abbiamo ottenuto risposte. Ma potrei dirvi di altri alloggi sfitti. E non ci rispondono. Abbiamo il paradosso di avere case disponibili e persone per strada che hanno bisogno di una casa; è come invitare la gente a occupare.

La realtà che ci descrivono appare popolata da una frammentazione che è prima di tutto umana: una difficile convivenza causata dalle enormi difficoltà del vivere quotidiano. Il contesto assume poi i tratti di uno scenario emergenziale in cui lo Stato è il grande assente o, per meglio dire, si avvicina quando riduce il ruolo e le risorse dei servizi sociali, quando appalta sempre più la gestione del welfare agli enti del terzo settore, creando dinamiche fosche di competizione per l’accaparramento delle poche risorse elargite. Questa serie di elementi ha ricadute importanti sull’attività stessa dei comitati e dell’azione sindacale.

Caffa: Com’è cambiato il ruolo dei sindacati della casa dagli anni Ottanta a oggi? Rispetto alla rappresentanza e alla tutela, in quale misura si è imposto il ruolo dell’assistenza, per quali cause, con quali conseguenze? Su queste domande nel Gruppo è aperto un fondamentale lavoro di ricerca. Lo affrontiamo consapevoli delle nostre diversità di formazione, esperienze e sensibilità. Cammin facendo ci accade di imparare a non liquidare queste diversità con la contrapposizione della verità già raggiunta alle domande nuove. Comprendiamo che le risposte saranno il frutto di un processo di inchiesta, di reciproco ascolto, e in questo modo ci accade di andare oltre i momenti o le fasi in cui la ricerca si arresta, dato il peso delle difficoltà. Del resto, è possibile che non raggiungiamo una unanimità di valutazione, e che nel Gruppo coesistano tendenze o posizioni diverse, in una relazione di attenzione che richiede a ognuno tempo per riflettere più in profondo e per maturare giudizi più consoni al lavoro della ricerca che ci siamo dati per compito. 

In parte sembrano essere questi i motivi della difficoltà di creare mobilitazione attorno al tema della casa e di costruire una piattaforma rivendicativa comune. Le difficoltà che il Sicet incontra nella sua azione di rappresentanza ci vengono raccontate come uno dei motivi fondamentali per cui si è deciso di dar vita al Gruppo di lavoro per le periferie. Ermanno Ronda, segretario generale del Sicet, ce le descrive così:

Ronda: Il Gruppo di lavoro delle periferie nasce nel 2019, ma i tentativi fatti in precedenza hanno una vita molto più lunga, stiamo parlando di trent’anni. Ovviamente le fasi politiche ed economiche sono cambiate nel tempo. Quello che ci ha ispirato per provare a costruire un punto di pensiero e di analisi è quello di uscire dall’isolamento e dalla frammentazione. Bisognerebbe fare un lungo discorso sulla rappresentanza oggi e capire quali sono i limiti della lotta economica. La lotta economica dal punto di vista del sindacato inquilini è il tentativo di difendere il salario sociale in termini di servizi erogati sul territorio. E che cos’è la lotta ideologica? Bisognerebbe trasformare questi bisogni in lotta di cambiamento per la società. Capisco i limiti della lotta economica che diventano ancora più gravi in una situazione in cui lo Stato si ritira e delega ai corpi intermedi e al Terzo settore questo compito di dare delle risposte in sostituzione della pubblica amministrazione dello Stato. [..] Gli obiettivi del Gruppo non sono solo di riflettere ed elaborare proposte, ma di intervenire nei quartieri per muovere partecipazione e cercare di instillare critica e promuovere il conflitto. Non ci siamo ancora riusciti, questo è il nostro limite. Ma ci è chiaro che questo Gruppo può essere un modo per collegare altri gruppi e inquilini. L’obiettivo del Gruppo non è solo mettere cerotti, ma provare a stabilire delle cure per fare dei passettini in avanti che provino a unire ciò che è stato diviso. […] Il sindacato nella sua fase più evoluta era riuscito a trattare anche di salario sociale e non solo di lavoro. E la casa ne era la dimensione centrale. Non sto qui a far la storia delle sconfitte e degli arretramenti, ma […] il sindacato è diventato un sindacato di trincea, di ultima istanza, a cui però non possiamo sottrarci. Non è un alibi, ma è un limite. Se viene una famiglia senza casa, uno sfrattato e tutte le richieste quotidiane del sottoproletariato non possiamo dire no, dobbiamo occuparci dell’ultima istanza, lasciando sul terreno macerie e un’infinità di situazioni che non riesci a gestire.

Discutendo ci sembra di capire che una parte importante degli sforzi quotidiani del Gruppo sia destinata a cercare un dialogo con le istituzioni. All’amministrazione comunale vengono sottoposti problemi, avanzate analisi e proposte. La relazione però ci sembra a senso unico: non solo i tavoli richiesti non sono stati aperti, ma sono mancate proprio le risposte, anche nei termini di un semplice no.

