Lavori,  Numero 5. Giugno-luglio 2022,  Storia e memoria

Quando il sindacato era attento all’autonomia del sociale

Nel numero 4 di OPM abbiamo pubblicato una parte della lunga intervista con Gianni Alioti, antimilitarista e figura storica del sindacalismo genovese. Se nella prima parte ci siamo concentrati soprattutto sul “caso Ilva”, in questa seconda si delinea una biografia singolare, un lungo itinerario che parte dal giovane studente-operaio militante antimilitarista e approda – negli anni Settanta – ai primi passi di un impegno sindacale di fabbrica e poi nel sindacato unitario dei metalmeccanici che durerà vent’anni. Dopo una parentesi in Brasile, è rientrato in Italia come consulente in attività di ricerca e formazione sindacale e quindi come dirigente (dal 2003) dell’Ufficio internazionale della Fim Cisl. 

[Lintervista è stata raccolta da Andrea Bottalico e Carlo Tombola a Genova, il 24 settembre 2021] 

Una famiglia operaia 

Sono nato a Genova, ma mi considero siciliano, perché la mia famiglia è di Messina, sia da parte di padre che di madre. Quando mio padre – che è nato nel ’12 – si sposa nel 1938, aveva un fratello qui a Genova e un’altro emigrato negli Stati Uniti, e con mia madre – che è del ’13 – decide di venire qui a lavorare con la qualifica di fabbro e poi di ottonaio. Nel dopoguerra mio padre ha sempre alternato periodi in cui navigava – molto con la compagnia napoletana di Achille Lauro, che selezionava meno la manodopera per provenienza, raccomandazioni ecc. rispetto alle compagnie genovesi come la Costa – con il lavoro nelle riparazioni navali industriali, “a chiamata”… 

Lavori temporanei, di sette-dieci giorni, per aziende di cui una forse è ancora attiva oggi. Finché nel ’63, lavorando in un intervento di riparazione di una petroliera si è intossicato, senza svenire sul luogo di lavoro. L’intossicazione gli ha provocato un avvelenamento del sangue che poi, in ospedale, nel giro di poche settimane, l’ha ucciso. Avevo undici anni, io sono del ’52. Non ci hanno mai riconosciuto la causa lavorativa, ma nelle intercapedini e nei fondi delle petroliere è frequente che ci siano esalazioni tossiche. 

Invece durante la guerra ha lavorato come operaio all’Ansaldo, ha partecipato agli scioperi del ’43. Mia madre poi ci ha raccontato che aveva portato la tuta insanguinata di un suo compagno di lavoro, ammazzato dai tedeschi perché si erano accorti che fingeva di lavorare. Era una forma di sabotaggio, alle macchine utensili facevano girare a vuoto il pezzo, perdevano tempo ecc., il tedesco se n’era accorto e l’ha steso proprio a bruciapelo. Lui allora aveva portato a casa la tuta per ricordo. 

Sono l’ultimo nato in famiglia, mia sorella ha dieci anni in più, è nata nel ’42, quando mio padre lavorava all’Ansaldo. Poi nel ’44 è nato mio fratello, sotto i bombardamenti, e quindi con una disfunzione alle valvole cardiache che gli ha causato un infarto mortale quando aveva nove anni, rarissimo. In quel periodo i miei abitavano in via Bologna, in una zona di portuali e marittimi. Una volta Genova era molto importante per i marittimi, la stessa sede internazionale della Federazione dei marittimi era a Genova, mentre adesso è accorpata alla Federazione internazionale dei trasporti (Itf) che ha sede a Londra. 

Siamo sempre stati a Genova. Io, l’unico dei tre figli nato nel dopoguerra, ho fatto l’istituto tecnico industriale, mi sono diplomato nel ’71 come perito meccanico, sono stato un po’ meno di un anno disoccupato. Avevo fatto un lavoro estivo in una fabbrichetta – dove poi sono ritornato da sindacalista – che faceva barattoli per inscatolamento, di lamiera soprattutto. Facevano un po’ di subcontrattazione… Apro una parentesi: allora almeno era illegale, perché la norma del Codice civile è cambiata nel 2001, col governo Berlusconi. Alla luce di quella norma avevo vinto delle cause, eravamo riusciti ad imporre, per esempio all’Ansaldo, l’assunzione di personale che era stato inserito nei reparti con ditte terze, ma utilizzando l’organizzazione del lavoro, gli impianti, le tecnologie dell’azienda. L’interposizione di manodopera era una forma illecita. 

Dopo il diploma, una persona che non si sa come era venuto nel nostro quartiere ci aveva chiesto – era estate, noi eravamo studenti e avevamo finito la scuola – se volevamo guadagnare qualcosa per lavorare con lui, che aveva preso la commessa per una parte di contenitori di latta dove andava il cacao, latte in polvere ecc. Praticamente gli avevano decentrato la realizzazione del coperchietto con dentro il foglietto di istruzioni. 

SonoHo durato due settimane, poi basta, si impazziva, era una piccola ditta con catena di montaggio e dovevi continuamente fare un gesto ripetitivo senza interruzioni… Siccome il computo [della produzione, N.d.R.] lo facevano sui foglietti d’istruzioni inseriti nel coperchietto, avevamo preso l’abitudine che ce ne mettevamo due o tre alla volta … per far prima a finire… Era una forma di resistenza spontanea operaia! 

Dall’antimilitarismo al sindacato 

Diciamo che, avendo vissuto l’adolescenza nella seconda metà degli anni Sessanta, allora la cultura, dalla musica alle relazioni tra le persone era permeata da una serie di movimenti interni… Noi nel quartiere eravamo davvero tanti, ragazzi e ragazze più o meno della stessa generazione. La prima azione di coscientizzazione e assunzione di responsabilità l’abbiamo fatta sul tema dell’obiezione di coscienza al servizio militare. Mi ricordo che ogni tanto veniva Enzo Masini, uno dei leader allora di Lotta continua a Genova, abitava a Bolzaneto, noi a Pontedecimo, lui favoleggiava con le sue idee, un po’ maoiste, si immaginava il nostro quartiere come una comune… Questo è il pre-politico! Però tutto comincia da questo movimento sull’obiezione di coscienza. 

Noi decidemmo di volantinare il 4 Novembre [nel 1967 ancora giornata festiva, perché giorno dell’Unità nazionale e delle forze armate, N.d.R.] davanti a diverse discoteche della Val Polcevera: Bolzaneto, Pontedecimo, Sampierdarena ecc. e combinazione quelli che diedero il volantino a Sampierdarena furono fermati, non ricordo se dai carabinieri o dalla polizia, gli furono ritirati i volantini, furono portati in caserma, poi rilasciati. Ma subirono un processo. Me lo ricordo ancora quel volantino, siccome il titolo era «4 novembre 1918, vittoria?». Quando ci fu il processo, il giudice già dal titolo trovò che c’era l’accusa di vilipendio, insieme ad altre cose scritte nel volantino. I due ragazzi fermati rischiavano fino a quattro anni di carcere. 

Come sempre la repressione accelera la presa di coscienza e il processo di politicizzazione. Ma contano anche le circostanze. Noi chiaramente dopo gli arresti organizzammo in maniera molto spontanea delle manifestazioni non autorizzate. Mi ricordo il sabato successivo all’arresto a Pontedecimo – cosa mai successa – dando appuntamento dalla stazione ferroviaria. Lì c’era anche il dopolavoro ferroviario, dove era la discoteca nella quale avevamo volantinato. Ci siamo sciolti all’arrivo di un cordone di polizia. A quel punto per depistarli siamo andati alla Fratellanza, dove c’era l’altra discoteca a Pontedecimo, e abbiamo improvvisato un’assemblea molto partecipata.

Così si è creato un gruppo in Val Polcevera, che da queste vicende ha cominciato a tenersi in relazione, costruendo legami. C’era già qualcuno che faceva riferimento a Lotta Continua. Eravamo inizio anni Settanta, dopo la strage di Piazza Fontana, anche quello comunque un forte elemento di politicizzazione. C’era già qualcuno tra di noi di simpatie libertarie, se non proprio anarchiche.

In quel momento a Certosa, tra Sampierdarena e Rivarolo, arriva dalla Francia un vecchio anarchico, Giuseppe Pasticcio, che è stato vent’anni al confino, era amico di Sandro Pertini, che ha conosciuto a Ventotene, in carcere con lui anche a Santo Stefano. E ne parla anche Pertini nel suo libro [Sandro Pertini: sei condanne, due evasioni. Ovra, Tribunale speciale, galere fasciste: i documenti di una lunga Resistenza, uscito nel 1973 con prefazione di Giuseppe Saragat, N.d.R.]. Pasticcio era emigrato in Francia nel ’48, in quegli anni del dopoguerra, ma decide di tornare in Italia dopo la strage di Piazza Fontana, quando gli anarchici erano molto sulla difensiva, in ritirata, si erano chiusi su se stessi. Lui per reazione viene in Italia, affitta un fondo di un negozio per aprire il circolo, a Genova Certosa, all’inizio del 1970. 

Una parte di noi, tra cui io, entriamo in relazione con lui, siamo tra quelli che aprono il Circolo di studi sociali “Pietro Gori”. Io dipinsi a olio, basandomi su una fotografia di un libro, il ritratto di Pietro Gori, quadro che è ancora oggi conservato nell’Archivio Berneri a Reggio Emilia. Poi tutta la documentazione e i libri e il materiale fu dato ad Aurelio Chessa. Pasticcio era molto amico di questo anarchico- individualista sardo che si portava dietro, itinerante, l’archivio della famiglia Berneri. Nessuno aveva voluto dare all’archivio vera ospitalità, il Comune di Genova perse l’occasione. Alla fine l’archivio andò a Reggio Emilia perché il Comune di Genova non l’ha voluto, questo ti fa capire certe cose di questa città… Siccome feci anche la targa del circolo, gli dissi prima di farla scrivere: «Allora Giuseppe cosa devo scrivere? circolo culturale…?», e lui, che dava sempre dei pugni sul tavolo, gridò «Ma che culturale! Di studi sociali!», anche sul linguaggio lui era esigente! 

Dopo vent’anni di confino Pasticcio aveva ha fatto la Resistenza, poi l’operaio in un’azienda siderurgica a Sestri Levante o a Riva Trigoso, mi sembra la Fit Fabbrica italiana tubi, la cosiddetta “Tubifera”, era membro della commissione di fabbrica, si dimise e decise di andare in Francia perché alcuni, che comunque avevano rispetto per lui, gli dissero – siamo dopo il ’48, anni di molta tensione con i membri di commissione interna del Pci – «Guarda che rischi che ti succeda un incidente sul lavoro, magari grave…». Lui questo me lo raccontò per giustificare la sua partenza per la Francia. Su di lui si è scritto poco… 

In fondo la mia prima formazione politica è di matrice libertaria, anarchica. Quando nel ’72 andai in fabbrica come operaio, continuavo a frequentare e fare attività col Circolo Pietro Gori, e non mi iscrissi subito al sindacato. La fabbrica in cui lavoravo, la Aldo Galante Spa, era in una vertenza aziendale molto dura, tanto che già nel periodo di prova scioperai. A me poi mi tennero, ma un mio amico d’infanzia assunto nello stesso periodo, anche lui in prova, partecipò allo sciopero e alla fine della prova lo lasciarono a casa. Lui era in manutenzione elettrica, era perito elettrotecnico, e lì il capo era un po’ un fascistone, quindi… non era stata un’indicazione aziendale ma del suo capo. In quel momento i rapporti di forza erano tali che nelle aziende, anche quando resistevano alle rivendicazioni dei lavoratori, era difficile che avessero comportamenti antisindacali espliciti. Era un’azienda di 300-320 persone, non grossa… 

La prima vertenza

Questa vertenza fu una sconfitta, c’era ancora la commissione interna, anche se eravamo nel ’72, e – come succedeva anche alla Fiat alla fine degli negli anni Sessanta – composta quasi tutta da persone del posto, che anche in assemblea parlavano in dialetto genovese, sebbene con una composizione sociale di fabbrica che ormai vedeva la presenza maggioritaria di immigrati o comunque di meridionali. Io e altri giovani iniziamo a spingere per cambiare. Ci informavamo, ci documentavamo, già nelle assemblee ponevamo il problema della creazione del consiglio di fabbrica attraverso i delegati di gruppo omogeneo, eletti su scheda bianca… queste erano le innovazioni organizzative. 