Caffa: Noi siamo stati ricchi di proposte, ma i responsabili istituzionali non ci hanno ascoltato, mentre battono la grancassa della partecipazione. Del resto, hanno manifestato indifferenza anche soggetti di impegno e di rappresentanza, incoerenti con il loro ruolo. […] Non chiediamo all’amministrazione di accogliere le nostre richieste solo perché le presentiamo, chiediamo che le prenda in esame e che ci risponda, sì, no, in base ad argomenti seri, che risponda alla città. Racconteremo da quale miseria siano caratterizzate le parti che recitano negli incontri, il sindaco, il suo assessore. Ora, se l’amministrazione non pone autenticità nella relazione, non può richiamarsi alla sinistra, che nella qualità delle relazioni di verità con i cittadini si distingue dalla destra, e fonda la qualità dell’intervento politico amministrativo nella città. 

L’11 gennaio 2013 al Teatro Puccini nel corso di un incontro del Forum per le politiche sociali: “Tutta la Milano possibile”, il sindaco Pisapia ci ha detto: «Parlateci con franchezza». Dal 15 gennaio 2013 all’11 ottobre 2015 gli ho scritto cinquantasei lettere aperte in cui ho dato la parola a chi abita nelle case popolari. Jaca Book mi ha proposto di pubblicarle ma, in prossimità delle elezioni del 2016, improvvisamente mi ha scritto: «In quattro mesi non siamo riusciti a trovare chi osasse fare la prefazione». Un noto sociologo si è dichiarato disponibile, non è stato contattato dall’editore e ha commentato così: «Le case editrici subiscono pressioni». Le mie lettere aperte al sindaco Pisapia, finora inedite, costituiscono una particolare documentazione delle politiche del centrosinistra a Milano, della sua continuità e nei suoi sviluppi fino all’amministrazione Sala.

Chiediamo se è vero che mancano le informazioni e la conoscenza del territorio, chiediamo se è plausibile pensare che la mancanza di alcuni interventi derivi in sostanza da un deficit di competenze tecniche.

Ronda: Nel 2021 è uscita tutta una serie di dati che ci danno ragione, perché dicono che ci sono 146 mila nuclei familiari a Milano che non riescono a sostenere un affitto privato perché hanno un reddito da 1.000-1.500 euro al mese. Le istituzioni dovrebbero trarne delle conclusioni in coerenza con i dati di realtà, ma se le traessero farebbero politiche diverse, invece fanno il contrario. Il Comune dice che a Milano c’è bisogno di edilizia convenzionata, sapendo che l’edilizia convenzionata a Milano (che parte da 70-90 euro/m2) sta leggermente sotto al mercato che comunque è altissimo e drogatissimo. E noi continuiamo come un disco rotto a dire «ci vogliono case popolari», «ci vogliono case popolari», «ci vogliono case popolari».

Alietti: Non è vero che i dati non ci sono. Noi ne abbiamo raccolti diversi sulla marginalità abitativa, ma anche l’Unione europea raccoglie dati sull’Italia da trent’anni. Sappiamo quanto spende lo Stato per le case popolari, quanti sono gli affittuari, quanti gli esclusi. E poi abbiamo gli scenari immobiliari, ogni anno esce il quadro per i privati e i fondi immobiliari, ma sono dati buoni anche per noi. Noi ormai i dati li abbiamo, facciamo ricerche da anni con il Comitato inquilini, con il Sicet e ora con il Gruppo di lavoro per le periferie. I dati dicono cose chiarissime e ci siamo anche stancati di ripeterle. I dati ci dicono che c’è un’assenza totale di politiche. Ma questa assenza di politiche non è indifferenza al problema, è una strategia ben programmata per creare costantemente esclusione. L’attacco alle classi popolari è passato anche per la casa, noi sappiamo benissimo che il capitale estrae ricchezza dalla casa.

I soggetti delle esperienze che sono confluite nel Gruppo quindi da tempo raccolgono dati, fanno analisi, avanzano proposte. 

Caffa: Da trent’anni il Comitato inquilini Molise-Calvairate-Ponti chiede l’apertura di un Tavolo di coordinamento interistituzionale partecipato per le periferie e di tavoli tematici. Negli anni la richiesta è stata sottoscritta da vari soggetti, ora è parte integrante delle richieste del Gruppo. Il 2 febbraio 2019 Pierfrancesco Majorino, allora assessore alle politiche sociali, all’VIII Forum delle politiche sociali, d’intesa con Gabriele Rabaiotti, assessore alle politiche della casa, ne ha annunciato l’istituzione con queste parole: «Apriamo il Tavolo di coordinamento interistituzionale partecipato per le periferie che il Comitato inquilini Molise-Calvairate-Ponti chiede da trent’anni e a cui colpevolmente non abbiamo dato risposta». Eletto Majorino al Parlamento Europeo nel 2019, dopo che l’assessore alla casa ha assunto anche l’incarico delle politiche sociali, nessuna assunzione di responsabilità ha fatto seguito a quell’annuncio. Eppure quell’assessore alla casa per anni si è pubblicamente dichiarato convinto dell’utilità e della necessità di questo Tavolo. Un Tavolo partecipato con una funzione di carattere generale, e tavoli tematici partecipati, significa che il Gruppo, oggi soggetto della richiesta, mette a disposizione dell’amministrazione, per servire la città, le conoscenze maturate in tanti anni di lavoro dal basso. 