A novembre del ’72 si fa la prima elezione per delegati di gruppo omogeneo e vengo eletto anche se non iscritto al sindacato. Poi dopo l’elezione nel consiglio, comincio a partecipare anche alle riunioni del consiglio di zona, decido di iscrivermi all’Flm Federazione lavoratori metalmeccanici, il sindacato unitario. Tra l’altro l’ho fatto coscientemente, trovando anche dei punti in comune tra i miei ideali, non solo le mie posizioni libertarie, ma su una certa modalità di essere del sindacalismo e di alcune persone che lo rappresentavano, e anche dell’esperienza del consiglio di fabbrica eletto realmente in forma democratica, perché poi il delegato di gruppo omogeneo poteva essere revocato in qualsiasi momento dal gruppo omogeneo che lo aveva espresso. Quindi in una situazione che trovavo più giusta, più coerente. 

In realtà non mi iscrivo subito all’Flm ma nel ’74, cioè partecipo già al consiglio di fabbrica, vengo eletto nell’esecutivo di fabbrica, partecipo ai consigli di zona, ma mi iscrivo forse alla fine del ’73, la prima tessera (che ho conservato) è quella del ’74. Perché il ‘73 è l’anno del rinnovo del contratto nazionale, quello dell’inquadramento unico, delle 150 ore… E mi ricordo che in assemblea, in uno dei contratti per l’industria metalmeccanica veramente acquisitivo, in termini di conquiste, votai contro perché a Genova, dove era nato l’inquadramento unico, all’Italsider, all’Italimpianti, all’Ansaldo, aziende che tutte avevano le sedi nazionali a Genova, la spinta all’egualitarismo era molto forte, molto più forte di quello che si manifestava a livello nazionale, soprattutto nell’unità tra operai, impiegati e tecnici. A Genova la percentuale di tecnici e impiegati iscritti al sindacato era altissima, rispetto a Torino o altre realtà dove eravamo ancora a «impiegati e tecnici servi del padrone», a torto o a ragione… però c’era una frattura… E in fabbrica, la critica mia come di altri, ma anche all’Italsider e via dicendo, era che l’inquadramento unico a livello nazionale aveva ottenuto i cinque livelli professionali richiesti, ma sette livelli professionali e otto retributivi con un ventaglio più ampio e un minore intreccio tra operai e impiegati, cioè uno schiacciamento maggiore e una disunità ancora più accentuata. 

La rivoluzione delle 150 ore 

Nella mia fabbrica con le 150 ore ci fu un 10% di lavoratori che si iscrisse alla scuola dell’obbligo, e dovemmo gestirla. Mi ero molto impegnato nel lavoro di coordinamento, perché non ci si poteva assentare in contemporanea nello stesso reparto oltre una certa percentuale. E mi ero impegnato molto anche nei seminari all’università. Per fortuna dopo si fecero delle vertenze aziendali che ebbero risultati positivi, poi ci fu la “vendetta del sistema” come sempre, cioè licenziamenti collettivi per riduzione del personale… 

L’accordo confederale del ’75, oltre all’unificazione del punto di contingenza, estenderà l’80% di integrazione al reddito, nei casi di ristrutturazione o crisi di mercato, su tutto il tuo tempo di lavoro. Prima però la cassa integrazione ti copriva il 66% del salario solo per due giorni alla settimana, quindi se eri in cassa integrazione a zero ore di lavoro, avevi una perdita secca sul tuo salario … non la potevi nemmeno chiamare integrazione, perché non era 66% su 40 ore settimanali, ma solo su 16 ore. Quindi con l’accordo del ’75 e l’unificazione del punto di contingenza ci fu un salto in avanti molto forte, perché portò all’80% (invece del 66%) e su tutte le ore di non lavoro (non solo su 16). 

Prima ancora di quell’accordo, ispirati da un ambiente come quello portuale, portatore dell’idea del salario garantito, noi alla Galante avevamo fatto una lotta aziendale durissima. La Galante era un’azienda che lavorava nel settore edile, faceva infissi, porte, calorvettori ecc., quindi aveva la sua specificità stagionale. Nel 1974 aveva chiesto la cassa integrazione, a cui abbiamo risposto con una lotta durissima. Abbiamo proprio costretto l’azienda a firmare: avevamo fatto il blocco delle merci. Con certi camionisti con la pistola che dovevano portare gli infissi in Calabria, che andavano dall’amministratore delegato e gli dicevano «Ha telefonato don Tal dei Tali, dice che se non parte subito il camion gli spara!». E quella volta anche gli impiegati, i capi, i tecnici e via dicendo, avevano accettato in assemblea la decisione di boicottare la produzione, o meglio di attenersi alle disposizioni del consiglio di fabbrica. Adesso non lo rifarei, obiettivamente, c’era anche dell’ingenuità, allora si usavano i tazebao in fabbrica, e io scrissi “Sabotaggio della produzione!”. Un mio carissimo amico, del consiglio di fabbrica, di Lotta Comunista, mi dice «Ma Gianni, guarda che è una cosa illegale», allora gli dissi «Dov’è il problema? aggiungiamo legale: “Sabotaggio legale della produzione!»… 

A proposito di aneddoti: questa vertenza si conclude con un accordo dove arriviamo a coprire il 98% del salario, ormai era solo una questione di principio dire «arriviamo al 100%». Abbiamo fatto un’assemblea dove non mancava una persona, neanche tra gli impiegati, dove sentivi prima ancora degli interventi che ce l’avevamo fatta… che il consenso all’accordo era unanime. Oh questo mio amico di Lotta comunista ha avuto il coraggio di intervenire criticando il fatto che era solo il 98%! Io dovevo fare le conclusioni, e l’ho un po’ massacrato… Da quel momento, anche persone che non erano certamente radicali, estremiste, magari erano socialisti o del Pci – dicevamo prima dell’assunzione di responsabilità – erano con noi. Uno si espone di più, però il sindacalismo non può vivere senza risultati, questo è un altro insegnamento forte, ci devono essere dei momenti in cui devi mettere un punto, devi sempre finalizzare il conflitto a un risultato, è sempre una mediazione, il problema è la qualità della mediazione. In quel caso, era chiaro che a lui gli hanno riso dietro, anche perché aveva negoziato insieme a noi, aveva partecipato da protagonista a tutto. Se alla fine vuoi mettere soltanto la bandierina, non sei credibile, anzi… Anche nel suo caso, credo che oggi non rifarebbe quell’errore, perché capirebbe che anche dal punto di vista politico, di partito, in quel momento lui doveva fare il raccolto, non farsi ridere dietro! 

La prima tessera: al sindacato unitario

Tieni conto che in quegli anni noi eravamo un vero e proprio consiglio di fabbrica, dove gli operatori sindacali esterni venivano di meno, se non per certi eventi o certe assemblee, perché anche per i rinnovi dei contratti nazionali ci dicevano «Ci siete voi, fatelo voi, siete in grado di farlo», delegavano molto, quello sì. 

La mia scelta per la Fim Cisl essenzialmente è stata perché in fabbrica, in quegli anni, non coglievo anche le differenze di appartenenza, almeno nell’esperienza Flm di Genova, che era molto unitaria, non era come Milano, a Milano non ci fu mai una sede unitaria della Flm. Qui c’era molta unità. E a dire il vero i primi a chiedermi se ero disponibile a fare la scelta confederale e poi andare anche a lavorare nel sindacato furono quelli della Fiom-Cgil, a me che continuavo a essere anarchico… Mi posero, però, come condizione, se avessi voluto fare l’operatore sindacale nella Fiom, di iscrivermi a un partito, a uno dei due partiti, in quel caso alla componente del Psi perché il segretario generale aggiunto della Fiom di Genova era Renato Pezzoli, che certe volte veniva in azienda… Loro quando si avvicinavano a una persona facevano la “cooptazione” sindacale e politica. Mi ricordo che risposi in maniera istintiva «Guardate, io non ho nessun problema con la Fiom, ma perché mi devo iscrivere a un partito? Sono rimasto quasi un anno disoccupato perché non ho voluto prendere la tessera di un partito per essere assunto all’Amga [l’azienda municipalizzata di gas e acqua N.d.R.], mi suona strano che anche per lavorare in un sindacato devo fare una tessera di partito». Quando ho risposto così, lui se n’è stato, basta, ha capito che non c’era niente da fare. 

Era la fine del ‘74, io ero già nella Flm, in pratica c’ero dal ’73. La Fim ovviamente non mi chiese assolutamente nulla, di come la pensavo, di chi ero politicamente, se andavo a votare… E guarda la coerenza: era più a livello di zona, di territorio, che avevo già percepito le differenze tra i sindacati. Il segretario generale della Cisl era Nino Pagani, che veniva dalla segreteria nazionale dei metalmeccanici, savonese, democristiano, uno di quelli che hanno contribuito a far vincere Carniti nella Cisl. Erano kamikaze, soprattutto in una città come Genova, troppo stretti, troppo soffocati dall’egemonia del Pci in tutto ciò che declinava nel sociale. 

Pagani era uno che sapeva di dover giocare a tutto campo. Forse anche quelli della Fim non sarebbero venuti a chiedermi di iscrivermi, ma a chiedermelo fu proprio Pagani, alla luce di un intervento che feci in un consiglio di zona a sostegno di uno sciopero su cui Pagani era d’accordo, mentre la parte comunista era molto restia, perché cominciavano a esserci responsabilità amministrative del Pci sul territorio, allora si giocavano equilibri un po’ più delicati. Lui mi fermò a una manifestazione sindacale, in quel momento aveva dato il la, «reclutate qualsiasi persona, anche gente di Lotta comunista». In quegli anni nelle categorie della Cisl chi era di Lotta comunista per entrare nella Fim o ne faceva già parte perché era di matrice cristiana, o era entrato negli anni Settanta in una fase in cui nella Cgil esisteva un tacito “blocco” nei loro confronti. Io entrai conoscendo anche alcune tesi e alcune posizioni della Fim, soprattutto sull’autonomia sindacale. Pensavo che la Fim era così dappertutto, ma per esempio a Napoli non lo era, a Catania neppure… 

Dalla Val Polcevera a Marghera, e ritorno 

Quando la Fim mi fece la proposta a livello nazionale di uscire a tempo pieno, ed ero molto giovane, lo fece perché in quel momento la segreteria nazionale, soprattutto chi si occupava di organizzazione e formazione, teorizzava gli innesti di delegati giovani, che avevano fatto l’esperienza nei consigli di fabbrica, giovani del Nord Italia da inviare nelle province del Sud, per innestare il cambiamento. Infatti, ero destinato ad andare a Napoli o a Catania. Poi prima di mandarmi decisero di farmi fare un’esperienza di affiancamento a Venezia-Marghera, dove la Cisl era commissariata e c’era in programma un congresso straordinario (era il 1975). 

Andai a fare esperienza a Marghera, utilissima perché in quegli anni Marghera era importante. Ho conosciuto la Cisl dal di dentro, allora i segretari e gli operatori della Fim – per dire come si era ormai immersi nella Flm, nell’unità sindacale – mi fecero fare tutte le assemblee precongressuali, anche nelle grandi fabbriche, Italsider, Fincantieri, nel settore dell’alluminio. Si faceva fatica in quell’anno a capire perché stavi facendo un congresso straordinario come Fim Cisl in piena stagione unitaria. Quando andavo nelle piccole fabbriche verso il Padovano, una realtà molto più simile al resto del Veneto che a Venezia, dove c’erano persone che avevano conosciuto sempre un solo sindacato, spesso magari c’era solo la Fim, era complicato non presentarsi come Flm. Io gliela spiegavo con la una metafora, con il principio cristiano della Santissima Trinità, un sindacato “uno e trino”. perché sennò non riuscivano a capire perché eravamo un solo sindacato (la Flm) e, al contempo, poi eravamo in tre (la Fim, la Fiom, la Uilm)! 