Vogliamo sapere da loro, che ci si scontrano costantemente, come si spiega la mancanza di risposta da parte delle istituzioni.

Caffa: Il modello Milano è capeggiato da portatori di interesse legati alle immobiliari. E gli scontri nell’ambito dell’amministrazione sono scontri di interessi tra cordate di immobiliari diverse, mentre non vediamo politiche di riconoscimento degli interessi giusti delle classi, dei ceti popolari, dei loro diritti, politiche di coerente risposta. A Milano i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri diventano sempre più poveri: è questo l’ininterrotto processo che caratterizza il Modello Milano. Noi parliamo di Milano, quella delle cosiddette eccellenze, della Scala, della moda, del design, delle università, dell’efficienza, e parliamo dell’“Altra Milano”, quella che i processi di arricchimento dei ricchi rendono sempre più povera. 

Alietti: Abbiamo un degrado continuo delle periferie, il diritto alla casa costantemente negato. E ancora oggi si continua a parlare di case di proprietà, di costruire, ma il mercato delle case private è saturo, lo sanno tutti. La componente maggioritaria che dà rendita ai locatari a Milano sono gli extracomunitari, quasi l’80% delle famiglie migranti paga un affitto. In una città come Milano se non ci fossero i migranti e le classi deboli non ci sarebbe una rendita così potente. Ci sono precisi interessi in gioco. […] Il centrosinistra che ha provato a gestire Milano, sia Pisapia che Sala, ha fatto l’errore di dire: «Ok, accettiamo il modello economico e la finanziarizzazione anche della questione abitativa. A questo giro di interessi diamo la sua parte del bottino, ma facciamo in modo che una parte di quello che guadagniamo (per esempio con gli oneri di urbanizzazione) sia distribuito alle periferie». Questo è stato chiaramente un fallimento totale. Non si è riusciti a distribuire nulla, questo è il dramma.

A questo punto della discussione cerchiamo di ragionare sul fatto che i modi con cui si cerca di intervenire sulla casa dal basso sono di vario tipo, in tanti casi non si cerca nemmeno l’interlocuzione con l’amministrazione della città. Le esperienze sono molteplici, come cooperative di costruzione, occupazioni, ricorsi all’Onu. Perché allora il Gruppo di lavoro si ostina a cercare un interlocutore nell’amministrazione comunale ?

Ronda: Siamo convinti che le istituzioni siano le fautrici di questo stato di cose, ma devono essere loro stesse incalzate e usate. Fino a che c’è uno stato di diritto o uno stato borghese, lo stato borghese deve essere un interlocutore, anche un nemico, ma finché c’è uno stato di diritto il mio interlocutore è anche il destinatario delle mie proposte. Non c’è autosufficienza o autorganizzazione che tenga. Quando alcuni movimenti si auto-appropriano del patrimonio pubblico con le occupazioni, e queste occupazioni sono uno strumento di lotta da mettere in campo, io nutro una divergenza anche di impostazione ideologica. Con altri sindacati e movimenti apriremo una discussione prima o poi, sull’auto-appropriazione dei beni comuni. Un conto è l’occupazione di una casa privata o la lotta serrata alla rendita. Per farla però bisogna avere la capacità di resistere, servono tempo, risorse, forza e capacità politica per resistere allo sgombero, però qui si aprono altri capitoli.

Caffa: Alla fine dell’Ottocento la canzone della parte proletaria della nostra società cantava: «Noi anderem a Roma, davanti al papa e al re, e grideremo ai potenti che la miseria c’è». […] Facciamo sapere in quali condizioni viviamo per chiedere che cambino le politiche che le causano. Cos’altro vuoi che facciamo? […] Ora è decisivo che prendiamo coscienza della necessità del cambiamento. Non basta denunciare e chiedere, a voce e per iscritto, come per decenni dal basso si è fatto, in un processo continuo di ripiegamento. Dobbiamo riprendere a lottare, e per questo dobbiamo cambiare sotto molti decisivi aspetti il nostro pensare e il nostro fare, nella relazione con i senza casa, con gli abitanti delle cosiddette periferie, intese come quartieri di case popolari del degrado e dell’esclusione. Dobbiamo operare per uscire dall’isolamento e proporre presa di coscienza e lotta, non solo in basso, ma in tutta la città.