E un’altra cosa che m’insegnò molto, a proposito del rapporto con il territorio, fu l’esperienza che feci a Marghera, di occupazione di una scuola, a Spinea, no forse a Mirano, perché la preside – che era la moglie del sindaco del paese – non voleva fare entrare gli operai a fare le 150 ore. Noi la occupammo, facemmo iniziative ecc. e una battaglia durissima, e lì scoprii che il marito sindaco era democristiano, ma per cultura e mentalità era un fascistoide, come sua moglie. Nel consiglio comunale c’erano 16 consiglieri, 15 democristiani e uno del Pdup, e la giunta del sindaco era sostenuta da 9 democristiani, mentre gli altri 6 erano all’opposizione con quello del Pdup. Uno di questi – era anche quello che aveva più rapporti con gli operai nelle fabbriche e con i contadini, perché comunque nel Miranese c’era ancora una forte presenza agricola – proponeva già allora e si batteva per creare un centro sociale, e stiamo parlando del ’75! 

Per ricapitolare, da un punto di vista teorico ma anche pratico: io a Genova, pur avendo fatto un’esperienza sindacale e politica più intensa, non mi ero mai reso conto – come in quei sei mesi in Veneto – esisteva un’autonomia del sociale dalla politica, cioè che c’era un’autonomia delle dinamiche sociali che prescindeva dalla politica istituzionale o comunque intesa come partiti, come appartenenza di partito. Altrimenti sarebbe incomprensibile che 15 consiglieri comunali dello stesso partito, che avevano praticamente il monopolio dell’amministrazione comunale, si dividessero tra persone in giunta e all’opposizione. Vuol dire che questi che erano all’opposizione, come il proponente dei centri sociali, rappresentavano o quanto meno cercavano di rappresentare nelle sedi istituzionali locali degli interessi che non coincidevano con altri, rispetto magari all’uso del territorio, al consumo del suolo, alle tasse, ai servizi… Se pensi che la preside, la moglie del sindaco, non voleva fare entrare gli operai in scuola perché diceva che avrebbero destrutturato la disciplina! Non poteva dire che erano sporchi, diceva che avrebbero minato l’equilibrio scolastico! 

Come ho detto, in realtà dovevo andare a Napoli, ma accadde che un mio collega era passato dai metalmeccanici alla sede zonale della Cisl. Lui era nella Lega dei metalmeccanici della Val Polcevera, l’avevo conosciuto quando ero in fabbrica, veniva dalla Cmi Costruzioni meccaniche industriali, azienda che faceva parte del gruppo Finmeccanica e fu successivamente incorporata nell’Ansaldo. Il segretario generale della Fim genovese, che allora era Carlo Mitra, disse al nazionale di farmi tornare su Genova perché c’era l’esigenza di sostituire questa persona. E ci fu un po’ un conflitto tra lui e il nazionale e alla fine la Fim nazionale cedette, nonostante a Marghera ci fossi andato diciamo così a spese del nazionale, non ovviamente della Fim di Genova. Però a distanza di anni, mi resi conto che la Fim, la Cisl, il sindacato in quanto tale non era dappertutto uguale. 

Ancora adesso ogni tanto ci incrociamo su Facebook e ricordo questa cosa e ringrazio Carlo Mitra, perché ci furono altre persone che da Genova andarono a fare quest’esperienza al Sud, però furono massacrate! Non so se avete mai sentito parlare di Salvatore Vinci, lui fu uno dei leader di una delle vertenze che anche storicamente viene considerata l’innesto del ’68 nell’Autunno caldo genovese, la Chicago bridge, una ditta d’appalto dell’Italcantieri a Sestri Ponente. 

Allora c’era Italcantieri, c’erano anche i Cantieri navali riuniti a Riva Trigoso e Muggiano, la parte più militare, e poi quando si unirono divennero Fincantieri. Dopo la lotta alla Chicago bridge, lui fu assunto all’Italsider ed era uno dei delegati di punta della Fim, su posizioni più estreme o comunque radicali, allora c’era questa nebulosa della “sinistra extraparlamentare”, ma poi dipendeva anche dalle persone, dalle relazioni… E Vinci andò lui a Napoli e gli fecero fare una vita dura! Un po’ perché in questi casi gli innesti vanno bene se intanto sono condivisi dalla struttura che li riceve. 

Quando sono andato a Marghera, con la previsione che dopo questi sei mesi sarei andato a Napoli, beh sono stato accolto benissimo e quando ho concluso la mia esperienza la Fim di Venezia avrebbe voluto tenermi lì. Son tornato a Genova non perché non fossi disponibile ad altre esperienze, anche perché alla fine la decisione era nelle loro mani. Siccome rientravo comunque in Val Polcevera, la cosa mi andava bene. 

Considera che sono gli anni in cui al Collettivo operaio portuale di Amancio [Pezzolo] e di [Bruno] Rossi, si affiancarono quelli che chiamavamo “collettivo operaio della Val Polcevera” e “collettivo operaio del Ponente”, formati da singoli metalmeccanici delle varie fabbriche che però interagivano tra loro ed erano – siamo nel ’76-77 – nell’area che stava nel movimento con meno steccati. 

Nell’area dei movimenti 

Quando ero in Lega in Val Polcevera continuavo comunque a fare riferimento all’area libertaria, nel frattempo era nata la Federazione anarchica genovese (affiliata a quella italiana, la Fai), che a Genova aveva quattro gruppi, uno in Val Polcevera presso il Circolo Pietro Gori (anche se Pasticcio e gli altri non facevano parte della Fai), uno nel Ponente presso la sede storica della Fai che era a Pegli, poi c’era un il terzo gruppo in Val Bisagno a Marassi e uno il quarto nel centro storico. 

Nel ’76 si fece la lotta per l’autoriduzione delle bollette telefoniche e altre, e il Circolo di studi sociali Pietro Gori fu il riferimento per la Val Polcevera, fu un hub importantissimo per tutta Genova. Mi dicevano: «Come fai a stare nella Flm?», ma lì c’era un forte dibattito, c’era anche un forte consenso sull’autoriduzione, c’era una parte del sindacalismo che la sosteneva, questo mi dava un po’ di spazio. 

Certo, poi venivi in qualche modo schedato, classificato, cosa poi che nel ’77 – io lo so direttamente – portò un segretario confederale della Cgil, in una riunione informale con il segretario della Uil e della Cisl, ad accusarmi di far parte delle Brigate rosse, della lotta armata. Per le posizioni che sostenevamo. Era il periodo in cui nacque quello storico comunicato «Né con le Br, né con lo Stato», nasce da questo mondo. Il comunicato (io c’ero nella sua stesura), che poi è stato manipolato e interpretato, era fondamentalmente un atto di accusa e di rivendicazione dell’autonomia del sociale. Se il sociale è autonomo dalla politica, a maggior ragione è autonomo dallo scontro militare, dalla militarizzazione del conflitto. 

Ora non sto facendo ragionamenti né teorici né politici, però questo è il senso, che era poi la posizione espressa dal Collettivo operaio portuale. Dell’importanza di questi episodi ti rendi conto solo dopo, perché il fenomeno della lotta armata non era così avulso e così lontano dalle fabbriche e dal nostro mondo. Adesso so che venivo tirato dentro a delle discussioni, a dirimere delle questioni… su cui viene da mettersi a ridere! Una sera arrivo tardi in piazza a Pontedecimo, lì mi fermano dei compagni che avevano fatto tutto il percorso di Potere operaio, Autonomia operaia, area Br, perlomeno in quel momento. Si stavano litigando tra loro (non faccio nomi). Uno di loro sosteneva che era meglio andare al concerto dei Gentle jump giant [gruppo di progressive rock, N.d.R.] in quanto più rivoluzionario, che andare a sentire Dario Fo! In fondo era uno scontro tra i tradizionalisti e gli anti-convenzionali! Erano tutti e due miei amici, uno poi è andato in America Latina, a Città del Messico, è scomparso proprio dai radar… Era proprio quello stalinista, che quelle devianze rockettare non le sopportava! 

Penso che facilmente si finisse per rimanere coinvolti o criminalizzati. Tornando alle accuse infondate di quel segretario della Cgil sui miei supposti legami con certi ambienti, qui per fortuna Carlo Mitra – nel frattempo divenuto segretario generale della Cisl Liguria, che mi conosceva da quando ero in fabbrica e sapeva quello che pensavo – e anche quello della Uil, Felice Sanfelice repubblicano e massone, su questa cosa qua mandarono il segretario della Cgil letteralmente a stendere! Tanto che poi chiesero di spostarmi a Sestri Ponente e da lì iniziai a occuparmi di industria militare, di riconversione, perché in Val Polcevera non c’erano fabbriche che producevano armamenti. Me lo proposero nel ’78, ma faceva parte degli avvicendamenti che allora c’erano, perché si riteneva che fosse giusto far fare delle esperienze nuove, non fossilizzarti, ma anche per rompere logiche di rendita di posizione, di potere, di burocratizzazione. E anche perché ti dovevi sempre rimettere in gioco quando andavi in realtà che non conoscevi, settori che non conoscevi, fabbriche che non conoscevi. Dovevi saper anche ascoltare. È fondamentale per un attivista sindacale in queste cose la capacità di ascolto, la capacità di leggere le situazioni reali. 

Però, nonostante tutto, mi ricordo che i delegati delle piccole e medie fabbriche che seguivo, compresi quelli del Pci, fecero un casino inenarrabile, perché lessero il mio passaggio dalla Lega Val Polcevera a quella di Sestri Ponente come un allontanamento. Loro non sapevano di quell’indiscrezione che vi ho detto, che poi penso sia controllabile all’Archivio di Stato. Erano però a conoscenza del fatto che in tutte le riunioni del Pci in zona, in fabbrica ecc. veniva messo in discussione che fossi io l’operatore sindacale. 

Con l’Flm, solo nei grandi gruppi c’erano tre operatori sindacali che seguivano la fabbrica e coprivano le tre sigle, e in Val Polcevera c’era solo l’Ansaldo. Il bello era che in tutte le altre fabbriche, piccole, micro, medie, c’era l’operatore unico. In ciascuna Lega Flm ci si divideva le fabbriche da seguire, e in queste riunioni i funzionari del Pci cercavano di spingere i loro a chiedere che io venissi allontanato da quella determinata fabbrica, non la seguissi più. Siccome mi giudicavano – o mi valutavano – per quello che facevo, per i rapporti che avevo, li ho dovuti convincere… A Genova era molto forte questa dinamica tra sociale e politico, anche tra l’egemonia del sindacato e l’egemonia del Pci. 

Ti faccio un esempio. Nel ’77 e nel ’78 a Genova come Cgil-Cisl-Uil decidemmo di organizzare una grande festa del Primo Maggio ai giardini che sono sopra il Ponte monumentale, alla Spianata dell’Acquasola, facendo concerti, spettacoli, venne anche Pino Daniele a fare il concerto conclusivo. Concerti, stand e mangiare tipico della tradizione (pane, salame e formaggio). Siccome decidemmo che la Festa del Primo Maggio, che iniziava il 30 aprile nel pomeriggio e terminava la sera del 1° maggio, doveva essere completamente gratuita, compreso il cibo, questa cosa creò grossissimi problemi con il Pci, perché loro subito fecero il raffronto «Ma se il sindacato abitua alla gratuità, come c… facciamo alla Festa dell’Unità a giustificare il fatto che comunque devono pagare?». Non era nemmeno tanto, ma facevamo saltare la logica delle feste come autofinanziamento. 

La svolta della manifestazione del 2 dicembre 

Riepilogando, quando torno da Marghera vado in Val Polcevera fino al ’78, quindi in questi anni c’è tutta la fase molto delicata, il movimento del ’77, il fenomeno della lotta armata che a Genova è nato molti anni prima. Poi l’apice e l’inizio del declino è stato raggiunto qui, è stata l’uccisione di Guido Rossa nel ’79. Quando vi dicevo della criminalizzazione, dell’associazione che nel Pci veniva fatta tra radicalismo sociale, conflitto sociale, e appartenenza ai gruppi di lotta armata: questo ha finito veramente per ridurre moltissimo gli spazi di autonomia sindacale nei luoghi di lavoro e nelle fabbriche. Iniziava la politica del sospetto. Dalla grande manifestazione dei metalmeccanici del 2 dicembre 1977 a Roma, con cui alcuni anche dell’area movimentista e dell’autonomia fanno coincidere l’atto conclusivo del movimento del ’77, inizia all’interno del Pci la messa in discussione dell’esperienza unitaria, e soprattutto dell’Flm. Esce un editoriale di Giorgio Amendola su Rinascita, in cui sostiene argomentando che il Pci, maggioranza tra i lavoratori, non era maggioranza nel movimento sindacale. 

Per certi aspetti la cosa era vera, in un consiglio di zona sindacale si poteva verificare di avere alla presidenza tre socialisti, il segretario della Uil socialista, il segretario della Cgil socialista, il segretario della Cisl socialista; o una composizione a geometria variabile, mista. Ma non era vero per l’Flm, perché a differenza della federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil (che aveva creato gli organismi dirigenti sommando quelli di ognuno, cioè in un rapporto paritario, un terzo ciascuno), tutti gli organismi dell’Flm, cioè i comitati direttivi provinciali territoriali e il consiglio generale nazionale, tenevano conto della percentuale di ripartizione degli iscritti al momento del cosiddetto “congelamento”, agli inizi degli anni Settanta, quando si decise di congelare le tessere di Fim, Fiom e Uilm e la conseguente ripartizione percentuale. Da quel momento i nuovi iscritti erano solo Flm. In pochi anni gli iscritti Flm diventarono la maggioranza, perché – sarebbe bene rifletterci oggi, non solo per ripartire le energie e le risorse fisiche e anche economiche dei sindacati, ma soprattutto per organizzare i non organizzati – l’iscrizione unitaria Flm fu uno straordinario veicolo alla sindacalizzazione, soprattutto dei tecnici-impiegati e dei lavoratori delle piccole aziende. 

Nella mia esperienza ho organizzato decine e decine di piccole aziende, da 16-17-18 lavoratori fino a 200. E soprattutto in quelle più piccole, quando riuscivi a organizzarle, era ben diverso proporgli l’iscrizione al sindacato unitario – il solo che loro ne avevano conosciuto! – dopo aver dimostrato che ti davi da fare per tutelare i loro interessi, per fargli ottenere dei risultati sul piano salariale; oppure andargli a chiedere di iscriversi a uno dei tre sindacati, Fim, Fiom o Uilm, che loro facevano fatica persino a identificare! A meno che non ci fosse un legame di partito: se era democristiano tradizionalmente legato alla Cisl o se del Pci alla Fiom ecc. Ma poi non era neppure così meccanico, era più complicato. Nelle piccole fabbriche, per esperienza, ci avrebbero mandati a stendere, non c’era l’obbligo di iscrizione e si sarebbero iscritti in ben pochi se non ci fosse stato il sindacato unitario. Tra i tecnici e gli impiegati c’era il problema di non farsi identificare con un’appartenenza politica, anche se ognuno aveva la sua idea, e non era una cosa da poco. 

In fondo Amendola finiva per sostenere che il sindacato unitario era incubatore di conflitto sociale, e di incapacità di orientamento e di direzione da parte del partito. Perché siamo agli anni dell’unità nazionale, dell’“appoggio esterno” del Pci al governo. Amendola è certamente una persona intelligente, e la manifestazione del 2 dicembre [promossa dall’Flm contro il governo Andreotti, N.d.R.] è l’elemento scatenante, siamo già in piena unità nazionale. Ricordate la classica vignetta di Repubblica, in cui Forattini disegna Berlinguer in vestaglia e pantofole che legge l’Unità e dalla finestra sente passare il corteo che grida gli slogan dei metalmeccanici? Però è forse l’unica grande manifestazione sindacale nazionale che il Pci non condivide. Nonostante ciò non si mette di traverso, non si contrappone apertamente alla Flm, però subisce quella manifestazione, lo ricordo bene. La manifestazione del 2 dicembre 1977 creò anche una grande discussione, un dibattito complicato anche dentro l’Flm, fu il tentativo anche di recuperare un rapporto con una buona parte del movimento del ’77. Bisogna ricordare che nel ’77 ci fu anche l’episodio di contestazione alla Sapienza di Roma, con nei confronti di Luciano Lama, segretario generale Cgil.

Quella manifestazione in certi ambienti del Pci non fu mai perdonata e da quel momento – anche se poi l’Flm continuerà a esistere sulla carta, fino all’inizio dell’84 – il sindacato unitario declina, ma declina anche il dibattito nelle fabbriche. Se fino a quegli anni nelle fabbriche si discuteva soprattutto di organizzazione del lavoro, di pause, di orari, di turni, di ambiente e condizioni di lavoro, di salute e sicurezza, dal 1978 in poi soprattutto nelle grandi fabbriche le riunioni dei consigli di fabbrica ecc. si faranno prevalentemente sull’agenda politica, come se fossero riunioni nazionali, dettate magari dagli editoriali dell’Unità di quella settimana. Viene meno anche la capacità di lettura delle trasformazioni, che stanno già avvenendo in quegli anni, del lavoro e del sistema produttivo. Se andate, per esempio, a vedere la letteratura frutto di ricerche, di analisi sul fenomeno del decentramento produttivo, questa si ferma quasi alla fine degli anni Settanta, come riflessione che nasce anche dall’interno del movimento sindacale. Poi c’è un quasi totale abbandono di riflessione e di analisi sulle trasformazioni, e quindi creando così anche le premesse – secondo me – per andare completamente fuori gioco come sindacati, quando ai cambiamenti organizzativi del sistema produttivo si aggiunge il fenomeno della terziarizzazione e della diffusione del lavoro non protetto. 

La trasformazione del lavoro subordinato 

C’è un altro aspetto, a proposito di linguaggio: noi tendiamo sempre a parlare di “diritti”, e poi il diritto viene sempre ricondotto a una norma contrattuale o di legge, e questo in parte è vero. Ma ciò che viene meno è proprio la protezione sociale, in molti casi. La protezione sociale è più del diritto, perché mette in condizione una persona di esercitarlo, il suo diritto. Tanti diritti non è che siano stati mai cancellati, al di là di quello che vorrebbero, ma non sono effettivamente esercitati. In questo modo si rischia di portare acqua al mulino di coloro che vogliono cancellarli. Il problema è che viene meno la protezione, la tutela sindacale, per chi quei diritti dovrebbe ma non può esercitarli perché non ne ha la forza. Quando dici «oggi con quelle forme di lotta ti metterebbero dentro» (chiaramente negli anni Settanta erano possibili grazie ai rapporti di forza che si erano creati), si ammette implicitamente che si è smantellato un sistema di contrappesi nel rapporto tra capitale e lavoro, soprattutto dalla metà degli anni Novanta, quando si è legalizzata quella moltiplicazione di qualsiasi forma di lavoro precaria. 

Mi ha sempre convinto l’analisi di Sergio Bologna, che si è sempre distaccato dal conformismo anche a sinistra, nel sindacato, nella politica, con cui si sono letti quegli anni. In genere le posizioni più marcatamente di sinistra nel sindacato e nella politica, proprio perché non avevano più la capacità di leggere le trasformazioni, si son solo poste il problema della denuncia o di pensare che tutto potesse essere ricondotto al lavoro a tempo indeterminato, tradizionale della grande fabbrica ecc. Cioè un mondo che esiste sempre di meno, che in molti casi fisicamente non esiste proprio più. Si è perso un quarto di secolo, anni che si potevano utilizzare invece, se si fossero capite quelle trasformazioni, per ricreare le condizioni di tutela e di protezione sociale dentro le nuove trasformazioni. Non dico che sarebbe stato così automatico, così semplice, però te lo devi comunque porre il problema, come ha sempre sostenuto Sergio Bologna. In alcuni casi di sub-contrattazione all’interno della grande impresa può essere naturale, normale che tu riconduci la tutela a un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, però oramai c’è una molteplicità di configurazioni contrattuali e anche di forme di lavoro e di sfruttamento che hanno bisogno di nuove tutele. 

Ormai parliamo di “auto-sfruttamento”, quando postiamo su Facebook, quando siamo noi che creiamo gratuitamente dati, informazioni, conoscenza, che poi vengono utilizzati da chi gestisce le piattaforme. Le devi affrontare per quel che sono, non puoi pensare che sono problematiche che si azzerano riconducendo tutto al lavoro subordinato. Anche perché poi in alcuni casi molte attività sono freelance nel vero senso, in cui precarietà e creatività sono abbinate e anche scelte del lavoratore. Soprattutto il movimento operaio, il movimento sindacale si sarebbe dovuto preoccupare da subito, semmai, di ricondurre nella dimensione autogestionaria – più che del lavoro subordinato – o in forma collettiva, o anche individuale, però garantendo tutele e protezione sociale che invece queste persone non hanno. 

Io stesso, tra le tante esperienze vissute, queste cose le ho capite sulla mia pelle quando sono tornato dal Brasile, dove sono stato dal ’92 al ’94, a San Paolo. Fino al 2001 non ho più ripreso a lavorare a tempo pieno per il sindacato, non ero più in nessun organismo sindacale, ho lavorato come freelance, come precario a tutti gli effetti, infatti sono andato in pensione con 45 anni di contributi perché i sei-sette anni di gestione separata per un certo periodo non si sommavano con quelli della gestione ordinaria Inps. Collaboravo in attività di ricerca, in attività di formazione soprattutto in materia di ambiente di lavoro, salute e sicurezza, in attività di cooperazione internazionale occupandomi di progettazione in alcuni paesi dell’America Latina o dell’Africa, tutte attività di lavoro “coordinato continuativo” o di collaborazione occasionale, anche con il sindacato. 

Per esempio con la Fim a un certo punto collaboravo su ambiente di lavoro, salute e sicurezza nella prima fase in corsi di formazione, e poi come supporto all’attività del sindacato in questa materia, però a tempo parziale e pieno con contratti di lavoro precari. Lì ti rendi conto che non hai nessuna rete di protezione sociale. Non solo, mi ricordo che mi avevano invitato a un consiglio generale, dove sono dovuto intervenire contro il mio amico che era segretario nazionale della Fim, Salvatore Biondo, anche lui messinese come me. L’Inps aveva deciso per tutte queste forme di “lavoro non standard” che si doveva comunque garantire un minimo di contribuzione ai fini pensionistici dal 10 al 16%, che però non ti garantivano niente, pagavi e non ti garantivano niente, non erano nemmeno in grado di dirti come quel contributo sarebbe maturato ai fini pensionistici. Lui nel documento conclusivo del Consiglio generale Fim Cisl aveva proposto di equiparare la percentuale di contributi versati da questi lavoratori precari iscritti alla gestione separata Inps a quella dei lavoratori dipendenti subordinati a tempo indeterminato, ma senza dire che bisognava gradualmente equiparare i contributi, ma garantendo al contempo quelle protezioni sociali e quelle tutele che ha il lavoratore a contratto a tempo indeterminato. 

Poi, volente o nolente, si è creata veramente una separazione nel mercato del lavoro, che si è accentuata quando il sindacato – devo dire soprattutto il sindacalismo confederale, tutti da paraculi – tutte le volte che si sono smantellate alcune tutele, alcuni diritti come la giusta causa in caso di licenziamento [l’articolo 18 della Legge 300/1970, N.d.R.], hanno creato il un doppio sistema, un sistema “duale”: garantisci la continuità del diritto per quelli che rappresenti, perché così s’incazzeranno pure però non ti menano in assemblea, e gli altri – ai quali il diritto non sarà più garantito – manco sai chi sono e non sono, e alla fine saran problemi loro!